All’inizio del XVI sec. (1500)
la storia della Chiesa cattolica è caratterizzata da una forte perdita di
prestigio e di autorità da parte del Papa e del papato. Alla decadenza del
vertice fanno da contrappeso le iniziative della base che auspica con
determinazione una riforma vera “in capite et membris” (nel vertice e nelle membra)
E’ un tentativo di riforma che precede – e in parte è contemporanea e parallela
a quella protestante - e che si
manifesta attraverso una variegata serie di azioni concrete. Qualche esempio:
° la riforma e il rinnovamento degli antichi ordini religiosi come i
Benedettini, i Francescani, i Domenicani, gli Agostiniani, ecc.;
° la nascita di nuovi ordini come i Camilliani e i Teatini per motivi del tutto
indipendenti e non per reazione alla coeva riforma luterana;
° molti vescovi nelle loro diocesi si fanno promotori di vere azioni
riformatrici e di rinnovamento attraverso sinodi diocesani, prestando, anche
molta cura nella scelta e nella formazione del clero;
° nascono e si sviluppano rapidamente associazioni laicali per dedicarsi a
opere caritative o alla diffusione della pietà eucaristica: a Genova Ettore
Vernazza fonda la Compagnia del Divino Amore, associazione che trova ampio
consenso in tutta Italia;
° in Spagna i re e l’episcopato collaborano nel prendere decisioni forti per
l’epoca come la limitazione dei privilegi ecclesiastici e l’obbligo di
residenza nelle proprie sedi ai vescovi, ai preti e ai parroci per essere più
attenti alla cura delle anime che al proprio tornaconto personale.
Tutto questo lavorio, volto a ridare alla Chiesa l’originario spirito
evangelico, trova il suo tallone d’Achille ( punto debolissimo ) nella Curia
romana e nei papi, quasi che ci trovassimo di fronte a due Chiese scarsamente
dialoganti tra loro. “Manca una vera
coscienza delle necessità della Chiesa, prevale il timore che le richieste
avanzate da molti ecclesiastici portino a una nuova affermazione della teoria conciliare
(…) i papi di questo periodo mostrano in genere una personalità assai forte,
indomita energia, sagacia amministrativa, grande mecenatismo (..) ma si
mostrano debolissimi nell’affrontare la riforma della Chiesa: il loro interesse
è rivolto altrove.” (G. Martina, La Chiesa nell’età della riforma, Ed.
Morcelliana, Brescia ) Papa Giulio II (
1503 – 1513 ), più condottiero di eserciti che guida di anime, convoca il
Concilio Lateranense non per dare risposta alla richiesta di riforma che proviene da più parti, ma per privare di
ogni valore formale e sostanziale
l’iniziativa di alcuni cardinali e
vescovi soprattutto francesi ( 6 cardinali, 24 vescovi, alcuni abati, teologi e
giuristi ) di riunirsi a Pisa (nel 1511) sostenuti dal re francese Luigi XII e
dall’imperatore Massimiliano, entrambi in lotta col papato per affrancarsi dal
pesante fardello delle sue ingerenze e pretese di supremazia del potere
religioso su quello politico.
A giustificazione di questa iniziativa si sostiene che il papa abbia disatteso
il decreto Frequens del Concilio di
Costanza ( 1414 – 1418 ) che impone la convocazione a cadenza regolare di un
concilio ( tesi conciliarista, cioè il Concilio è superiore al Papa ). Quindi,
più che per soddisfare i reali bisogni dottrinali e disciplinari e avviare un
processo di riforma, Giulio II convoca immediatamente il Concilio lateranense,
che si apre il 3 maggio 1512 e che si conclude il 16 marzo 1517 sotto papa
Leone X, per invalidare e disconoscere il
conciliabolo di Pisa, come viene definito sarcasticamente. La fretta e le
divisioni spiegano l’esiguo numero iniziale di partecipanti (circa 100 vescovi
quasi tutti italiani) ai quali si aggiungono nel prosieguo dei lavori gli
spagnoli fino ad arrivare intorno ai 400 padri conciliari.
Il piano di papa Giulio II ha successo e la minaccia pisana si risolve in un flop clamoroso, ma sotto gli altri
profili i suoi decreti appaiono poca cosa e molto modesti, sia riguardo alla
riforma morale, tanto invocata, quanto disattesa, sia riguardo al rinnovamento
dottrinale e del diritto canonico. Purtroppo, tra quelli che contano, nessuno
mostra la capacità di intuire la tempesta scismatica in arrivo: la riforma
luterana e calvinista, i cui prodromi sono già latenti e avvertibili da tempo
nel nord Europa. Solo 7 mesi prima che
Lutero affiggesse alla porta della cattedrale di Wittemberg le sue 95 tesi anti
romane, il Concilio nella più lapalissiana incoscienza dichiara per bocca di
papa Leone X ( 1513 – 1521 ), succeduto a Giulio, quanto segue: “Infine, viene riportato a Noi ( Papa Leone X
) in numerose occasioni, dai cardinali e dai prelati dei tre comitati ( del
concilio ), che non è rimasto nessun argomento da discutere a loro parere e che
ormai da numerosi mesi nulla gli è stato portato da nessuna persona.” Dire
che è stato un Concilio di serie B non è un’eresia, basta leggere il giudizio
dello storico dei concili, M. Venard: “Non
è facile fare un bilancio equo del quinto concilio del laterano. L’entrata in
scena di Lutero, sette mesi e mezzo dopo la sua chiusura e la formidabile
accelerazione del processo riformatore che ne è derivato, rendono irrisorie le
misure che il concilio aveva previsto, se solo fossero state applicate. Invece
i decreti del Lateranense V saranno soffocati dall’indifferenza del papa (…) e
dalla cattiva volontà della curia, poco desiderosa di modificare le proprie
abitudini (…) L’acquisizione più durevole di questo concilio è quella di aver
detto la parola fine alle teorie conciliariste, riconoscendo la superiorità del
Papa.” ( M.Venard, Storia dei Concili Ecumenici, Ed. Queriniana, Brescia).
