La Settimana Santa
di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi
Sotto la pace cinerea del
cielo nuvoloso, nel piccolo borgo annidato a mezza costa, fra gli olivi e i
boschi di castagni ancora brulli, svolgesi mestamente la settimana santa. E’
una cosa che ho notato quasi sempre, la mestizia del cielo, in quella settimana;
quell’assonanza strana della natura che sta per ridestarsi coi miti che la
chiesa cristiana celebra. Il lunedì e il martedì i contadini calano al piano
sul mattino bianco e ritornano sul far della sera carichi. Nel borgo c’è il consueto
battere dei telai, il consueto stridio delle seghe dei falegnami e il garrulo
grido dei monelli che giuocano sulla piazza della chiesa. Ma nella sera del
mercoledì, mentre qualche raggio vermiglio guizza, ridendo, tra nube e nube,
vanno i fanciulli, a frotte a frotte, con grossi bastoni, alla chiesa dalle
vetrate rilucenti. Li seguono una parte degli uomini e delle donne, i più
devoti. Pregano i preti e le donne, ma i ragazzi in fondo alle navate
scherzano, ridono, si rincorrono, si battono… Sono la disperazione del vecchio
chierico Garibaldi. Però l’onor più grande della funzione è riposta nella loro
forza. Quando sono finiti gli uffizi sacri e la gente esce, essi battono con
gran violenza i loro bastoni sulle panche. Il rumore assordante echeggia
cupamente per le volte buie, mentre di fuori l’Ave piange melanconicamente sul
borgo che fuma, sulla gente che per le viuzze e le piazzette s’affretta a casa,
sui boschi grigiastri, sfumanti, nella penombra sempre più cupa…
Ed eccoci giunti finalmente
a giovedì. Qui le funzioni sacre incominciano ad assumere un carattere
rappresentativo che i borghi del piano e le città non conoscono. Fin dalla
mattina è un insolito correre di curiosi alla parrocchia, dove si tiran fuori
da certi vecchi canterani gli arredi per la rappresentazione della sera: le
cappe bianche, le rosse con le buffe, la croce enorme di legno bianco, il
gallo, le lance, le scale. Nello stesso tempo per le case le donne riempiono
d’olio i gusci vuoti delle lumachelle, preparano lanterne e lucerne per la
illuminazione della sera, e qualche zelante fa sui muri dei sentieri, per le
viuzze, dei piccoli mucchi di pelo d’oliva donato dai vicini frantoi – pelo che
alla sera bruciando punteggerà di mille note fantastiche i boschi negri, il
cielo velato, la processione dei bianche e dei rossi. Pochi in quel giorno
vanno a lavorare e sulle ventidue son già tutti in paese. Si cena in fretta.
Regna nei cuori una pia aspettazione. E infatti verso l’ora di notte, nella
vecchia chiesa che sorge sul luogo dove un giorno torreggiava il castello della
repubblica ligure, dopo che il predicatore domenicano ha, con voce più o meno
piagnucolante, ricordato l’anniversario che corre, il martirio, i dolori, ecc.,
Garibaldi (Gianoli), il chierico dalla tonaca color caffè o giù di lì, distribuisce
in giro le fiaccole, s’apre la porta grande, e la processione rappresentante la
salita di Gesù al Calvario esce. Svolgesi lentamente per la piazza, per le
viuzze che solcano in vari modo il borgo. Prima una folla di donne, giovani,
vecchie, maritate e zitelle, sorelle e priori, tutte alla rinfusa. Poi
ordinatamente, a gruppi intorno ai vari simboli, la confraternita della
Madonna, incappucciata di bianco; poi quella del Sacramento, dal tabarro rosso,
in mezzo alla quale, consolato dai canti assordanti di Beppe da Canella
(Repiccioli) e Lazarino del Fosso
(Maberini), va il povero Gesù Cristo, cioè un uomo mascherato d’azzurro e
rosso, più o meno come è credenza popolare che il Nazareno vestisse. Per lo più
è il signor Michele: la barba lunga che usa portare gli serve benissimo per
l’occasione. Dietro a lui, preti,chierici ed altre donne in folla. La
processione cammina lentamente, allungandosi pei colli della borgata, tra le
case grigie, i terrazzi antichi, allumati dalle lucerne (niente elettricità),
dalle lumachelle che i buoni villici hanno posto sui davanzali di macigni. Le
pozze d’acqua qua e là e le vetrate riflettono bizzarramente quelle luci. Poi
finalmente esce dal paese, e per la strada, dalle vecchie mura diroccate (la
Pedamura), fra ulivi tinti in rosso dai roghi di pelo, s’incammina
fantasticamente al Santuario del Mirteto, distante poche centinaia di metri.
