Domenica 3 Ottobre 2019 (27°
Dom. T.O.) – Lc 17, 5-10
Gli Apostoli si rendono conto
della loro fragilità di fronte all’ideale di vita che Gesù propone loro quando
consiglia il distacco totale dalla ricchezza e la condivisione dei beni con i
poveri e pertanto chiedono con enfasi: “Aumenta la nostra fede!”. Ma la fede, consapevole
ed incondizionata fiducia in Dio, non si può misurare: o c’è o non c’è!
Gesù
lo spiega con la similitudine del seme di senape, uno dei più piccoli semi
esistenti in natura, dal diametro di 1-2 millimetri che, sviluppando, diventa
uno degli alberi più grandi che, come ci dice Marco nel suo Vangelo, offre
rifugio agli uccelli tra le sue fronde. Ebbene, anche una fede quasi
invisibile, come il seme di senape appunto, ha al suo interno una forza
incredibile che permette di compiere, a chi la possiede, opere strabilianti con
il minimo sforzo.
Chi
ha fede deve comportarsi come il servo della parabola con cui si conclude il
Vangelo di oggi: siamo chiamati a non stancarci mai nello svolgere il nostro
servizio (quello che Dio ci ha assegnato nel momento del nostro esistere,
“tagliato su misura” per noi, adeguato alle nostre capacità) fuori dalla logica
dell’interesse e del tornaconto personale.
“Essere servi inutili” si può
tradurre in “essere uomini senza guadagni, senza tornaconto”, poiché il “
guadagno” è fuori dalla persona che opera, è nell’incontro con gli altri quando
è accoglienza e dono di sé.
Il
mese di ottobre è il “mese missionario”, un tempo che ci invita a riflettere
sul nostro compito principale in quanto Cristiani: lavorare al servizio di Dio
e dei fratelli ….. e i servi fedeli Dio li fa sedere a mensa e li serve.( Lc
12,37 )
Domenica 10 Ottobre 2019 (28°
dom. T.O.) – Lc 17, 11-19
Oggi il Vangelo ci fa
riflettere sulla riconoscenza, un atto fondamentale nella manifestazione del
possesso di una fede matura.
L’episodio narrato è la
guarigione dei dieci lebbrosi.
Una
malattia spaventosa la lebbra, così
deturpante e ripugnante da
considerarla generata dal peccato, così distruttiva del corpo e della
fisionomia del malato da spingere ad emarginare dalla società, per legge, il
lebbroso: distruzione del corpo e della relazione sociale.
I
lebbrosi, protagonisti del Vangelo di Luca, vedendo Gesù, da lontano, poiché
per legge non si possono avvicinare, Gli chiedono un intervento d’amore: “Gesù,
Maestro, abbi pietà di noi!”.
Nel
Cristianesimo la pietà ( in latino “pietas” ) non è semplicemente compassione,
ma è l’insieme di tutti quei sentimenti ( rispetto, dedizione, amore,..) che si
provano nei confronti di chi consideriamo “superiore” a noi ( p.es genitori,
maestri… e, soprattutto, Dio). Quando dunque si chiede la pietà di Dio, Gli
chiediamo di considerarci “superiori a Lui”!... Questo non Gli “costa fatica”,
non lo” snatura” come Dio, anzi Egli si vede “riconosciuto” poiché è “mite ed
umile di cuore”.
Dunque
appena lo sguardo di Gesù vede la loro sofferenza li invita ad andare dai
sacerdoti del tempio. Non è che li manda da altri poiché non può o non vuole
far nulla per loro (come talvolta veniamo trattati da taluni medici oggi…) ma
perché spettava ai sacerdoti del tempio, secondo la legge mosaica, certificare
la guarigione dalla lebbra: in questo invito è contenuta la promessa che prima
di giungere al tempio saranno sanati. E così accade: durante il tragitto
guariscono tutti. Uno soltanto di loro però, un samaritano, che gli Ebrei
ritenevano appartenere ad una stirpe eretica e pagana, torna da Gesù per ringraziarlo,
lodando Dio a gran voce (come a gran voce Gli ha chiesto pietà).
E dopo aver chiesto dove fossero andati gli altri nove, Gesù dice al samaritano:” Alzati e va, la tua fede
ti ha salvato!”. Egli non è guarito solo nel corpo, ma anche nello spirito
poiché ha dato più importanza al Donatore che al dono ricevuto. Non è corso al
tempio per avere la certificazione della sua guarigione, con la fretta di chi
ha bisogno di tornare a vivere tra gli altri, di chi vuole riprendere possesso
della propria vita: è tornato indietro per glorificare chi gli ha fatto quel
dono, non per educazione o sensibilità personale ma come atto di fede.
