Con due Concili così
ravvicinati, che potremmo definire Concilio (869-870) e contro-Concilio (879
-880) per i contenuti antitetici, tanto che il primo è riconosciuto come
ecumenico solo dalla Chiesa di Roma e Occidentale, mentre il secondo solo da
alcune Chiese d’Oriente (gli Ortodossi), si realizza di fatto lo strappo
definitivo tra le due comunità ecclesiali. Le ragioni sono molteplici, ma alla
base c’è una buona dose di presunzione con analoga voglia di prevalere che
rende impraticabile la comprensione reciproca.
In Occidente l’Impero romano non esiste più: i cosiddetti “barbari” (Ostrogoti,
Visigoti, Unni, Longobardi, Franchi, ecc.) hanno dato vita, integrandosi con le
popolazioni del territorio, a regni autonomi che rifiutano ogni tentativo di
egemonia da parte dell’Impero romano d’Oriente al quale, invero, rimane solo il
nome del mondo e della cultura romana. L’ultimo imperatore che parla latino è
Giustiniano, il grande, (482 -527 d.C.).
Eraclio I nel 610 sostituisce come lingua ufficiale il latino con il greco
ellenistico. In poche parole, ormai Oriente e Occidente sono due mondi completamente
estranei tra loro: se hanno qualcosa da dirsi è per litigare su tutto, anche
sulla fede cristiana che dovrebbe solo favorire il dialogo e unire. A
complicare l’incomprensione ci si mette spesse volte l’impossibilità d’intendersi correttamente a causa dei nuovi
linguaggi che vengono formandosi e che danno sfumature e interpretazioni
diverse al medesimo vocabolo: il latino e il greco parlati non sono più quelli
del periodo d’oro, essendosi contaminati con le lingue delle diverse
popolazioni che si sono stabilite nei territori dell’Impero. Il casus belli del Concilio in questione è
il dissidio che dilania il patriarcato di Costantinopoli dove l’imperatrice
Teodora, alla morte del patriarca Metodio, impone come patriarca il monaco
Ignazio (847 – 858), senza attendere la regolare elezione dal sinodo locale.
Ignazio è un rigorista convinto, tanto da alienarsi la simpatia non solo di
buona parte del clero, ma anche della corte. Quando Barda elimina la sorella
Teodora e ne prende il trono, depone Ignazio (858) e lo manda al confino. Barda
a sua volta impone un laico, Fozio, che in pochi giorni riceve tutte le
ordinazioni sacre e la nomina patriarcale. Onde evitare polemiche, viene
organizzato un sinodo che lo intronizza formalmente, dopo di ciò, invia lettere
ai colleghi patriarchi e a Roma per presentarsi come unico legittimo patriarca,
eletto come vuole la tradizione.
Nell’863 papa Niccolò I non riconosce la destituzione di Ignazio e depone
Fozio.
Con l’imperatore Michele III che in una lettera, tra l’altro, disprezzava la
lingua latina, ritenuta barbara, Niccolò I ha uno scambio epistolare molto
duro. Si arriva nell’867 ad un sinodo nel quale Fozio, i vescovi orientali
fedeli e gli imperatori Michele III e Basilio I depongono, accusandolo di eresia,
il papa Niccolò I perché permetteva che al Credo, Simbolo della fede nicena, si
aggiungesse il famoso Filioque, in
merito allo Spirito Santo.
Nell’867 Basilio I, fatto uccidere Michele III, come aveva già fatto con Barda,
che a sua volta aveva ucciso la sorella, l’imperatrice Teodora, per legittimare
il colpo di mano che lo ha portato ad essere unico imperatore, cerca di
recuperare le relazioni con Roma sostituendo Fozio con Ignazio. Basilio I e
Ignazio scrivono al papa Adriano II per comunicargli il ritorno alla normalità
nella Chiesa di Costantinopoli e per
chiedergli l’invio di legati pontifici con il compito di organizzare un
Concilio di pacificazione e comunione piena.
Questa è l’estrema sintesi dei fatti che portano al Concilio di Costantinopoli IV dell’ 869-870, dove c’è poca
teologia, ma si mescolano buoni propositi sull’indipendenza della Chiesa dal
potere politico, questioni disciplinari e antagonismi sulle aree di competenza giurisdizionale tra
i vari patriarcati (la questione bulgara tra Roma e Costantinopoli).
