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Il 28 aprile 1906 “Il
popolo”, settimanale cattolico che dal settembre dell’anno prima usciva
ogni sabato a Spezia, con notevole diffusione anche nelle parrocchie,
pubblicava in prima pagina un articolo intitolato “1° maggio”.
Ne riportiamo la parte finale, perché ci sembra di particolare interesse: “Noi vorremmo che il 1° e il 15 maggio,
invece che costituire delle antitesi, si riunissero e si armonizzassero, che la
festa del lavoro fosse informata dello spirito della democrazia cristiana.
Quando avverrà questo, la società potrà sentirsi tranquilla, perché in mezzo
alle ansie della crisi che attraversa, avrà trovata la via della salvezza: la
classe lavoratrice sotto l’influsso dell’idea cristiana, sempre giovane e
sempre potente, compirà la sua ascensione calma ed ordinata e su tutte le
classi armonicamente congiunte brillerà la croce, segno di amore e di pace”.
Al di là di un tono piuttosto enfatico, frutto di un tempo nel quale non
esistevano i social network né le post verità, quel brano è interessante
perché, anzitutto, collega tra loro due date del mese di maggio. Il 1° maggio,
come è ben noto, è la festa del lavoro, avviatasi nella seconda metà
dell’Ottocento negli USA, e poi diffusasi in Europa e in tutto il mondo,
nell’ambito delle lotte e delle rivendicazioni sociali. Furono i movimenti
socialisti ed anarchici aderenti alla “prima
internazionale” a promuovere nei
primi anni Ottanta di quel secolo una giornata annuale di sintesi delle lotte e
delle rivendicazioni operaie. La scelta del 1° maggio venne avvalorata dai
gravi incidenti avvenuti a Chicago ai primi del maggio 1886, con scontri
violenti tra manifestanti e polizia, e molti morti da entrambe le parti.
La data del 15 maggio, forse meno nota, è invece quella in cui, nell’anno 1891,
papa Leone XIII pubblicò la “Rerum
novarum”, ovvero la prima delle encicliche sociali. Se, a cavallo tra
Ottocento e Novecento, socialismo e anarchia spopolavano, si fa per dire, nel
campo operaio, diffondendovi le loro idee rivoluzionarie, l’enciclica leoniana,
che da un lato condannava sì il socialismo e la violenza, ma dall’altro
riconosceva la sacrosanta giustezza di molte rivendicazioni operaie, suscitò in
campo cattolico un’eco vastissima.
Ce ne dà il senso il grande scrittore francese George
Bernanos, che nel “Diario di un curato di
campagna” fa dire all’anziano abate di Torcy, in un colloquio con il
giovane prete protagonista del libro, alcune frasi che già mi è capitato di
ricordare altra volta sul “Sentiero”:
“La Rerum novarum voi oggi la leggete tranquillamente con
l’orlo delle ciglia, come una qualunque pastorale di quaresima. Alla sua epoca,
giovanotto, ci è parso di sentire tremare la terra sotto i piedi. Quale entusiasmo!
Questa idea così semplice che il lavoro non è una merce sottoposta alla legge
dell’offerta e della domanda, che non si può speculare sui salari, sulla vita
degli uomini come sul grano, lo zucchero e il caffè, metteva sottosopra le
coscienze. Lo credi? Per averla spiegata in cattedra alla mia buona gente, sono
passato per un socialista». Bernanos non era quello che si dice un
progressista, ma in questo passo non fa che dar voce a una considerazione
condivisa a 360 gradi nel mondo cattolico di allora.
Non
è da escludere che Leone XIII abbia pubblicato l’enciclica proprio a maggio per
collegarla, almeno indirettamente, con la data ormai consolidata del 1° maggio.
Ecco perché a Spezia “Il popolo”,
settimanale che dava voce al nascente movimento democratico cristiano (da non
confondersi con il partito della Democrazia cristiana del secondo dopoguerra,
anche se certamente suo antenato), pubblica quell’articolo che unisce insieme
le due date.
E’
ancora valido quell’articolo ? Io credo di sì, ed anzi lo ritengo, al di là dei
suoi toni enfatici, di particolare attualità. Tutte le encicliche sociali dei
papi del Ventesimo secolo, e poi quelle di Benedetto XVI e di Francesco (“Deus Charitas est” e “Laudato si’”) fanno infatti riferimento
al solco fecondo tracciato da Leone XIII, via via aggiornandolo: e quali cambiamenti
ci siano stati nel mondo e nella vita sociale negli ultimi cento anni è davvero
sotto gli occhi di tutti!
Se
il primo maggio resta la festa del lavoro – unita, per i credenti cattolici,
alla celebrazione della festa di San Giuseppe lavoratore, istituita appositamente
da papa Pio XII nel 1955 -, è del tutto evidente che oggi parlare di lavoro è
cosa ben diversa, nelle sue forme esteriori ed economiche, rispetto all’epoca
della grande fabbrica, il secondo Ottocento.
Oggi
siamo in presenza di un mondo del lavoro dominato dall’avanzare della
tecnologia, a cominciare da quello dei campi. La tecnologia “ruba” posti di
lavoro, almeno nel senso tradizionale, e modifica la storica struttura delle
classi. Non è neppure vero che tutti siamo divenuti “classe media”. La classe
“lavoratrice” esiste sempre, e si distingue purtroppo con divari crescenti da
quella che i cattolici del primo Novecento chiamavano “dei latifondisti e dei capitalisti”. Ma è composta in gran parte
anche da pensionati, da giovani disoccupati, da lavoratori atipici, e così via.
La percentuale di uomini e donne è ormai paritaria, anche se permangono gravi
squilibri nei salari e spesso anche nei rispettivi diritti.
Il
primo maggio, dunque, ha ancora motivo di essere celebrato, e festeggiato, in
nome di un valore irrinunciabile per una società bene ordinata, quello del
lavoro. Ma, allo stesso modo, ha motivo di essere ricordato il 15 maggio.
Già
san Giovanni Paolo II, nella “Laborem
exercens” del 1981, aveva tracciato il senso aggiornato del lavoro in una
compiuta e aggiornata visione cristiana, che fa perno sulla dignità
irrinunciabile della persona umana, troppe volte dimenticata se non disprezzata.
Francesco lo ha allargato alla dimensione planetaria, ed alla difesa della
Terra intesa nel suo valore più nobile (e con una forte dimensione ecumenica).
Non è dunque vero che i cattolici, nel tempo cosiddetto secolarizzato, abbiano
più nulla, o poco da dire ai loro contemporanei. L’incrocio tra 1° e 15 maggio
ci indica esattamente il contrario.
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