Soltanto
la fede che ha come “contenuto” la persona di Gesù Messia e la Sua
resurrezione può salvare l’uomo.
Domenica 17 Ottobre 2019 ( 29°
Dom. T.O.) – Lc 18,1-8
Un altro componente veramente
essenziale della fede è la preghiera perseverante e Gesù, per rendere più
comprensibile questa affermazione presenta nel Vangelo di oggi il caso di una
povera vedova. Essa è sola e senza mezzi per difendersi dalle angherie a cui è
sottoposta. Convinta di essere vittima di ingiustizia si rivolge ad un giudice.
Ma non trova una persona che svolge bene il suo compito: il giudice che ha in
mano la sua causa è un uomo senza cuore, che non ha rispetto né di Dio né delle
persone per le quali dovrebbe svolgere il suo servizio. La donna però insiste
nel perorare la sua causa con tale tenacia da costringere il giudice ad
accogliere la sua richiesta, non tanto per senso del dovere, che non ha, quanto
per togliersi di torno quella seccatrice. Usando questa parabola Gesù
esorta i suoi discepoli a pregare Dio
con perseveranza e fede incrollabile. Egli non è un giudice ingiusto o
disonesto ma Padre. Riconoscendolo come Padre dobbiamo non dobbiamo considerarlo
indifferente alla nostra preghiera: dobbiamo soltanto porci in atteggiamento di
figli, senza pretendere il “come” e il “quando deve aiutarci, certi però che
non permetterà la nostra distruzione ma che ci salverà.
Gesù
pone poi una domanda inquietante:” Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà,
troverà fede sulla terra?”
E
guardandoci attorno, ma anche dentro di noi, ci vediamo circondati da un
pessimismo soffocante, poiché siamo ormai abituati a “schiacciare un bottone”
ed ottenere tutto ciò che vogliamo. Non esercitiamo più la virtù della pazienza,
spinti da quel” tutto e subito” che la cultura dominante ci illude di ottenere,
mascherandone o non ritenendo indispensabile la qualità, materiale e
spirituale, di ciò che vogliamo ottenere.
Chi
oggi conserva ancora la perseveranza è la Chiesa che incessantemente prega Dio,
impetrando il trionfo della Giustizia per tutti.
Domenica 24 Ottobre 2019 ( 30°
Dom. T.O.) – Lc 18, 9-14
Questa parabola, narrata
soltanto dall’evangelista Luca, ci illustra due possibili modi di vivere la
religiosità, svelati nel momento della preghiera.
Abbiamo
due uomini, saliti al tempio per pregare appartenenti a due gruppi sociali
differenti: uno è fariseo, l’altro è pubblicano.
I
Farisei al tempo di Gesù erano considerati (e si consideravano) “santi”.
Studiavano ed applicavano alla lettera i precetti religiosi sanciti nelle Sacre
Scritture (come dice il fariseo che sta pregando nel tempio), badavano molto di
più all’apparenza del loro agire rispetto alla sostanza, spesso si ponevano in
modo altezzoso rispetto agli altri Ebrei, considerati meno graditi a Dio.
Per
loro Gesù non manifesta grande simpatia, arrivando a definirli “razza di vipere
“ e “sepolcri imbiancati”, ovvero velenosi (pericolosi per la vita) e
ingannevoli ( poiché mascheravano con l’ipocrisia il vero senso delle cose).
I
pubblicani erano “bollati” come peccatori per il fatto che maneggiavano denaro
aiutando i dominatori romani nella riscossione delle tasse.
Il
pubblicano che sta pregando nel tempio non segue la liturgia prescritta per la
preghiera, sia nella sua postura ( sta a capo chino e si batte il petto!) sia
nelle parole che rivolge a Dio, tanto da meritarsi il disprezzo del “perfetto
cerimoniere” fariseo.
La
preghiera del fariseo però non riconosce Dio come interlocutore: il fariseo si
auto-incensa, elencando la lista dei
suoi meriti, e non chiede nulla a Dio, ritenendosi autosufficiente. Dall’altra
parte il pubblicano, sapendo di essere nel peccato, prova vergogna nei
confronti di Dio e degli altri fedeli presenti nel tempio e se ne sta in un
punto poco in vista, chiedendo la pietà di Dio.
Gesù
sconvolge gli astanti quando afferma che il pubblicano, e lui soltanto, tornò a
casa giustificato, cioè ottiene il perdono e la compiacenza di Dio (Sal. 51” Un
cuore affranto ed umiliato tu o Dio non disprezzi”)
La
frase finale ribadisce che il prototipo del vero credente è colui che non
confida, in sé e nelle proprie opere, anche se buone opere, ma confida in Dio,
il quale esalta chi si umilia e umilia chi si esalta.