N° 8 - Ottobre 2019
Il Vangelo di ottobre
di Claudia Pugnana

                 

Domenica 3 Ottobre 2019 (27° Dom. T.O.) – Lc 17, 5-10

Gli Apostoli si rendono conto della loro fragilità di fronte all’ideale di vita che Gesù propone loro quando consiglia il distacco totale dalla ricchezza e la condivisione dei beni con i poveri e pertanto chiedono con enfasi: “Aumenta la nostra fede!”. Ma la fede, consapevole ed incondizionata fiducia in Dio, non si può misurare: o c’è o non c’è!
Gesù
lo spiega con la similitudine del seme di senape, uno dei più piccoli semi esistenti in natura, dal diametro di 1-2 millimetri che, sviluppando, diventa uno degli alberi più grandi che, come ci dice Marco nel suo Vangelo, offre rifugio agli uccelli tra le sue fronde. Ebbene, anche una fede quasi invisibile, come il seme di senape appunto, ha al suo interno una forza incredibile che permette di compiere, a chi la possiede, opere strabilianti con il minimo sforzo.
Chi ha fede deve comportarsi come il servo della parabola con cui si conclude il Vangelo di oggi: siamo chiamati a non stancarci mai nello svolgere il nostro servizio (quello che Dio ci ha assegnato nel momento del nostro esistere, “tagliato su misura” per noi, adeguato alle nostre capacità) fuori dalla logica dell’interesse e del tornaconto personale.
Essere servi inutili” si può tradurre in “essere uomini senza guadagni, senza tornaconto”, poiché il “ guadagno” è fuori dalla persona che opera, è nell’incontro con gli altri quando è accoglienza e dono di sé.
Il mese di ottobre è il “mese missionario”, un tempo che ci invita a riflettere sul nostro compito principale in quanto Cristiani: lavorare al servizio di Dio e dei fratelli ….. e i servi fedeli Dio li fa sedere a mensa e li serve.( Lc 12,37 )

Domenica 10 Ottobre 2019 (28° dom. T.O.) – Lc 17, 11-19  

Oggi il Vangelo ci fa riflettere sulla riconoscenza, un atto fondamentale nella manifestazione del possesso di una fede matura.
L’episodio narrato è la guarigione dei dieci lebbrosi.

Una malattia spaventosa la lebbra, così  deturpante e ripugnante  da considerarla generata dal peccato, così distruttiva del corpo e della fisionomia del malato da spingere ad emarginare dalla società, per legge, il lebbroso: distruzione del corpo e della relazione sociale.

I lebbrosi, protagonisti del Vangelo di Luca, vedendo Gesù, da lontano, poiché per legge non si possono avvicinare, Gli chiedono un intervento d’amore: “Gesù, Maestro, abbi pietà di noi!”.

Nel Cristianesimo la pietà ( in latino “pietas” ) non è semplicemente compassione, ma è l’insieme di tutti quei sentimenti ( rispetto, dedizione, amore,..) che si provano nei confronti di chi consideriamo “superiore” a noi ( p.es genitori, maestri… e, soprattutto, Dio). Quando dunque si chiede la pietà di Dio, Gli chiediamo di considerarci “superiori a Lui”!... Questo non Gli “costa fatica”, non lo” snatura” come Dio, anzi Egli si vede “riconosciuto” poiché è “mite ed umile di cuore”.

Dunque appena lo sguardo di Gesù vede la loro sofferenza li invita ad andare dai sacerdoti del tempio. Non è che li manda da altri poiché non può o non vuole far nulla per loro (come talvolta veniamo trattati da taluni medici oggi…) ma perché spettava ai sacerdoti del tempio, secondo la legge mosaica, certificare la guarigione dalla lebbra: in questo invito è contenuta la promessa che prima di giungere al tempio saranno sanati. E così accade: durante il tragitto guariscono tutti. Uno soltanto di loro però, un samaritano, che gli Ebrei ritenevano appartenere ad una stirpe eretica e pagana, torna da Gesù per ringraziarlo, lodando Dio a gran voce (come a gran voce Gli ha chiesto pietà).

E
  dopo aver chiesto  dove fossero andati gli altri nove, Gesù  dice al samaritano:” Alzati e va, la tua fede ti ha salvato!”. Egli non è guarito solo nel corpo, ma anche nello spirito poiché ha dato più importanza al Donatore che al dono ricevuto. Non è corso al tempio per avere la certificazione della sua guarigione, con la fretta di chi ha bisogno di tornare a vivere tra gli altri, di chi vuole riprendere possesso della propria vita: è tornato indietro per glorificare chi gli ha fatto quel dono, non per educazione o sensibilità personale ma come atto di fede.
Soltanto la fede che ha come “contenuto” la persona di Gesù Messia e la Sua resurrezione  può salvare l’uomo.

