N° 6 - Giugno 2022
Il concilio di Nicea (Seconda parte)
di Ratti Antonio

Gli imponenti mezzi messi a disposizione da Costantino e le indubbie capacità di pianificazione del vescovo Osio, potente e ascoltatissimo consigliere per gli affari religiosi dell’Imperatore, permettono in breve tempo di mettere a punto la complessa macchina organizzativa. I vescovi e i loro accompagnatori sono spesati nel viaggio e ospitati nella reggia come fossero funzionari dello Stato. Sono, ovviamente, invitati tutti i vescovi (si parla di mille unità) a capo di comunità piccole e grandi.
Rispondono all’appello circa 300 presuli, quasi tutti provenienti dal Medio Oriente, dove la dottrina ariana si sta espandendo pericolosamente, perché fatta propria anche da figure carismatiche e responsabili di diocesi importanti. La Chiesa occidentale di lingua latina è rappresentata da due presbiteri in qualità di legati del vescovo di Roma, papa Silvestro, dal vescovo di Cartagine, Cecilio, da un vescovo calabrese, Mauro e da Nicasio, vescovo di Digione (Gallia). La sede scelta è Nicea, città non lontana dall’odierna Istanbul, perché si trova nelle vicinanze di Nicomedia, residenza ufficiale dell’imperatore Costantino, che intende presenziare a tutte le fasi dei lavori e prendervi parte in prima persona, in quanto è sua intenzione che si chiarisca in modo definitivo con una verità di fede che tutti devono riconoscere e accettare (dogma) la diatriba violenta sulla divinità di Gesù Cristo e la sua consustanzialità col Padre.
All’Imperatore, non ancora cristiano né battezzato, premono gli aspetti politici e sociali positivi che la pacificazione dei cristiani avrebbe portato al mantenimento dell’unità dell’Impero, il quale, per la sua vastità, manifesta seri segni di cedimento.
Queste preoccupazioni sono avallate dal fatto che è sotto la sua diretta autorità che si renderanno esecutive le disposizioni e i canoni conciliari (comprese le deposizioni e le condanne all’esilio per i più riottosi).
Il Concilio si apre il 19 giugno con un solenne discorso nel quale Costantino sottolinea l’urgenza di superare le divergenze e si conclude il 25 luglio del 325 con un altro discorso di Costantino che invita tutti, pena pesanti sanzioni, a rispettare quanto deciso.
Il clima conciliare è a dir poco turbolento: la discussione sulle tesi di Ario e dei suoi degenera a tal punto che – si narra – san Nicola di Bari abbia schiaffeggiato l’eresiarca.
La posizione di Ario e dei suoi validi sostenitori è chiara: per ribadire l’unicità di Dio prende in prestito il concetto aristotelico di infinito. Come l’infinito è un unico che va oltre il tutto, altrimenti non sarebbe infinito, così l’unicità di Dio è infinita, pertanto non si può ipotizzare un altro infinito.
Se Gesù fosse consustanziale al Padre, avremmo due infiniti: il che è assurdo. In più, Gesù, essendo stato generato dal Padre, non è coevo al Padre. Ne consegue, sostiene Ario, che Gesù, pur essendo un essere perfetto, non può avere la sostanza, né la natura, né l’infinità di Dio. Ario, ottimo conoscitore del razionalismo aristotelico, intende sostenere il monoteismo cristiano con argomentazioni logicamente inappuntabili. La disputa in buona sostanza è legata alla differenza tra l’essere “nato” o “creato” e l’essere “generato” dal Padre. Per Ario i due concetti sono la stessa cosa, mentre per Alessandro, vescovo di Alessandria e suo diretto superiore, la differenza è sostanziale.
E’ necessario tenere a mente che i padri conciliari parlano dialetti di origine greca, ma ormai tra loro molto diversi, quindi le incomprensioni sul significato attribuito anche alle stesse parole, se non spiegate adeguatamente, possono essere frequenti. Inoltre le parole del greco ellenistico come essenza (ousìa), sostanza (ipostasi), natura (physis), persona (prosopon), homooùsion (stessa sostanza) hanno varietà e sfumature di significati desunti dai testi filosofici dei secoli passati e il linguaggio filosofico si mostra inadeguato ad affrontare i temi teologici del cristianesimo. Si comprende come, anche se carichi delle migliori intenzioni, i padri conciliari abbiano oggettive difficoltà a capirsi concettualmente.
A complicare le cose, per esempio, alcuni padri (“pompieri”, mediatori o maliziosi furbetti?) nella stesura del Credo niceno tentano di inserire il vocabolo homoioùsion (sostanza simile), anziché il corretto homooùsion (stessa sostanza): una semplice “i” che,pensavano, avrebbe salvato capra e cavoli.
Confutare le tesi ariane, che, come ho tentato di evidenziare, mostrano una notevole razionalità, è stata impresa durissima: difatti la soluzione trovata presterà il fianco in breve tempo a nuove contestazioni e dispute altrettanto accese che costringeranno la Chiesa a nuovi Concili. Gli ostacoli a trovare un’intesa per le rigide contrapposizioni anche personali, oltre che dottrinali, sono superate dall’abilità diplomatica di Osio, fermo sostenitore dell’homoùsion (consustanzialità) e dalla, neppure velata, pressione di Costantino a favore delle tesi antiariane. Un esempio: è bastata la minaccia di esilio che gli ultimi 18 oppositori, al momento del voto sul documento finale, si riducessero a due, Teona di Marmarica e Secondo di Tolemaide. Ario e i suoi erano già stati allontanati. 
(fine seconda parte)


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