Novembre.
Una coltre di nebbia copre la piana di Luni. Ma come si sale su, verso
Ortonovo, spunta il sole, e tutto ciò che sembrava grigio e spento, rinasce. Le
chiome degli alberi di castagno sono fiammate e gialle.
Sul ciglio della strada i margheritoni gialli crescono spontanei. Nel piccolo
piazzale, antistante il cimitero, noti un movimento inconsueto. Auto di
forestieri, che esitano a posteggiarsi: temono di essere degli intrusi e non
vogliono disturbare posteggiando in malo modo.
Ne
scende gente che i paesani faticano a riconoscere, gente che se ne è andata da
tanto. “Quello è il figlio della Rosé” ci si dice a voce bassa.
Chissà
se si ricorda degli antichi vicini, quel ragazzo partito quaranta anni fa.
Cinquanta,
quaranta, la vita intera passata lontano. Che cosa rimane?
I vecchi, e a volte nemmeno. E case, ora disabitate, mezzo diroccate, gli scuri
chiusi. Ortonovo si sta spopolando sempre di più. Dagli ottocento abitanti dei
tempi di mio nonno ai duecento odierni. Eppure dai propri morti, a novembre, si
torna, fedeli, e forse più giovani, senza nemmeno sapere esattamente perché. A
vent’anni, la morte sembra così astratta e lontana. A sessanta si avverte, di
colpo, che oltre metà della corsa è passata e si è vicino all’arrivo. E allora,
a novembre, si torna dai propri morti, nel luogo di una radice comune e
profonda.
I Montefiori hanno lasciato detto che vogliono essere sepolti qui, con i loro
morti, e, uno alla volta stanno tornando. “Qui sento i miei spiriti benigni”,
mi diceva Roberto. Nel fare memoria del dove, da cui vieni, e di chi ti ha
amato, quando eri bambino.
Scendono
dalle auto e si guardano intorno, quasi stranieri. Tra le mani hanno un gran
mazzo di crisantemi. La strada per quella tomba, sì, se la ricordano: l’ultima
a sinistra, in fondo. La ghiaia scricchiola sotto ai passi.
La foto in cornice sulla lapide, è di un giorno di festa: remoto.
Nome e cognome, e due date, e quel volto, sono tutto ciò che si può ritrovare.
Un
lungo viaggio, per restarsene muti, con un mazzo di fiori in mano, e pregare, e
segnarsi, e andarsene in silenzio.
E
poi magari si mangerà in trattoria, insieme ai parenti rimasti qui, e che
stenti a riconoscere. Si berrà il vino locale: vermentino giallo, o rosso
sangue: massareta, e il nettare scioglierà, per un poco, i nodi del cuore.
Si
mangerà e si berrà in abbondanza, quasi a dimostrare di essere, noi,
assolutamente vivi.
Poi
in macchina, stanchi, si farà ritorno, mentre la nebbia, come un velario, cala
di nuovo.
A
sera il piccolo cimitero chiuderà il cancello. Attorno, la chioma degli alberi
arde negli ultimi rossi fiammanti. Se ne sono andati tutti, i vivi.
Pensando, nel muto ritorno, a quella invalicabile, misteriosa barriera cui si
è, un anno dopo l’altro, impercettibilmente più vicini.
Anche
Ceccardo, venne, straniero fra straniera gente, “sul poggio lunigiano al sole”,
a trovare sua madre. Era il mese di novembre del 1899, e scrisse questa
stupenda poesia:
“Un cimitero di monti”
“Tarda il sentiero in un silenzio d’erba
che ingialla di
rammarico, e rinverde
non mietuta tra un
vel d’aridi gambi.
Una rosa selvatica, una stella
d’iride azzurra,
affacciansi talora
da quel deserto, come un sogno…., un sogno
che intende co’ le
pallide pupille
a un altro sogno,
lungi, interminato.
Un suon di foglia che sul gambo oscilla,
il volo silenzioso
d’una magra
farfalla bianca,
il canto d’un uccello,
o il vento, che
tra gli alberi viaggia
il monte, con il
sole, con le stelle
e con le vele di
nubi, variando
colloqui d’ombre e
immagini di luce…
E in aria pende a l’infinito un’eco
di mar che rompa a
un’invisibil riva,
o nella valle o
dietro il monte.
Ed ora...
è questa la tua
vita, o madre mia!”