Sempre m’accompagno al corteo funebre per la via di
“Saroco” e spesso, nel rispettoso silenzio cadenzato dallo scalpiccìo mesto dei
passi, torno al tempo dell’infanzia, quando la strada era un viottolo impervio
ed i morti venivano portati a spalla, sempre in precario equilibrio (una volta
una bara fu trascinata sulla neve con delle funi; mi dicono i più anziani che
si trattava della Mansuè).
In quel tempo, a cinquanta metri dal piazzale d’ingresso al cimitero, si passava
sotto le fronde di un grosso cerro, “ ‘l cero d’i Bianchi”. Era così imponente
che neppure tre persone riuscivano ad abbracciarlo. Così come “l’ormolo d’la
Lama” avrà avuto mille anni, e oggi sarebbe un’attrazione turistica.
Il giorno che abbatterono il cerro, assieme a tanti altri spettatori, mi trovavo sulla
strada carrozzabile appena fuori del paese. Come alla balconata di un teatro
stavamo lì, a goderci lo spettacolo, ma, ricordo bene, che noi ragazzi eravamo
preoccupati: sentivamo in cuor nostro quanto tutto ciò fosse sbagliato (da Elio
Gentili abbiamo saputo che, nel secolo scorso, quando il Sindaco di Ortonovo
vendette l’olmo a un falegname, gli ortonovesi si opposero con determinazione e non fu abbattuto.
Di lui è rimasto il detto: “T’sen pu’ groso che d’ormolo d’la Lama!”, per dire
di persona gretta e dura. Cadde poi da solo per il forte vento di tramontana
nei primi anni del secolo scorso e, dicono, arrivava fino alla via del “bozo”
(il lavatoio), costringendo le donne che andavano a lavare i panni a una lunga
deviazione).
Ma torniamo al nostro cerro. Un consorzio di boscaioli l’aveva comprato dalla
signorina Bianchi come legna da vendere e, onde sfruttarne anche la grossa
ciocca, l’avevano ben scalzato con pale e picconi; poi, tagliate le grosse
radici (non tutte però), ne provocarono la caduta. Ricordo ancora il grande
spavento di quel momento: la terra tremò sotto i nostri piedi. Il cerro viveva
in un luogo dove il vento di tramontana spira con inaudita violenza e, per
resistere tutti quei secoli a quella furia, aveva allungato e rafforzato le sue
radici per centinaia di metri. Vicino al tronco sporgevano dal terreno come i
muscoli dei culturisti: muscoli possenti. Le radici non tagliate, che
probabilmente si estendevano fin sotto il paese, alla sua caduta causarono una
scossa che avvertirono anche dentro le case; alcuni dissero, forse esagerando
un po’, che tremò anche il campanile! “Povero gigante, tagliandoti anche le
radici ti hanno ucciso per sempre! Tu, così superbo, hai assistito impotente ai
preparativi di quei piccoli esseri per la tua esecuzione!”.
Fu uno schianto. Nel baratro dell’agonia travolse con sé tutto ciò che trovò
sulla sua strada; ma ciò che mi è rimasto impresso fu la metamorfosi
dell’ambiente: cambiò completamente aspetto; sembrava orfano di qualcosa; non
riuscivo più a raccapezzarmi.
A terra sembrava anche più gigantesco e impiegarono giorni e giorni per
disintegrarlo.
Nei suoi pressi, prima della strada carrozzabile, correva il sentiero che
conduceva a Fontia e a Carrara, nonché ai terreni coltivati della Jar d’ Felcia
o ai boschi della Zura; per secoli gli erano passati accanto viandanti,
boscaioli, contadini, animali; s’erano riposati alla sua ombra e ne avevano
raccolto le grosse ghiande per maiali e galline. Ai miei tempi non era
possibile salirci sopra: era troppo grosso e non aveva rami bassi ai quali
appigliarsi, cosicché i nidi erano al sicuro e gli uccelli (che rabbia!) lo
sapevano. Trovandosi inoltre più in basso del paese, s’era alzato verso il
cielo così tanto che ne vedeva una porzione e, sentinella silenziosa, ha spiato
per notti e giorni, per anni e secoli, il quotidiano scorrere della vita dei
nostri antenati: le loro feste, i loro drammi; ha visto passare tutti i nostri
morti e, illuso, credeva di vederne passare ancora molti di ortonovesi. Avesse
potuto parlare, lui sì, avrebbe potuto squarciare le nebbie del nostro passato,
rispondere ad ogni nostra insoddisfatta domanda!
Alcune volte, la sera, noi ragazzi andavamo a vedere gli uccelli che a migliaia
vi pernottavano e si contendevano i rami migliori, come fossero camere di un
grande albergo, ospitale e sicuro. Fra le sue fronde era tutto un brulicare,
cinguettare e un continuo sbatter d’ali. A pochi centimetri dalla meta, pur
continuando a frullare nell’aria, si fermavano indecisi: volevano divertirsi
ancora un po’ prima di coricarsi. Nei giorni d’estate, inoltre, dal suo interno
si spandeva nell’aria assolata l’incessante frinire delle cicale.
Per difendersi dai ricorrenti incendi, aveva fatto, attorno al suo tronco, terra bruciata d’ogni
forma di vegetazione arborea; le sue radici non permettevano indebite
intrusioni, solo l’erba che poi l’avrebbe concimato. Un giorno un grande
incendio partì dalla selva, l’aria si oscurò di pulviscolo e le piante
stridevano di dolore. Frammiste al crepitìo delle fiamme, urla d’animali e
grida concitate di persone… Sospinto dal vento il fuoco aveva deviato verso il
paese e gli uomini in forza battevano le vampe con frasche e bastoni,
sollevando cenere e faville che in gran quantità si posavano sul cerro:
un’incipiente canizie l’aveva imbiancato. Sembrava gravemente malato e
pencolava mesto. Sentiva la terra bollire e gli insetti correre al riparo delle
sue radici, e scoiattoli e topi arrampicarsi spaventati, e nell’aria un forte
odore di bruciato che sapeva di morte. Aveva passato un brutto quarto d’ora!
Tornata infine la quiete, tutto era nero, gli alberi scheletriti e morti; tutto
il bosco era morto.
Solo il grande cerro continuava a svettare arrogante e superbo.