Così viene chiamata, giustamente, la “Settimana Santa”. Questi sono i giorni
dove si concentra il mistero della Passione-Morte-Resurrezione del Signore.
Una ‘settimana’ da considerare e meditare. Soprattutto: il Giovedì santo, il Venerdì
santo, la Veglia pasquale. Sono i giorni del dolore e dell’amore; attraversati
da Gesù con umiltà somma e dedizione massima. L’abbandono, l’ignominia, la
morte di croce come uno schiavo, segnano il Signore totalmente. Potrà davvero
affermare, “tutto è compiuto”.
Ma c’è un ‘terzo giorno’ che si aprirà con una vittoria inaspettata, con una
vita non solo ritrovata, ma gloriosa; con una sconfitta definitiva del male e
perfino della morte.
E’ la Pasqua di resurrezione. Ripercorriamo nell’animo questi giorni grandi e
santi, vivendone la grazia che donano.
Domenica
delle Palme.
E’ ricca di fascino spirituale. “O domenica delle Palme, non sapevo, dirà
il famoso Bossuet, che tu racchiudessi così tanti e grandi misteri”. E’ memoria dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme
in una festa di palme e di olivi. Con la folla che lo acclama, con “l’Osanna”
che fa da gioiosa colonna sonora, e i mantelli stesi, in segno di grande
riverenza al Re mansueto, che entra cavalcando un’asina. Il colore rosso, usato
nella celebrazione liturgica, indica che si
riconosce totalmente la regalità del Signore Gesù, ma che per Lui,
inizia, da questo giorno festoso, un percorso di dolore che presto lo porterà a
versare tutto il suo sangue, “per noi e per tutti…”.
Lunedì-martedì
e mercoledì.
Sono giorni difficili per il Maestro. Gli si preparano tranelli, si cerca il
modo di arrestarlo per farlo fuori, si attizzano polemiche per screditarlo. I
suoi nemici hanno, però, paura della gente che considera Gesù un profeta. Lui
sente che la bufera si avvicina, non la fugge vigliaccamente: sa bene che ormai
si sta attuando quello che da tempo aveva annunziato ai suoi: sta per giungere
“la sua ora”.
Giovedì
santo.
Pane
azzimo ed erbe amare faranno da obbligato contorno alla cena pasquale con al
centro l’agnello. Con gli azzimi, si ricorda la fuga precipitosa dall’Egitto
dove non c’è il tempo di preparare il pane. Si ricorda quindi la disumana
schiavitù là subìta: ecco le erbe amare. Poi, l’agnello col quale il popolo di
Israele celebra il ‘passaggio’, la pasqua del Signore che libera un
popolo oppresso e umiliato, per farne un popolo libero e scelto: il popolo
dell’Alleanza. Anche Gesù vuol consumare la cena pasquale, da ebreo pio e
osservante. Anzi, vuol farla addirittura in un clima di festa, ordinando ai
discepoli di chiedere una sala bella ad
un amico, di prepararla bene, accompagnando tutto con queste tenerissime
parole: “Ho desiderato fortemente di fare pasqua con voi”. Insieme ricordano nel canto degli ‘Inni’ le
‘grandi cose’ che il Signore compì in Egitto per il suo popolo; mangiano
l’agnello, bevono alla coppa, come prescritto nella legge. Ma c’è una novità
inaspettata. Gesù decide di lavare i piedi ai suoi amici.
Era uso in quei tempi compiere questo gesto cortese e rispettoso. Ma era un
compito dello schiavo, o in mancanza di questo, del più giovane del gruppo
(ecco perché questo fatto lo racconta Giovanni: perché sarebbe toccato a lui)
non del padrone, tanto meno di un Maestro. Pietro si ribella: ha ragione, dal
suo punto di vista. Ma Gesù è fermo: “Se non ti laverò i piedi non avrai
parte con Me”. Vuol dare una lezione, vuol lasciare un esempio, questo:
così si ama. Lavare i piedi diventerà il segno della carità e
dell’accoglienza.
Nasce qui il grande comandamento
dell’amore, che Gesù chiama “il comandamento nuovo” – “Mi chiamate
Signore e Maestro e dite bene: lo sono. Se io, Signore e Maestro, ho lavato i
piedi a voi, anche voi fate altrettanto. Da questo vi riconosceranno che siete
miei discepoli”. Ma in quella cena, c’è un gesto che noi conosciamo bene:
Gesù istituisce l’Eucarestia. “Prese il pane… Questo è il mio corpo. – Prese
il calice: Questo è il mio sangue”. Assolutamente inaudito: l’Amore vuol
farsi cibo e bevanda. L’unione sarà assoluta con chi vorrà mangiare di quel
Corpo e bere di quel Sangue. Non solo:”Fate questo!”. Quel gesto, in quella sala della cena, Cristo
desidera che sia ripetuto; vuole che ri-succeda quel che è successo in quella
sera. L’agnello non sarà più quello del rito ebraico; sarà Lui stesso il
Signore che si immola e si dona “per voi e per tutti”. E quel che
commuove, tutto avviene in un quadro di tradimento. Giuda l’ha venduto, il
Maestro; ma a questo gesto infame, Gesù risponderà non con la vendetta, ma con
l’amore.
