Ho appena letto l’articolo-intervista al card.
Kasper su “Avvenire” di domenica 17 luglio e mi sono subito sentito autorizzato
ad esprimere i miei datati convincimenti in merito, perché mi trovo finalmente
in ottima compagnia. “Io credo che le
intenzioni di Martin Lutero non fossero sbagliate: era un riformatore”.
“Una frase ruvida nella sua chiarezza” commenta l’articolista Riccardo
Maccioni.
Concordo, ma l’affermazione del cardinale poggia sulla documentazione storica.
E ancora: la Chiesa di allora “non era
proprio un modello da imitare, c’era corruzione, mondanità, attaccamento ai
soldi e al potere. Per questo lui ha protestato”.
Ri-concordo appieno. Il mediocre e impreparato, non solo teologicamente,
Leone X con il suo entourage del tutto inadeguato, come il segretario di Stato,
card. Silvestro Prierias, tronfio nella sua vacua nullità come il pavone quando
fa la ruota per farsi notare (pensando anche ai suoi pomposamente ridicoli
abbigliamenti), aveva in testa ben altre cose che cercare di capire le ragioni
che spingevano l’integerrimo agostiniano, teologo sopraffino, a prendere
posizione contro alcune attività degeneranti e fuorvianti (mercato delle
indulgenze, delle Messe private, delle reliquie, del lucro sul Giubileo e
dell’imposizione delle decime raccolte con metodi che anticipavano di secoli
quelli, talvolta, messi in atto da Equitalia!) e contro il satrapismo smodato
della Curia e della Corte papale, che costava un patrimonio in elemosine,
spesso coatte.
Proprio per questa sua pochezza, Leone interpreta la protesta di Lutero come una voce isolata fuori dal coro e come
una banale interferenza da risolvere dando incarico al suo cardinale di Stato di scrivere per il
riottoso frate un opuscolo sui diritti
del Papa (De potestate papae dialogus).
Lo scritto fece perdere ogni freno inibitorio al cheto agostiniano - è l’acqua
cheta che travolge i ponti -, il quale comincia, per demolire il potere
infallibile di chi occupa indegnamente la cattedra petrina, a scardinare i
cardini della fede, abolendo i Sacramenti basati sul Vangelo e la Tradizione,
escluso il Battesimo. L’opera demolitrice mirava a togliere ogni valore ad una
fede fatta di obblighi e dogmi imposti e gestiti da una struttura verticistica
del tutto avulsa dallo spirito evangelico. Leone X non trova di meglio che
condannarlo e scomunicarlo con la bolla Exsurge
Domine, nella quale lo definiva “cinghiale nella vigna del Signore”.
Il Papa di cinghiali e dei loro danni ai vigneti se n’intendeva, passando molto
del suo tempo alla caccia dell’animale nella Maremma toscana di proprietà della famiglia, i Medici
di Firenze. Nella più totale incomprensione della gravità degli eventi si
consuma la drammatica frattura nella Chiesa d’Occidente.
La presuntuosa incapacità di certi personaggi, arrivati a ricoprire incarichi
unici per la loro delicatezza e importanza con mezzi spuri, di comprendere che
i tempi stessero rapidamente mutando e che si stava entrando nell’era moderna,
mi stimola a considerare due concetti
essenziali: l’infallibilità e il valore dei dogmi nel senso di obblighi da rispettare. A che
serve una fede fatta di obblighi da accettare e non da bisogni radicati nello
spirito di ciascuno da soddisfare? Esemplifico: l’obbligo della Messa festiva
implica solo la presenza fisica; il bisogno intimo di ricordare il sacrificio
dell’Eucarestia è partecipazione attiva e condivisione della bellezza del dono
di Gesù.
La differenza è formale o sostanziale?
Potrei continuare a lungo con gli esempi. Una fede sostenuta da obblighi è un
peso, non una gioia da perseguire e approfondire. La Genesi racconta che dieci
minuti dopo l’obbligo dato dal Creatore di non mangiare il frutto dell’albero,
Adamo ed Eva l’avevano già disatteso in piena letizia (a dire il vero, per poco
tempo). Perché assistiamo impotenti alla
emarginazione progressiva della fede nella maggioranza delle persone? Ritengo
per due motivi. a) Oggi conta l’abilità, non la sapienza e la saggezza (regressione
ad homo abilis, non più sapiens). b) L’abilità rende liberi di fare quello che
si vuole, la saggezza, invece, ti
suggerisce l’esigenza di guardarti dentro, avanti e al futuro, di darti un obiettivo esistenziale che giustifichi in
modo soddisfacente il tuo esistere. Da qui si origina il suo rigetto a favore
della meno impegnativa abilità.
La conclusione? La fede è capire il
futuro, dare un senso, un valore, un significato alla propria vita, perché non
scivoli via nel nulla e nel vuoto del niente. Compreso questo, non servono
obblighi, ma l’ansia di raggiungere il traguardo. San Francesco e Teresa di
Calcutta, tanto per fare due nomi, non percepivano obblighi, ma ansia gioiosa di
dare di più per l’attesa meta.
Circa l’infallibilità rimando al “non
c’indurre in tentazione” col quale
Gesù ci ha messo in guardia dal delirio di autoreferenzialità e di onnipotenza.
Papa Francesco ogni domenica terminando l’Angelus chiedendo: “Per favore non
dimenticatevi di pregare per me”, mi sembra che invochi , attraverso la
preghiera di tutti, la capacità d’intendere e attuare i disegni dello Spirito
Santo. Benedetto XVI, quando ha rinunciato al suo sommo ministero per la
consapevolezza di non farcela più a sostenere nella loro attuazione i
suggerimenti dello Spirito Santo, ha smentito quel suo predecessore che invece
ci credeva, eccome! Forse recitava il “non c’indurre in tentazione”, anziché
rifletterlo.
Viva mons. Antonio Rosmini, che,
inutilmente, cercò a caro prezzo di farglielo capire.