Sono innegabili gli
straordinari passi avanti compiuti negli ultimi tempi dalle scienze mediche.
Malattie che sembravano incurabili, e destinate a portare in breve tempo alla
morte della persona oggi possono essere affrontate con terapie adeguate e molto
meno invasive: pensiamo alle diverse forme tumorali, all’Aids e ad altre
ancora. Certo, la malattia e soprattutto la morte, su questa terra, non
potranno essere eliminate: questo, ci spiegano i testi sacri, è il frutto della
“colpa antica” dei nostri progenitori. Ed è comunque, anche al di fuori della
religione, la caratteristica fondamentale e ineliminabile della condizione
umana. La scienza, però, compie passi avanti notevolissimi, così non solo la
durata media della vita si allunga, ma la qualità e l’intensità delle cure si
adeguano sempre di più alle esigenze della persona malata e a quelle dei suoi
familiari.
Basti vedere come sta cambiando la struttura stessa dell’organizzazione
sanitaria e ospedaliera. Sino ad alcuni decenni fa (si veda il caso
dell’ospedale di Sarzana progettato da un luminare dell’architettura quale
Giovanni Michelucci) si realizzavano ospedali molto grandi, destinati ad
accogliere un numero ingente di malati e, soprattutto, a trattenerli per
periodi abbastanza lunghi. Oggi i nuovi ospedali puntano invece sulle
tecnologie e sul digitale, quindi sugli strumenti di analisi diagnostica, di intervento
chirurgico e di cura. Gli spazi per le “corsie” vengono drasticamente ridotti
perché le degenze medie sono scese a pochi giorni soltanto, anche per malattie
molto complesse. Se mai, si realizzano strutture per le cure intermedie, quali
le degenze infermieristiche, la riabilitazione e, ancora e sempre di più,
l’assistenza a domicilio. Il perché è chiaro: le scienze mediche consentono di
guarire prima e in maniera sempre più dignitosa.
La malattia, però, non scomparirà mai dalla faccia della terra e, rispetto a
quelle un tempo più conosciute e diffuse, se ne aggiungono o ne riemergono
altre. A cominciare da quelle legate al cosiddetto disagio esistenziale, alla
fatica di vivere, di riconoscere se stessi come persone umane. E’ un paradosso,
perché queste “nuove” malattie emergono e dilagano proprio quando la scienza e
la tecnica dovrebbero consentire vite migliori, ma i paradossi esistenziali (se
volete, le nostre contraddizioni di ogni giorno) sono frutto anch’essi della
“colpa antica”, e richiedono aiuto e solidarietà fraterna.
Forse è anche per questo che papa Francesco, sempre avanti sui tempi, ha inteso
dedicare il messaggio per la Giornata del malato 2020 al tema, tratto da un
passo del Vangelo di Matteo, “Venite a me, voi tutti che siete stanchi ed oppressi”.
La Giornata del malato venne indetta da san Giovanni Paolo II nel 1992, e si
tenne per la prima volta nel 1993, dopo la sua guarigione da un tumore di
natura benigna che lo aveva colpito al colon retto. Per ringraziare la Vergine,
la Giornata fu indetta per la ricorrenza della Madonna di Lourdes, l’11
febbraio, e da allora così sempre è avvenuto. Ogni anno il papa diffonde un
messaggio specifico sul tema della malattia, nella visione cristiana.
Non deve dunque apparire singolare il richiamo, in questa circostanza, alla
stanchezza del vivere e all’oppressione. Non sono solo queste le malattie del
nostro tempo, perché ci sono sempre quelle tradizionali, come detto sopra, ma è
certo che l’uomo e la donna del XXI secolo sempre più vivono come oppressi da
un sentimento diffuso di ansia e di disagio esistenziale, che da un lato
diventa spesso motivo di ulteriori patologie (ce lo spiegano sia i medici sia
gli psicologi), dall’altro porta non di rado a gesti ripetuti ed anche estremi
di violenza: alcool, droga, omicidi-suicidi, e quant’altro.
La malattia, scrive Francesco, ha bisogno di “ristoro”, e questo ristoro è Gesù
Cristo: “In Lui, infatti, le inquietudini e gli interrogativi che, in questa
“notte” del corpo e dello spirito, sorgono in voi troveranno forza per essere
attraversate. Sì, Cristo non ci ha dato ricette, ma con la sua passione, morte
e risurrezione ci libera dall’oppressione del male”. Ed è bello che il papa,
riferendosi alla parabola evangelica del “Buon Samaritano”, dica che “La Chiesa
vuole essere sempre più e sempre meglio la “locanda” del Buon Samaritano che è
Cristo, cioè la casa dove potete trovare la sua grazia che si esprime nella
familiarità, nell’accoglienza, nel sollievo”. Mi sembra bello per due ragioni:
nel primo anno del suo pontificato, Francesco aveva indicato la Chiesa come
“ospedale da campo” per le anime, ma quindi anche per il corpo di tutti noi.
Oggi la presenta come “locanda del Buon Samaritano”. Non c’è contraddizione tra
queste due espressioni, bensì continuità. Una continuità che, ancora una volta,
unisce la dimensione psichica e quella corporale della persona: la luce della
grazia di Dio si protende su entrambe, e tanto più nei momenti difficili.
Questa, per me, è una volta di più la Chiesa del XXI secolo.
La seconda ragione risiede nel fatto che l’espressione “locanda del Samaritano”
è la stessa che la diocesi della Spezia – Sarzana – Brugnato ha utilizzato già
alcuni anni fa per denominare la struttura di accoglienza per i senza tetto che
la Caritas ha allestito a Pegazzano. E’ bello dunque che, sia pure in un
contesto ancora più ampio, papa Francesco la faccia propria oggi.
Il messaggio si rivolge poi agli operatori del settore sociale e sanitario,
ricordando loro che, quando curano i malati, hanno di fronte delle persone, non
solo degli individui. Per cui, dice il papa, più che di “malato” si dovrebbe
parlare di “persona malata”. E’ lo sviluppo del ragionamento fatto prima: la
persona del XXI secolo, in molte parti del mondo, crede di essere forte,
potente, quasi di essere pari a Dio, ma non lo è, e, alle prime difficoltà, si
abbatte e si distrugge da sola: ecco dunque le tendenze al suicidio, più o meno
“assistito”, e all’eutanasia, che sembrano venire incontro alla dignità
dell’uomo, e vanno invece in direzione opposta.
La soluzione, come sempre, è in quella dignità che certo abbiamo dentro di noi,
ma che, i cristiani ben lo sanno, solo Gesù Cristo avvalora e ricostituisce
nelle difficoltà: “Dove più o due di voi sono riuniti nel mio nome, Io sono con
loro”. Due o più: la malattia, di qualunque genere essa sia, non si affronta e
non si vince da soli, ma insieme agli altri, e l’amore fraterno si manifesta di
più proprio in quelle circostanze difficili. Per cui anche la morte, quando
inevitabilmente arriva, non è solitudine estrema, ma ricchezza di vita. Ecco il
senso vero, molto bello e quanto mai attuale, delle parole del papa.