Finalmente!!!
Dopo mille anni e tanti pseudo tentativi, poiché già a priori si voleva non
andassero a buon fine per motivazioni varie (direi di bottega e politiche)
sicuramente non in sintonia con la carità cristiana e la misericordia divina,
si è avverato un sogno che pareva impossibile, mentre doveva essere
semplicemente l’incontro tra due fratelli in Cristo, impegnati a difenderne e a
promuoverne la Parola.
Non è stato facile neanche questa volta, infatti ci sono voluti due anni di
defatigante preparazione con accelerazioni e improvvisi stop; poi le
congiunture astrali e politiche, le
diffuse persecuzioni ai cristiani, la destabilizzazione del Medioriente
con le annesse guerre fratricide, gli esodi drammatici, la globale
secolarizzazione che pone ai margini degli interessi umani la fede, un Papa non
europeo e proveniente dalla fine del mondo, la benedizione di Putin (concittadino
e amico del patriarca ortodosso e sponsor reciproci) pronto a sfruttare
l’incontro per le sue strategie di potere, hanno favorito il faccia a faccia in
terreno neutro, nell’ultimo paese comunista dell’Occidente, con patrocinatore
l’ultimo dittatorello di ideologia marxista. Sono ipercritico? Aspro? Non ho
capito niente? No, solo deluso. Non amo la real
politik, la tollero se è l’unico metodo possibile per fare progressi verso
l’ut unun sint.
Papa Francesco ha dovuto accettare il
compromesso al ribasso pur di aprire un’altra “porta santa” nell’anno della misericordia. Quanto sarebbe stato
bello che non fosse il “casuale” incontro, come due
qualsiasi laici capi di Stato, in una saletta aeroportuale tra due coincidenze
di volo, ma si fosse tenuto con tutta l’ufficialità e la spiritualità necessaria
in S. Pietro o nella Chiesa della Dormizione al Cremlino com’era intenzione di
Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. L’effetto e l’impatto sarebbero stati
dirompenti sull’opinione pubblica mondiale; invece abbiamo dovuto accontentarci
del basso profilo, di parole di circostanza, di un documento diplomaticamente
generico che contiene ovvietà e luoghi comuni del tipo l’uomo per vivere ha
bisogno di respirare e mangiare, pieno di buoni propositi che non impegnano e
poi tutto come prima, perché il buon Kirill a Mosca ha molti avversari nel
clero che conta, che si oppongono ad ogni vera e sincera apertura verso la
Cattedra petrina. Non è un mistero che si aspira a togliere al patriarca di
Costantinopoli il vetusto titolo di Patriarca
ecumenico, cioè dell’intero mondo abitato, che gli garantisce un primato di
riverenza e di rispetto, ma niente di giurisdizionale e operativo, essendo le
Chiese ortodosse autocefale. Molto
importante per capire che cosa s’intenderà fare e come programmare il futuro
prossimo, sarà il Concilio pan-ortodosso (il primo in assoluto) delle Chiese
ortodosse che si svolgerà il prossimo autunno: certamente il Patriarcato di
tutte le Russie non si sottrarrà alla smania, più volte manifestata, di
mostrare i muscoli rappresentati dai 200 milioni di fedeli.
Raccontato il dietro le quinte dello storico incontro e sperando che inizi il
tempo del dialogo, se possibile costruttivo, molto più intenso e significativo
è il percorso pastorale compiuto dal Santo Padre in Messico, dove ha
privilegiato gl’incontri con gli ultimi di un Paese martoriato dalla corruzione
e dal narco-traffico che miete
migliaia di vittime all’anno, oltre alla atavica povertà degli indigeni, specie
nelle regioni del sud come il Chiapas, sottoposto per lungo tempo a un’endemica
guerriglia sostenuta dall’Esercito zapatista di liberazione nazionale, guidato
dal comandante Marcos, che godeva del favore dei ceti più poveri, per
costringere i discendenti degli spagnoli a rinunciare a parte del loro
strapotere politico, economico e sociale a favore dei nativi indios,
considerati dei paria senza diritti e
lasciati al loro triste destino da governi, regionale e centrale, deboli,
inerti, corrotti e, spesso, collusi. A Tuxtla Gutièrres, capitale regionale,
Francesco, nella cattedrale, si è soffermato in preghiera sulla tomba del vescovo
Samuel Ruiz Garcia, vescovo di San Cristobal, morto nel 2011, grande difensore
delle popolazioni indigene, tanto da essere ritenuto contiguo con Marcos e quindi tenuto
costantemente sotto stretto controllo dalle autorità civili e dalle forze antiguerriglia.
Il Papa ha voluto visitare San Cristobal de Las Casas, la città più importante,
protagonista delle rivolte sociali dei chiapanechi
sostenuti, come detto, dal vescovo Garcia. Alla celebrazione della Messa, nelle
lingue locali tseltal, ch’ol e tzotzil,
ha chiesto perdono per le sistematiche esclusioni subite e per le spoliazioni
delle loro terre: “Che tristezza! Quanto
farebbe bene a tutti noi fare un esame di coscienza e imparare a dire
perdono!..... Il mondo di oggi, spogliato dalla cultura dello scarto, ha
bisogno di voi!”.
Dal sud al nord del Paese, a Ciudad Juares, città di confine con gli Stati
Uniti, attraversata e divisa da un reticolato lungo oltre 3mila Km, per
impedire che i profughi disperati possano entrare negli Usa. Juares è la città
più pericolosa e violenta al mondo, in mano a bande antagoniste di trafficanti
di droga, di esseri umani (soprattutto, giovani donne e ragazzi) e dove la
corruzione, specie tra la pubblica amministrazione e le forze di polizia, è
sovrana. Analizzando le tappe del viaggio e gli incontri scelti con cura, balza
in evidenza come Papa Francesco abbia
volutamente messo in secondo piano e ridotti al minimo i contatti con le
autorità di governo, dando al suo viaggio con i gesti e la parola una valenza
esclusivamente pastorale e di sostegno
ad un popolo di emarginati in un Paese ancora lontanissimo dal raggiungere un accettabile
grado di democrazia, di eguaglianza dei diritti civili e sociali garantiti a
tutti e di sicurezza personale.
I viaggi del Papa in America latina hanno fatto conoscere una realtà
sconcertante, agli antipodi dagli standard minimi di una società civile e di
una civiltà sostenibile. L’egoismo sconfinato di pochi sfrutta in modo
intollerabile popolazioni intere, riducendole in uno stato di schiavitù che fa
tanto comodo anche a chi dichiara di farsi carico di un cambiamento radicale,
per cui il risultato finale sono tante chiacchiere che lasciano tutto
nell’immobilismo più completo. Ciò che si muove sono le iniziative per la
sopravvivenza di organizzazioni missionarie: ma può bastare?