Giovedì santo: giorno traboccante di carità, di Eucaristia donata, con il
nostro sguardo a quel catino, con l’acqua dei piedi lavati da Gesù, perché
anche noi sappiamo ‘lavare i piedi’ di chi fatica a camminare perché malato,
abbandonato o crocefisso da prove e dolori.
Venerdì
santo.
Il
rosso delle vesti liturgiche, dice il sangue versato e l’amore totalmente
donato. La Chiesa guarda al suo Signore
“che non ha aspetto né bellezza” condannato definitivamente al supplizio
della croce. Oggi, nelle assemblee dei fedeli, si ascolta il racconto della “Passione”
scritto da Giovanni, testimone oculare. Poi, si prega per tutti, quasi un
abbraccio globale, da far esclamare ad uno stupito scrittore, “mai come nel
venerdì santo scopro la Chiesa come una madre…”. Infine, si adora e
si bacia la Croce. Prima, il sacerdote canterà rivolto al popolo: “Ecco il
legno della croce al quale fu appeso il Cristo, Salvatore del mondo”. Si
celebra la morte di Gesù. Si mettono in cuore le sue parole ultime, pronunciate
da quelle povere labbra assetate e tumefatte, dalla croce.
Sono parole di perdono, di tenerezza ”Donna, ecco tuo figlio”, dirà a
Maria perchè accolga Giovanni e noi. Di generosità sorprendente per il ladrone:
“Oggi sarai con me in paradiso”. Di affidamento incondizionato al Padre:
“Nelle tue mani consegno il mio spirito”. Così muore il Giusto. Quella
croce dolorosa e ignominiosa pare chiudere una vicenda: quella di Gesù. Lui è
lì, morto, col petto squarciato dalla lancia, sconfitto, nelle mani di qualcuno
che ne avrà pietà e lo toglierà dal quel legno. Eppure, in filigrana, nel
venerdì santo c’è qualcosa di sorprendente.
Il Tempio di Gerusalemme “sente” che è successo qualcosa di grande: il
“Velo” si squarcia. E’ il segno drammatico che ormai un’esperienza lunga e
importante, è giunta davvero alla fine. Giovanni, mentre narra le ultime ore
sulla croce, sembra che voglia annunziare un dolore grandissimo, ma anche una “gloria”
che appare scandalosa. Sì, racconta un Re che regna dalla croce. Ripensa
certamente alla profezia dello stesso Gesù. “Quando sarò innalzato da terra,
attirerò tutti a me”. In questo giorno santo, la croce è davvero al centro
degli occhi e del cuore. Ma ormai sappiamo che quel legno di morte è diventato
vero trono di gloria.
Veglia
Pasquale.
E’
la più grande di tutte le veglie. Si celebra nella notte che lega il sabato
alla domenica di Pasqua. In questa notte, dopo 40 giorni, ritorna festoso e
gaudioso l’ALLELUIA. E’ la notte che la Chiesa chiama “beata”
perché vi risplende il mistero della Resurrezione, risplende la vittoria di
Cristo sulla morte, si annunzia ancora una volta che per la “santa
Resurrezione” siamo salvati, si diventa figli, ci si apre il cielo di Dio. C’è
una ricchezza in questa notte unica, tutta da scoprire. Il fuoco benedetto,
segno di una creazione anch’essa salvata. Il Cero pasquale al quale si
accendono tutte le candele in mano ai fedeli, per dire che Cristo è la nostra
Luce vera; le letture prolungate della Parola dove viene ripercorso tutto il
disegno di salvezza che il Signore ha attuato nell’Antica e Nuova Alleanza.
Infine, la celebrazione eucaristica che, come non mai, annunzia la morte del
Signore e proclama la sua resurrezione. La festa è grande, gli “Alleluia” che
sovrabbondano, vorrebbero mettere brividi di
gioia nell’uomo salvato, i battesimi che in tante chiese cattedrali
vengono conferiti, soprattutto agli adulti, dicono che Dio non cessa, specie in
questa notte di luce, di chiamare alla Chiesa sempre nuovi figli. La “Veglia”
celebra la risposta di Dio in Gesù, al male, al peccato, alla morte. E annuncia
anche oggi che è l’amore a dire l’ultima parola; che la vita, dopo il breve
sonno della morte, trionferà e sarà più vita.
Cantiamo,
allora, nel cuore, “Gloria a Te, Agnello immolato”.