Durante le feste natalizie (del 1997),
nella Sala Consiliare del Comune di Sarzana, alla presenza di autorità e
critici, è stato presentato un libro di favole liguri inedite. Uno dei tre
autori era il nipote di “Pina”, il sarto. Lo ricordate? Nel libro c’è anche una
favola ortonovese e una nicolese con due belle illustrazioni dei nostri borghi.
Ma nel canicio, alla fine del secolo
scorso, Lazarin del Fosso quella ortonovese
la raccontava così.
“C’era
una volta un grande orco che aveva la cattiva abitudine di mangiare i bambini.
Come un segugio ne annusava la presenza e ne seguiva le tracce. “A sent’odor d’ cristianin, o ka i né, o ka
i né stà, o ka d’aven ka nò magnà”, diceva. Lui li catturava e sua moglie
li cuoceva. Gli abitanti del luogo vivevano nel terrore e i bimbi, chiusi in
casa, non uscivano quasi mai. Solo un
trovatello, agile e smilzo, continuava la vita di sempre.
Un giorno l’orco lo sorprese su una pianta di fico. “Oh Torp’shin, t’ m’l dà ‘n fikin!”.
Torp’shin, generoso com’era, gliene gettò uno. “G’iè’ndà ‘n t’la cacà”. Gliene gettò allora un altro. “G’iè ‘ndà ‘n t’la pipì: dam’do con la tu
manina d’oro!”. Alla fine Torp’shin, ingenuamente, si spikodò un poco e quello, che non aspettava altro, con un balzo lo
prese, lo mise dentro un sacco e s’incamminò verso casa. Circa a metà strada
all’orco venne voglia di fare un bisognino. Posò il sacco e si mise in disparte
per fare quel che doveva. Torp’shin cominciò a reclamare: “Va’ pu ‘n là ka sent la puza: ‘n t’ vorà mika magnara d’la cicia
puzolenta!”. E quello s’allontanò un
poco. “Va’ pu ‘n là ka sent la puza:
‘n t’ vorà mika magnara d’la cicia puzolenta!”. E quello s’allontanò
ancora, finché, svoltata una curva, Torp’shin si levò di tasca un cort’din, si liberò e riempì il sacco
con dei sassi.
L’orco ritornò e si caricò il sacco sulle spalle: “Kom t’ sen p’santo, a n’ serva
nemanko ka t’ meto a la grassa”, diceva l’orco durante il percorso. “P’rché aiò magnà tanti fiki”, rispondeva
Torp’shin che lo seguiva di soppiatto. Arrivato in vista della casa, l’orco
cominciò a chiamare: “Oh mog’iera, met su
la caldera k’ò pig’ia Torp’shin; oh mog’iera, met su la caldera k’ò pig’ia
Torp’shin!”. La moglie, uditolo, mise sul fuoco il lauegio (grosso paiolo), dove l’orco, appena giunto in casa, scaricò
il contenuto del sacco. Immaginatevi le conseguenze: l’acqua bollente schizzò
dappertutto, ustionando l’orco e l’orchessa.
Passò un po’ di tempo ed ecco che l’orco ritrovò Torp’shin sempre sull’albero
di fico. “Oh Torp’shin, t’m’l dà ‘n fikin?”.
“No, ke se no t’ m fa kome d’altra volta”. Ma quello insistette mai tanto,
che il ragazzo gliene gettò uno. “G’iè
‘ndà ‘n t’la cacà”. Poi: “G’iè ‘ndà
‘n t’la pipì”. Poi: “I s’è smaguzà”… Allora
Torp’shin scese sul ramo più basso e l’orco con un balzo ne prese la cima e,
reggendosi sopra con la sua enorme mole, lo cioncò
di schianto facendo così
precipitare e catturare Torp’shin. Arrivato poi direttamente a casa, pensò di
tirargli subito il collo, ma s’accorse che il ragazzo era magro come un grignon e, d’accordo con l’orchessa,
decise di metterlo alla grassa. Torp’shin non aveva mai mangiato tanto e così
bene. L’orco rincasando andava a palpeggiarlo e gli veniva l’acquolina in
bocca; finché un mattino, prima di partire, ordinò alla moglie di schiappare la legna ché era giunto il
momento di fare la festa. Ma l’orchessa era un’incapace e Torp’shin,
cavallerescamente, si offrì di aiutarla. Tanto disse e fece che quella aprì la
gabbia (abbiamo già visto che gli orchi sono un po’ tonti) e lo fece uscire.
Mentre lui spaccava la legna lei la sistemava; ma eccola a portata d’ascia e
giù un colpo secco e preciso: la testa dell’orchessa recisa di netto rotolò sul
pavimento. Torp’shin la mise nel lauegio e
cominciò a far fuoco.
Al rientro l’orco dalla strada chiamò invano la moglie, poi, accortosi che il
fuoco ardeva già sotto il paiolo, tolse il coperchio e assaggiò per la cottura.
Ed ecco dal tetto una risata di scherno: “Magna,
magna la tu mog’iera…magna, magna la tu mog’iera!”. L’orco capì subito
tutto; imprecando e bestemmiando salì sul tetto per vendicarsi, ma, grosso
com’era, traballò e, in precario equilibrio, Torp’shin agile come una scimmia,
gli saltò sulle gambe facendolo cadere e sfracellare sul selciato.
Nel paese i festeggiamenti per quella liberazione durarono parecchi giorni; il
trovatello era diventato un eroe e mai più avrebbe patito la fame”.