Del resto non si poteva chiedere di più a Giovanni de’Medici divenuto papa
Leone X senza essere neppure prete e senza nessuna preparazione religiosa. Il
superiore generale degli Agostiniani, Egidio da Viterbo, nel discorso di
apertura manifesta tutta la sua insoddisfazione e preoccupazione della politica
papale sottolineando la necessità di un profondo cambiamento, ma rimane incerto
e vago nell’individuare i contenuti da dare alla riforma, né riesce a tenere separate
le annose posizioni politiche da quelle religiose.
Molto concreto e ben articolato è invece il programma di riforme presentato
dall’episcopato spagnolo ( riunitosi a Burgos nel 1511 per preparare i temi del
concilio) : riforma della Curia romana con l’eliminazione di ogni forma di
simonia per l’elezione del pontefice (
oggi diremmo reato di voto di scambio),
la massima cura nella scelta dei cardinali e dei vescovi, l’obbligo di
residenza nelle loro sedi dei vescovi e dei parroci, la preparazione dottrinale
e la formazione alla vita sacerdotale dei preti. Tutto rimane inascoltato e
scivola via come argomenti impalpabili; la ragione è palese: recepire questi
punti avrebbe significato sciogliere e chiudere Curia, Vaticano e Papa e
ripartire da zero. Nel dicembre del 1516 al discorso di apertura della sessione
XI, Gianfranco , nipote di Pico della Mirandola, non usa mezzi termini e va giù
pesante: il popolo imita in tutto il clero, che è fonte di scandalo e
corruzione, dando esempio di lussuria, avarizia, attaccamento ai beni
materiali, superstizione più che di fede; ne consegue che prima di tutto è
indispensabile abbattere l’ignoranza dei preti, tenerli immersi nella Sacra
Scrittura per farne capire l’essenza, sottometterli all’autorità dei loro
episcopi e del papa. Come si sarà già compreso, per mancanza di una sincera
volontà di cambiamento, che avrebbe sottratto privilegi e potere, i vari tentativi
di riforma rimangono sulla carta e sono totalmente disattesi, tanto che, mentre
vengono lette in sessioni solenni le bolle papali contenenti i decreti di
riforma, il papa Leone X concede al vescovo-principe Alberto di Brandeburgo i
benefici di tre diocesi
( sebbene fosse vietato dal Diritto Canonico
) a condizione di pagare a Roma una forte tassa , il cui importo proviene dalla
predicazione a scopo di lucro delle indulgenze. No comment! Le prime 5 sessioni sono presiedute da Giulio
II e affrontano l’eresia e lo scisma del conciliabolo di Pisa; le altre sotto
Leone X (Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico; così è spiegato come
in quel periodo si diventa cardinali e papi) affrontano questioni dottrinarie e
disciplinari: le decisioni e i decreti sono pubblicati sotto forma di Bolle
papali, per rimarcare la superiorità del pontefice sul Concilio e non la loro
indispensabilità:
° la bolla Apostolici Regeminis ( 19
dic. 1513 ) condanna le teorie di Piero
Pomponazzi , professore nell’Università di Padova, sull’impossibilità di
dimostrare l’immortalità dell’anima;
° la bolla Inter sollicitudines ( 4 maggio 1515 ) affronta l’invenzione della
stampa e i rischi del suo impiego. E’ ritenuta un dono di Dio perché facilita
la diffusione della cultura, mai i padri conciliari denunciano i pericoli per
la fede e la morale, così nasce la censura dei libri sotto l’autorità del papa
e degli inquisitori.
Nell’undicesima ed ultima sessione (19 dic. 1516) viene condannata la Pragmatica
Sanctio (Prammatica sanzione, promulgata il 7 luglio 1438 da re Carlo VII) che garantisce all’episcopato e al clero
francese molta autonomia decisionale dalla curia romana e viene approvato il Concordato
siglato con re Francesco I di Francia con il quale si ripristinano i
rapporti con Roma.
Il Laterano V termina a ridosso della formale ribellione a Roma della Chiesa
tedesca e dell’inizio della Riforma Protestante Luterana. Questo accavallarsi
di eventi che esasperano le divisioni potrebbe spiegare perché i papi che
succedono a Leone X non si decidono a convocare subito un altro concilio per
affrontare lo scisma che coinvolge tutta la Chiesa d’Occidente.
Tra difficoltà e contrapposizioni di natura politica e religiosa, incertezze
per impreparazione ad affrontare “improvvisi” ( non tanto! ) e drammatici
accadimenti, occorrono trent’anni per indire il Concilio di Trento ( 1545-1563)
dove verrà varata una radicale riforma della Chiesa di Roma, ma si discuterà
quasi vent’anni prima di portare a casa un cambiamento che pone le basi per una
nuova Chiesa, anche se non è tutto oro ciò che luccica.