Gli antefatti immediati al Concilio non sono tali da rendere sereno il clima in
cui dovrebbero svolgersi i lavori; infatti a
Roma nel giugno del 869 in san Pietro si tiene un Sinodo, presieduto da
papa Adriano II (867 – 872), nel quale Fozio e gli ordinati da Fozio vengono
deposti, mentre i favorevoli ad Ignazio passati a Fozio possono essere
riammessi solo sottoscrivendo il Libellus
satisfationis di pentimento. Roma sente di essere in una posizione di
forza, quindi per sottolineare il suo primato, come cattedra di Pietro e
avocare a sé le decisioni definitive, pretende che il Concilio ratifichi
semplicemente quanto stabilito nel
Sinodo romano. Basilio I aveva ben altre intenzioni: buttare acqua sul fuoco
delle polemiche interne una volta per tutte tra le due fazioni in lotta.
La prima parte del Concilio (5 ottobre –
5 novembre) si apre con 5 metropoliti e 7 vescovi (solo i fedeli a Ignazio), i
delegati di Antiochia, di Gerusalemme e i legati papali che presiedono
l’assemblea. Col discorso inaugurale l’imperatore Basilio I, nel tentativo di
smorzare le diatribe interne (Fozio - Ignazio), si oppone a quelle che ritiene
richieste eccessive da parte di Roma su Fozio. Comunque il Libellus satisfationis viene approvato, permettendo ai vescovi
pentiti di partecipare. L’assemblea decide che non è corretto condannare Fozio
senza averlo ascoltato. Nella 4° sessione (18 ottobre) ne viene fatta richiesta
formale, sotto la minaccia di non firmare gli atti conciliari da parte dei
legati imperiali. Nelle sessioni del 20 e 25 ottobre, mentre Fozio tace, i suoi
sostenitori difendono il suo e il loro operato e ritengono troppo umiliante il
contenuto del Libellus per poterlo
firmare. I rapporti di forza all’interno dell’assemblea sono chiari, così al
termine della 6° sessione, il 25 ottobre, Fozio e i suoi sono condannati, conformemente
ai desideri di Roma e nella sessione successiva (29 ottobre) sono deposti e
anatemizzati (scomunicati). Nell’ottava sessione (5 novembre) vengono bruciati
gli atti del sinodo foziano dell’867, insieme agli scritti contro Roma e il
Papa.
A questo punto lo strapotere del patriarcato romano non è ben accetto neppure
dai più moderati dei vescovi orientali, così il Concilio è costretto a
prendersi una pausa di movimentata riflessione. I lavori riprendono il 12
febbraio 870 con la IX sessione.
I partecipanti salgono a 67, compresi i legati di Alessandria che aderiscono
subito alle deliberazioni già approvate (Alessandria e Roma sono spesso alleate
contro Costantinopoli). La sessione conclusiva, che ha diversi ospiti importanti
come Boris di Bulgaria (interessato al contendere tra Roma e Costantinopoli
sulla giurisdizione ecclesiastica del suo regno), Ludovico II di Germania con
Anastasio Bibliotecario, si tiene il 28 febbraio alla presenza di 103 padri
conciliari. L’atto finale riconosce il Simbolo niceno-costantinopolitano e i
dogmi successivi come fondamenta della fede, condanna l’iconoclastia, esalta
l’operato del vescovo di Roma e contiene 26 canoni o disposizioni.
I papi Niccolò I e Adriano II sono definiti” strumenti dello Spirito Santo” (canone 2).
Il canone 12 dichiara “non valida” la
consacrazione episcopale a seguito dell’intervento del potere secolare. Il
canone 14 condanna il servilismo degli ecclesiastici al potere civile.
Il canone 21 ribadisce il valore della pentarchia (i 5 Patriarcati) e il
primato di Roma. Il problema teologico del
Filioque aggiunto al Credo niceno da alcune Chiese locali (Spagna e
Francia) è dai registi romani abilmente accantonato. Vittoria più completa non
si poteva prevedere da parte del Vescovo di Roma, ma, come vedremo, sarà
foriera di altre tempeste, delle quali, dopo tanti secoli, se ne vedono e se ne
pagano ancora le conseguenze.