Davvero che allora fa un effetto stupendo la processione, vista dal borgo: la
processione coi suoi mille punti ardenti che appaiono e scompaiono fra le
siepi, i tronchi e i rialzi del terreno, coi suoi mesti salmi perdentesi nella
notte buia, nella valle cupa, dove la Parmignola non vista urla!… Anche non
volendo si ha un’impressione dolorosa, si ricordano tempi molto antichi,
lugubri scene. Poi lentamente i preganti perdonsi fra gli olivi, fra i brulli
castagni. Il povero Gesù, come l’antico, va a piedi nudi e sotto la grande
croce. E sotto d’essa all’urgere delle mani dei superstiziosi suoi compaesani deve
cader varie volte. Poveretto, sta fresco, qualche volta! Fino a una diecina
d’anni fa, spargevano dei pezzetti di vetro. Finalmente confraternite, preti e
Gesù arrivano a destinazione. Un tempo, circa cinquanta anni fa, e forse anche
più, si usava legare il povero Gesù, a una croce di legno che si innalzava poi
nel grande piazzale in faccia alla chiesa. Nella notte immensa, del tutto
calata, doveva parere ben triste quei fantasmi vestiti di bianco e di
vermiglio, allumati da giallastre faci, tutti intenti a rinnovare il mito della
crocefissione! Intanto a poco a poco i roghi di pelo sui muriccioli, per le
stradette, sui ciglioni muoiono, muoiono le lumachelle e le lanterne sui
balconi.
All’indomani sera, cioè venerdì, succedono le stesse cose: la borgata è di
nuovo coronata di fuochi, e di roghi son punteggiate le pendici a torno; ma
Gesù Cristo vivo non c’è più, non ci son più scale, il gallo, le lance. Sor
Michele (Beggi S’condin) si contenta soltanto di far da priore. Ma invece si
porta in giro un grande Cristo di legno pitturato, deposto sopra una bara.
Questo spettacolo è più religioso di quello della sera innanzi. Un
accompagnamento funebre ha sempre qualche cosa di solenne, specialmente poi
fatto così, nella notte bruna, fra mille fuochi, fra cento boschi fantasiosi,
reso melanconico, cadenzato di molte voci che levano d’intorno il salmo di
Davide: Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam…
Così si arriva al mattino del sabato santo. Anche quest’anno, dopo tanto tempo
che non credo più, aspetto con desiderio di letizia lo scampanio della messa
grande. Quella festa di campane, che si spande nel borgo, sugli alberi delle
pendici e sul piano; quella festa, arreca un po’ di bene alla ribelle anima
mia. Suona allegramente il campanile di Ortonovo, mentre qualche sparo di
fucile o di mortaretto rintrona. Dal piano rispondono le campane di San Martino
del Ghinolo, la chiesa più antica di questi d’intorni: dalla collina di contro
quelle di Nicola. Le onde sonore espandosi nell’azzurra vastità dei firmamenti.
E’ una festa semplice e allegra: somiglia a quella della mezzanotte di Natale;
e fra tanta tristezza e desolazione paiono piuttosto voci peregrine
incoraggianti alla speranza, nella triste via, che è un vero e grande inno di
pace e d’amore….
Ortonovo 1893