Le circostanze della
storia, a volte, sono davvero singolari. Mi è venuto inevitabile pensarlo alla
notizia, a fine marzo, che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella,
accogliendo la richiesta presentata dal Comune, aveva firmato il decreto per il
conferimento a Luni del titolo di "Città". Credo che il sommo poeta Dante
Alighieri mai si sarebbe aspettato che proprio Luni potesse infatti risorgere
come “città”: quella Luni che era stata da lui indicata, prima ancora di altri
luoghi, come segno indelebile che anche “le
cittadi termine hanno”. E che, per ironia della sorte, ciò avvenisse
proprio all’inizio dell’anno dedicato, in Italia e nel mondo, alle celebrazioni
culturali a ricordo del settimo centenario della sua morte, avvenuta a Ravenna
nel 1321. Il riferimento è ai celebri versi del XVI canto del Paradiso. In quei versi, l’avo
Cacciaguida vuol descrivere a Dante i cambiamenti avvenuti nella Firenze del duecento, nel giro di alcune generazioni. Cambiamenti che hanno portato
l’estinzione di antiche famiglie e il subentrare, non sempre positivo, di
nuove. E così: “Se tu riguardi Luni ed
Urbisaglia/ come son ite, e come se ne vanno/ di retro ad esse Chiusi e
Sinigaglia,/ udir come le schiatte si disfanno/ non ti parrà cosa nuova né
forte,/ poscia che le cittadi termine anno”.
Luni, dunque, antica e
gloriosa città romana, cantata dai poeti latini che Dante ben conosceva,
diventa nella Commedia il simbolo
della caduta di quanto nella visione del poeta è più importante di altro, la
“città”, intesa come luogo principe della comunità umana. La “città” – che per
Dante poi vuol dire in primo luogo Firenze, ed è dunque motivo insieme di
rabbia e di nostalgia profonda – è il luogo primigenio delle aggregazioni,
prima ancora che dello stato. Il che, a ben pensarci, è intrinseco alla natura
stessa dei fiorentini, anche di adozione, come ci dimostra la biografia di un
grande sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, che, sfidando le divisioni e i muri
della guerra fredda, aveva voluto organizzare, negli anni Cinquanta del secolo
scorso, il “convegno mondiale delle città”, come segno e proposta di pace a
tutti i livelli. Ma torniamo a Luni. Dante, intendiamoci bene, aveva ragione.
Il “se tu riguardi” del primo dei
versi citati ci fa quasi vedere il poeta che, probabilmente salito al monastero
della Santa Croce di capo Corvo, aveva di fronte la distesa dell’antica città
ormai distrutta, dagli uomini e dalle intemperie. Nessuno, al suo tempo, con il
mare che inesorabilmente si ritirava, lasciando il posto alla malaria, avrebbe
potuto pensare che quella “città” tornasse in vita. Certo, si potrà dire che il
riconoscimento odierno è altra cosa, visto che la zona archeologica è rimasta
tale, con tutti i vincoli del caso. Ma non c’è dubbio che, nel giro di pochi anni,
la “doppia mossa” delle amministrazioni che, con il consenso popolare, ha
portato prima al cambio di nome del Comune, da Ortonovo a Luni, e poi alla
richiesta del titolo di “città”, a quella zona archeologica, con tutta la
storia millenaria che si porta dietro, resta inevitabilmente legata.
Fosse vivo, Dante,
curioso com’era quant’altri mai, verrebbe di corsa a investigare come e
qualmente gli uomini e le donne di sette secoli dopo siano riusciti a
smentirlo. Ma certo non si sarebbe risentito, anzi. Udendo magari di lontano i
versi di un altro poeta, Ugo Foscolo, le cui spoglie dormono il sonno perenne
in quella stessa chiesa di Santa Croce dove c’è pure la tomba che lo aspetta, e
che non lo avrà. E’ Foscolo, infatti, che nei Sepolcri ci ammonisce a comprendere, nel cammino del tempo e quindi
della storia, “l’alterna/ onnipotenza
delle umane sorti”. Tanto alterna da arrivare persino a smentire, potremmo
dire in modo clamoroso, l’assunto del più grande poeta che l’Italia abbia dato
alla cultura mondiale. Dante dunque ben si potrebbe consolare con le parole
che, nel III canto del Purgatorio, prima
del verso che rimanda di nuovo alla nostra terra, “tra Lerice e Turbia”, egli fa pronunciare al suo maestro e guida,
Virgilio: “State contenta, umana gente,
al quia,/ che se possuto aveste veder tutto/ mestier non era parturir Maria”:
se sapessimo sempre tutto, e questo vale anche per Dante, non ci sarebbe stato
motivo che Maria generasse il Figlio di Dio … Non c’è dubbio che tutto questo
renda più bello, e a suo modo più ricco e originale, l’anno dantesco che stiamo
vivendo.
Egidio Banti
P.S. – Dei legami di
Dante con la Lunigiana, e delle radici cristiane che li contraddistinguono, si
parlerà a partire dalle 10 di sabato 29 maggio, vigilia della festa del Preziosissimo
Sangue, in un convegno online promosso dal Centro “Niccolò V” di Sarzana e
dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Relatori saranno tre
docenti universitari esperti dell’argomento. Il programma e le modalità di
partecipazione saranno resi noti, tra l’altro, sulla pagina FB del Centro