Non
credevamo ai nostri occhi quando quella volta sfuggimmo al controllo degli
adulti e sgattaiolammo, quatto quatto su, nel granaio. C’erano mucchi di mais,
grano, patate e anche noccioline americane. Ci sedemmo e ne mangiammo una
grande quantità. Ma gli effetti si verificarono il giorno dopo: la mia amica si
riempì di grosse bolle su tutto il corpo e la febbre le salì a quaranta. A me
solo un bel mal di pancia. Così dovemmo confessare la nostra bravata e ricevere
una bella strigliata con conseguente castigo che consisteva nel non
allontanarci dal giardino per non creare altri danni.
Ma come facevamo a stare ferme? Un giorno entrammo nella lavanderia; avevano
appena fatto il sapone e noi, vedendo dentro il grosso recipiente quella massa
bianca, gelatinosa, lo riempimmo d’acqua rovinando così tutto il lavoro fatto
dagli adulti. E questa volta il castigo fu ancora più pesante.
Durante il mese di maggio noi ragazze eravamo più libere; le giornate erano
molto più lunghe e si stava più tempo insieme a giocare; la sera c’era la
recita del Rosario con i canti alla Madonna.
Poi si avvicinava l’estate e in fattoria non c’era riposo: al mattino
presto, già prima dell’alba, i carri trainati dai buoi portavano il latte
appena munto alla “centrale”, dove veniva diviso in grosse “latte” da 25 litri;
le lattaie lo prelevavano per andare a venderlo in città.
C’era poi da raccogliere la frutta, di buon mattino o anche a tarda sera;
bisognava sistemarla nelle apposite cassette e metterle nella grande cantina, la
più fresca di tutte.
Un tempo non c’erano le celle-frigo, solo i macellai ne erano provvisti. Le
case dei coloni avevano tutte delle panchine di pietra sul davanti: d’inverno
ci batteva il sole, d’estate c’era l’ombra di un grosso albero di fico. Normalmente
queste panchine erano occupate dai vecchi che non avevano più l’energia per
dare man forte nel lavoro, però davano tanti consigli ai più giovani o durante
la mietitura o per la “scartozzera”. Su queste panchine sostavano anche le
donne a rammendare, a fare la maglia, ricamare, ma anche raccontare degli
episodi di vita vissuta, ascoltare i desideri delle ragazze o le prime
avventure delle giovanotte con i loro morosi.
A settembre in fattoria fervevano i preparativi per la raccolta dell’uva:
bagnare le botti e le bigonce, controllare le ceste e i vari attrezzi; poi
iniziava la vendemmia: il via vai dei carri sempre trainati dai buoi e noi
ragazzi quasi sempre a raccogliere i chicchi che cadevano a terra (il lavoro
più noioso). Malgrado la fatica, se in paese c’era qualche sagra con ballo,
dopo una risciacquata, una camicia pulita, via a ballare la pizzica; ma non era
da tutti, solo i giovani la sapevano ballare, mentre valzer, tanghi, mazurche
erano per tutti, anche per i più piccoli.
La domenica, puntuali, tutti alla Messa col vestito dalla festa: gli uomini con
la solita “mutatura”, le donne con i soliti vestiti però con decorazioni
diverse, o un fiocco, o un fiore… Le giovani, il sabato sera, munite di
striscioline di stoffa, si arricciavano i capelli ed esibire così, la domenica
mattina, una testa piena di riccioli e di boccoli.
La Messa, a quel tempo, veniva recitata
e cantata in latino e ognuno pronunciava quel “latinorum” a modo suo, si
sentiva però che era molto partecipata.
Tutti avevamo poco, ma quel poco ce lo facevamo bastare; sempre col sorriso e
letizia, e nel cuore di ognuno c’era la speranza di un mondo migliore.