Tentativi precedenti.
Fin
dall’improvvisa e brusca sospensione del Concilio Laterano I nel 1870 a causa
dello scoppio della guerra franco-prussiana e della presa di Roma da parte del
Regno d’Italia, l’orientamento della gerarchia è quello di riprendere i lavori
delle sessioni per completare la discussione degli argomenti raggruppati nei 49
schemi su 51 non affrontati.
Ma, in sostanza, non c’è nessuna azione concreta fino alla fine della prima
guerra mondiale, quando, in un periodo in cui i vecchi e i nuovi Stati, nati
dal disfacimento dei tre grandi Imperi dell’Europa centrale ( prusso-germanico,
austro-ungarico e russo-zarista ) sono impegnati a strutturarsi nella nuova
realtà politica e a curare le immani ferite in termini di vite umane e di
drammatiche condizioni economiche, Pio XI pensa che potrebbe essere meno
difficile individuare le ragioni per riprendere le sessioni conciliari e
favorire anche un più stabile equilibrio politico e dialogo nella nuova Europa.
L’intenzione è manifestata con l’enciclica
Ubi Arcano Dei Consilio del 1922. A questo scopo invia una lettera ai
cardinali e ai vescovi nella quale chiede il loro parere e disponibilità. L’iniziativa
non ha fortuna: si teme che la vastità dei temi lasciati in sospeso, dopo mezzo
secolo, possano non essere più attuali così come sono proposti negli schemi
preparatori di allora e, poi, la Questione
romana è ancora aperta senza prossime prospettive di soluzione.
Anche Pio XII prende in considerazione la ripresa dei lavori delle conciliari,
ma pensa anche all’ipotesi di indire un nuovo concilio. Dà incarico, infatti, al
Sant’Uffizio di studiare la questione e una piccola commissione di esperti si
mette al lavoro dal 15 marzo del 1948. Le conclusioni di detta commissione
devono apparire favorevoli, perché nel febbraio del 1949 Pio XII istituisce la Commissione speciale preparatoria
guidata dal cardinale Francesco Borgongini Duca e dal gesuita Pierre Charles
come segretario. Il gruppo di lavoro conclude sostenendo che una pura e
semplice ripresa del Vaticano I non sarebbe in grado di affrontare in modo
adeguato le nuove realtà e le problematiche sorte nella Chiesa e nella società
civile dal 1870 al 1950, mentre la convocazione di un nuovo concilio
comporterebbe tempi molto lunghi nella determinazione e impostazione degli
argomenti da sottoporre alla discussione dei padri conciliari e per le notevoli
difficoltà nell’organizzazione di un’assise la più ampia possibile, quando i
postumi della 2° guerra mondiale non sono ancora riassorbiti: il clima politico
mondiale è incerto a causa della guerra fredda e della politica dei blocchi
contrapposti ( filo americano e filo russo ). In parole povere, il timore di un
flop (fiasco) dalle conseguenze
imprevedibili e imponderabili per l’immagine della Chiesa e, forse, la
convinzione che il male minore è lasciare le cose come sono, in attesa di tempi
migliori, fanno cadere il progetto.
Pio XII, nel gennaio 1951, giustifica la rinuncia con il timore che alcune
nuove tendenze teologiche, sorte in ambito protestante e diffusesi in Francia,
Germania e Olanda, non in linea con il magistero della Chiesa, attraverso
l’assise conciliare, avrebbero potuto insinuarsi e destabilizzare la dottrina
cattolica.
Come vedremo, Giovanni XXIII, il vecchietto “papa di transizione”, eletto
perché niente possa cambiare, abituato a vivere la dura realtà di nunzio
apostolico in Nazioni complicate ( Romania, Bulgaria, Turchia, ecc. prima di
essere Patriarca a Venezia ) si mostra deciso e, tra lo stupore, le perplessità
e un po’ di ostilità della Curia vaticana, restia per tradizione secolare ad
abbandonare il comodo tran tran burocratico ( papa Francesco dice: non siate funzionari
del sacro ), dopo tre mesi dall’elezione al soglio di Pietro, il 25 gennaio
1959, annuncia ai cardinali riuniti nella sala capitolare del monastero
benedettino presso la basilica di San Paolo a Roma, la sua ferma intenzione di
indire in tempi brevi un Concilio che sappia cogliere i rapidi cambiamenti
della società civile e, di conseguenza, stabilire insieme come affrontarli, non
rifiutarli chiudendosi in un tragico isolamento, tenendo ferma la barra della
navicella petrina nella rotta dell’ortodossia teologica millenaria.
L’idea di un Concilio coglie fortemente di sorpresa i potenti cardinali della
Curia, cioè i responsabili dei vari dicasteri ecclesiastici. Del resto i
primissimi atti del pontificato di papa Roncalli sono del tutto in linea con la
consuetudine dei papi precedenti, nel senso che non scendevano a compromessi
con la modernità. Poco prima del Concilio, per esempio, il Sant’Uffizio,
l’organo di tutela dell’ortodossia, cioè la moderna Inquisizione, pone fine con
durezza in Francia e in Italia all’esperienza dei preti operai, quei sacerdoti
che decidono di lavorare in fabbrica condividendo la vita quotidiana e le
fatiche degli operai al fine di avvicinarli alla fede (non si dimentichi che
papa Woityla è stato un prete operaio). Negli anni ’50–’60, diversi teologi,
sacerdoti e studiosi ricevono pesanti limitazioni e divieti nell’esercizio
delle loro professionalità, perché propongono una lettura biblica più attenta a
cogliere il nuovo che non può essere solo un tabù da rigettare. Tenendo presenti
le molteplici iniziative di riforma della Curia romana per ridurne il potere accentratore
a vantaggio della collegialità, operate da Paolo VI, Giovanni Paolo II,
Benedetto XVI e da Francesco, che rifiuta di vivere prigioniero del palazzo e
nel palazzo, non siamo troppo lontani dal vero se si ritiene che la paternità
di certe obsolete decisioni e del palese immobilismo sia da ricondurre proprio
ai condizionamenti delle lobby curiali.
In ogni campo la storia ci insegna che le brutte abitudini non diventano mai
materiale facilmente rottamabile. (1, continua)