Riproponiamo questo articolo di
Giuseppe Cecchinelli, pubblicato nel ’94: come è sempre di stretta attualità
ancora oggi!
Da qualche tempo, entrando in chiesa,
dentro di me risento profumo d’incenso, ne rivedo le delicate volute salire
verso la cupola, mentre la luce, dal finestrino lassù in alto, le illumina di
mille colori. E per un piacevole gioco di memoria riascolto la voce nasale di
don Tito riempire la navata con le note del “Tantum ergo”. In quei momenti così
radi e così brevi, ritorno bambino e ritrovo la stessa certezza assoluta: Dio
c’è.
Ai miei tempi, un chierichetto poteva dirsi tale, solo se era capace di
incensare il Santissimo. Ogni particolare era studiato attentamente: l’apertura
del turibolo, il ritmo e l’ampiezza di pendolazione…, ma la vera abilità
consisteva nel far risuonare le catenelle proprio quando l’ostensorio era al
centro della croce tracciata da don Tito nella Benezione Eucaristica: in
quell’istante raggiungeva il culmine il Vespro domenicale e la tecnica
incensatoria.
Se era facile capire perché si incensava il Santissimo, restava assai oscuro
perché bisognasse compiere lo stesso gesto liturgico verso il popolo cioè le
suore, le ragazze del collegio, la signorina Rocchi, la signorina Gilda, la Jolà e le vecchiette di Nicola.
In verità, era assai gratificante sentirsi osservati mentre, con gesti lenti e
misurati, lanciavamo fumi d’incenso prima a destra, poi al centro, poi a manca,
nella sopita speranza che prima del dietro-front finale, le ragazze del
collegio non rompessero la solennità del momento con alcuni falsi e perfidi
colpi di tosse.
E’ difficile, oggi, sentire profumo d’incenso in chiesa; forse perché i
chierichetti non sanno più usare il turibolo; forse perché ai preti, come
massaie perennemente affaccendate, piacciono liturgie snelle; forse perché non
si cantano più i Vespri…In fondo a chi importa se nelle nostre chiese non sale
più l’incenso verso gli altari: i nostalgici possono sempre andare in
Cattedrale per un Pontificale del Vescovo.
Ma sorge spontaneo un dubbio: “Che cosa risponderemo ai nostri figli quando,
davanti al Presepe, ci chiederanno che cosa è e a cosa serve l’incenso che i Re
Magi hanno portato a Gesù?”. Sarà difficile dare una risposta sufficiente e,
forse, lo scopriranno durante qualche viaggio in Oriente alla ricerca di
emozioni, di misticismo, di preghiera. Certamente i nostri figli non andranno
nei boschi intorno a Nicola a raccogliere la resina che cola dalla corteccia
dei pini, né potranno gustare il profumo che sale dalle mani intrise di resina
per giorni. Non sapranno pestare le gemme d’incenso dentro il mortaio di marmo
e farne povere finissima, così che, quando don Tito ne avrebbe versato la punta
d’un cucchiaino nel turibolo acceso con le braci del forno della Fortù, subito
sarebbe esplosa nell’aria una nuvola piena di fragranza.
Nei giorni sterili della mia fede, vorrei riprendere il turibolo e, durante un
Vespro solenne, incensare il Santissimo e il sacerdote, ricercare tra le panche
le ragazze del collegio e le vecchiette di Nicola, e cantare a squarciagola:
“Magnifi-i-cat anima mea Dominum…”.