N° 3 - Marzo 2009
La continenza
di Giuseppe Cecchinelli

 

LA  CONTINENZA

Togliendo subito ogni equivoco sul termine, per continenza intendo il velo omerale con cui il celebrante si avvolge le spalle, le braccia e le mani fino alla base dell’ostensorio con l’ostia consacrata, per innalzarlo sopra la gente e benedirla tracciando con movimenti lenti e misurati un segno di croce in mezzo ai profumi d’incenso.

Dopo anni di servizio al Vespro domenicale avevo maturato la consapevolezza che tutta la funzione era imperniata sulla Benedizione Eucaristica e avevo la certezza di uno di quei piccoli di cui Gesù parla nel Vangelo che in quel segno fosse racchiuso il mistero dell’Incarnazione, il mistero dell’amore di Dio: un amore tanto grande da chiedere come sola risposta un semplice chinare la testa quale segno della nostra fede.

Il canto dei Salmi in latino era, in pratica, una partita giocata tra don Tito e la Superiora che guidavano rispettivamente i chierichetti e le ragazze del collegio con la Jolanda per arbitro e con le signorine  Rocchi e Gilda per guardalinee canore.

La lotta era quasi sempre a vantaggio di don Tito, il quale aveva la capacità di portare scompiglio nel gregge avversario con improvvisi quanto inaspettati  cambiamenti di ritmo e solo raramente era costretto a fare ricorso all’arma letale: Silvio, il campanaro.

Dopo aver chiesto con un sorrisino sarcastico l’assenso dei suoi chierichetti, passava all’azione: sfumava precocemente e repentinamente il versetto di sua competenza e così la voce monocorde e stonatissima di Silvio il campanaro aveva campo libero e dal coro colpiva inesorabile le orecchie della Superiora che, perdendo l’appoggio vocale, era costretta a guidare la sua squadra di rimessa ed a lasciar da parte i vocalizzi.

Alla buona riuscita del Vespro contribuivamo anche noi chierichetti non solo in senso scenografico come contorno al celebrante, ma anche in senso coreografico cioè di movimento attivo e partecipe dei diversi momenti liturgici.

Per servire correttamente il Vespro bisognava essere almeno in quattro chierichetti: il ruolo principale era rivestito da colui che doveva maneggiare il turibolo e tenere acceso il carbone ma senza farlo precocemente consumare, quello minore consisteva nell’aprire o chiudere il piviale ai due lati del celebrante quando doveva innalzare una preghiera oppure mettere l’incenso nel turibolo, ma il ruolo più difficile era tenuto da colui che doveva servire la continenza.

Per tale ruolo occorrevano alcune doti naturali: essere alti, di braccia lunghe ed avere orecchio per il latino. In particolare non bisognava lasciarci sfuggire la parola “TRIDEQUESIMUS” e nel preciso momento in cui veniva pronunciata il chierichetto doveva alzarsi, svolgere elegantemente la continenza e individuati i due fermagli nel bordo superiore afferrarli tra l’indice e il pollice e quindi avvolgere la continenza alle spalle di don Tito che, in ginocchio davanti all’altare, terminato l’OREMUS, alzava le mani per ricevere i fermagli.

L’appoggio della continenza non doveva essere né troppo alto da coprire la testa come poteva accadere nei preti senza collo (alla don Devoto per intenderci), né troppo basso tanto da scivolare in vita come poteva capitare nei preti senza spalle (alla don Romano per non fraintenderci).

Ma l’appoggio deve essere naturale, come le tortine della Vittò, e morbido, come la porchetta di Bertucci.

Ogni minima distrazione poteva essere fatale e fare saltare tutto il meccanismo coreografico: non bisognava dimenticare che la Superiora e le ragazze erano in agguato e pronte a rimettere in gioco la partita regolarmente persa ai Salmi.

Pertanto guai a partire in ritardo, a strusciare la continenza per terra, a temporeggiare nell’individuare i punti chiave dei fermagli, o, peggio che peggio, metterla alla rovescia.

Si poteva incappare nelle ire della Superiora che avrebbe lanciato un pubblico rimprovero a voce alta e nelle conseguenti tirate di orecchio di don Tito o della indispettita signorina Gilda (che però segretamente parteggiava per noi).

Dopo il Vespro, mentre don Tito, la Superiora, l’arbitra e le guardalinee commentavano in sacrestia, il dopo partita vero e proprio si svolgeva fuori della chiesa, dove il convoglio delle ragazze in fila per due era facile preda delle nostre incursioni ed a poco valeva il prodigarsi per mantenere l’inquadramento delle povere suor Gabriella, suor Anna, suor Giuseppina.

Ma soprattutto, più dei nostri attacchi, poteva la voglia di correre delle ragazze che con grida liberatorie cominciavano a scorazzare per la piazza e per le strade del paese per poi inevitabilmente far rientro in collegio.

Oggi non c’è più don Tito, la Superiora vorrebbe esserci ma, per risolvere il problema, hanno fatto fuori il collegio, e il Vespro viene celebrato solo a San Guglielmo.

 In tale occasione la continenza viene tradizionalmente servita dallo specialista in assoluto, un nicolese che vive in una città vicina: per lui la continenza è come il drappo rosso per un elegante matador madrileno.

Ma se volete gustare pienamente tutta la liturgia, Attenti al TRIDEQUESIMUS.

                                                                                Giuseppe Cecchinelli

 

 

 

 


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