N° 6 - giugno 2016
Vita contadina
di Marta


 

Non credevamo ai nostri occhi quando quella volta sfuggimmo al controllo degli adulti e sgattaiolammo, quatto quatto su, nel granaio. C’erano mucchi di mais, grano, patate e anche noccioline americane. Ci sedemmo e ne mangiammo una grande quantità. Ma gli effetti si verificarono il giorno dopo: la mia amica si riempì di grosse bolle su tutto il corpo e la febbre le salì a quaranta. A me solo un bel mal di pancia. Così dovemmo confessare la nostra bravata e ricevere una bella strigliata con conseguente castigo che consisteva nel non allontanarci dal giardino per non creare altri danni.
Ma come facevamo a stare ferme? Un giorno entrammo nella lavanderia; avevano appena fatto il sapone e noi, vedendo dentro il grosso recipiente quella massa bianca, gelatinosa, lo riempimmo d’acqua rovinando così tutto il lavoro fatto dagli adulti. E questa volta il castigo fu ancora più pesante.
Durante il mese di maggio noi ragazze eravamo più libere; le giornate erano molto più lunghe e si stava più tempo insieme a giocare; la sera c’era la recita del Rosario con i canti alla Madonna.  Poi si avvicinava l’estate e in fattoria non c’era riposo: al mattino presto, già prima dell’alba, i carri trainati dai buoi portavano il latte appena munto alla “centrale”, dove veniva diviso in grosse “latte” da 25 litri; le lattaie lo prelevavano per andare a venderlo in città.
C’era poi da raccogliere la frutta, di buon mattino o anche a tarda sera; bisognava sistemarla nelle apposite cassette e metterle nella grande cantina, la più fresca di tutte.
Un tempo non c’erano le celle-frigo, solo i macellai ne erano provvisti. Le case dei coloni avevano tutte delle panchine di pietra sul davanti: d’inverno ci batteva il sole, d’estate c’era l’ombra di un grosso albero di fico. Normalmente queste panchine erano occupate dai vecchi che non avevano più l’energia per dare man forte nel lavoro, però davano tanti consigli ai più giovani o durante la mietitura o per la “scartozzera”. Su queste panchine sostavano anche le donne a rammendare, a fare la maglia, ricamare, ma anche raccontare degli episodi di vita vissuta, ascoltare i desideri delle ragazze o le prime avventure delle giovanotte con i loro morosi.
A settembre in fattoria fervevano i preparativi per la raccolta dell’uva: bagnare le botti e le bigonce, controllare le ceste e i vari attrezzi; poi iniziava la vendemmia: il via vai dei carri sempre trainati dai buoi e noi ragazzi quasi sempre a raccogliere i chicchi che cadevano a terra (il lavoro più noioso). Malgrado la fatica, se in paese c’era qualche sagra con ballo, dopo una risciacquata, una camicia pulita, via a ballare la pizzica; ma non era da tutti, solo i giovani la sapevano ballare, mentre valzer, tanghi, mazurche erano per tutti, anche per i più piccoli.
La domenica, puntuali, tutti alla Messa col vestito dalla festa: gli uomini con la solita “mutatura”, le donne con i soliti vestiti però con decorazioni diverse, o un fiocco, o un fiore… Le giovani, il sabato sera, munite di striscioline di stoffa, si arricciavano i capelli ed esibire così, la domenica mattina, una testa piena di riccioli e di boccoli.
 La Messa, a quel tempo, veniva recitata e cantata in latino e ognuno pronunciava quel “latinorum” a modo suo, si sentiva però che era molto partecipata.
Tutti avevamo poco, ma quel poco ce lo facevamo bastare; sempre col sorriso e letizia, e nel cuore di ognuno c’era la speranza di un mondo migliore.

                                                                              



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