Domenica 17 Ottobre 2019 ( 29° Dom. T.O.) – Lc 18,1-8  

Un altro componente veramente essenziale della fede è la preghiera perseverante e Gesù, per rendere più comprensibile questa affermazione presenta nel Vangelo di oggi il caso di una povera vedova. Essa è sola e senza mezzi per difendersi dalle angherie a cui è sottoposta. Convinta di essere vittima di ingiustizia si rivolge ad un giudice. Ma non trova una persona che svolge bene il suo compito: il giudice che ha in mano la sua causa è un uomo senza cuore, che non ha rispetto né di Dio né delle persone per le quali dovrebbe svolgere il suo servizio. La donna però insiste nel perorare la sua causa con tale tenacia da costringere il giudice ad accogliere la sua richiesta, non tanto per senso del dovere, che non ha, quanto per togliersi di torno quella seccatrice. Usando questa parabola Gesù esorta  i suoi discepoli a pregare Dio con perseveranza e fede incrollabile. Egli non è un giudice ingiusto o disonesto ma Padre. Riconoscendolo come Padre dobbiamo non dobbiamo considerarlo indifferente alla nostra preghiera: dobbiamo soltanto porci in atteggiamento di figli, senza pretendere il “come” e il “quando deve aiutarci, certi però che non permetterà la nostra distruzione ma che ci salverà.
Gesù pone poi una domanda inquietante:” Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà fede sulla terra?”
E guardandoci attorno, ma anche dentro di noi, ci vediamo circondati da un pessimismo soffocante, poiché siamo ormai abituati a “schiacciare un bottone” ed ottenere tutto ciò che vogliamo. Non esercitiamo più la virtù della pazienza, spinti da quel” tutto e subito” che la cultura dominante ci illude di ottenere, mascherandone o non ritenendo indispensabile la qualità, materiale e spirituale, di ciò che vogliamo ottenere.
Chi oggi conserva ancora la perseveranza è la Chiesa che incessantemente prega Dio, impetrando il trionfo della Giustizia per tutti. 

Domenica 24 Ottobre 2019 ( 30° Dom. T.O.) – Lc 18, 9-14

Questa parabola, narrata soltanto dall’evangelista Luca, ci illustra due possibili modi di vivere la religiosità, svelati nel momento della preghiera.
Abbiamo due uomini, saliti al tempio per pregare appartenenti a due gruppi sociali differenti: uno è fariseo, l’altro è pubblicano.
I Farisei al tempo di Gesù erano considerati (e si consideravano) “santi”. Studiavano ed applicavano alla lettera i precetti religiosi sanciti nelle Sacre Scritture (come dice il fariseo che sta pregando nel tempio), badavano molto di più all’apparenza del loro agire rispetto alla sostanza, spesso si ponevano in modo altezzoso rispetto agli altri Ebrei, considerati meno graditi a Dio.
Per loro Gesù non manifesta grande simpatia, arrivando a definirli “razza di vipere “ e “sepolcri imbiancati”, ovvero velenosi (pericolosi per la vita) e ingannevoli ( poiché mascheravano con l’ipocrisia il vero senso delle cose).
I pubblicani erano “bollati” come peccatori per il fatto che maneggiavano denaro aiutando i dominatori romani nella riscossione delle tasse.
Il pubblicano che sta pregando nel tempio non segue la liturgia prescritta per la preghiera, sia nella sua postura ( sta a capo chino e si batte il petto!) sia nelle parole che rivolge a Dio, tanto da meritarsi il disprezzo del “perfetto cerimoniere” fariseo.
La preghiera del fariseo però non riconosce Dio come interlocutore: il fariseo si auto-incensa, elencando  la lista dei suoi meriti, e non chiede nulla a Dio, ritenendosi autosufficiente. Dall’altra parte il pubblicano, sapendo di essere nel peccato, prova vergogna nei confronti di Dio e degli altri fedeli presenti nel tempio e se ne sta in un punto poco in vista, chiedendo la pietà di Dio.
Gesù sconvolge gli astanti quando afferma che il pubblicano, e lui soltanto, tornò a casa giustificato, cioè ottiene il perdono e la compiacenza di Dio (Sal. 51” Un cuore affranto ed umiliato tu o Dio non disprezzi”)
La
frase finale ribadisce che il prototipo del vero credente è colui che non confida, in sé e nelle proprie opere, anche se buone opere, ma confida in Dio, il quale esalta chi si umilia e umilia chi si esalta.



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