Venerio – detto V’nero – era un
‘poeta povero’ di Castelnuovo Magra (Castarnoo in dialetto) che per vivere
andava di casa in casa ad aggiustare gli ombrelli rotti ed a ‘cucire’ col fil
di ferro piatti da tavola di terracotta o di ceramica che si erano spaccati.
Da Castelnuovo veniva fino a Caniparola percorrendo una mulattiera che
attraversava la collina di bosco e di ulivi a est del torrente Isolone, per
finire nel medesimo dove, saltuariamente, esisteva un ponticello di legno che
spesso le piene distruggevano. Quindi
proseguiva nella strada carrabile che passava davanti alla casa-mulino ad acqua
di mio nonno Angelo Tusini, dove mia madre Argentina è nata (1907) ed è vissuta
fino al 1928.
Dai miei nonni V’nero trovava sempre ospitalità e un piatto di minestra o
polenta, anche se non c’era niente da aggiustare; Angelo e Assunta (mia nonna)
erano molto ospitali, in più, avendo il mulino, non conoscevano la povertà
alimentare di quel tempo, che arrivava alla vera fame. Fu in una di queste
occasioni che V’nero dette a mia madre un foglio di quaderno con scritte le sue
impressioni sugli abitanti dei paesi del circondario che lui abitualmente
visitava. Eravamo intorno agli anni ’20 del secolo scorso e stupisce non poco
che mia madre Argé, oggi novantenne, si ricordi ancora di quel ‘poeta’ di
Castelnuovo e della sua filastrocca.
(Caniparola 1997)
Filastrocca d’ V’nero
A Pietrasanta gh’ canta r’ cuco;
a Massa la zicala.
I scrp’lin gen d’Carrara,
i cavatori anch’ d’Ort’noo,
i signoroti d’ Nicola.
Muratori, paruchieri
e v’turin d’ Castarnoo,
i durmigion d’ Furdinoo,
i carbunari d’ Pul’ga,
i castagnaciari d’ Tendola,
i as’nei d’ Punzanelo,
i asassin d’ Fauzinelo.
Buzi verdi e scort’gamuri d’ Sarzana,
i panzaroti d’l’Amegia,
i lumagari d’la Serra,
i alb’rgatori d’ Lel’se, (Lerici)
i bugiardei d’ Pitei,
i but’gari d’ La Speza
e Manarola bela figiola.
Forse
non è completa…, ma questo è parte del mistero, come tutto ciò che V’nero
raccontava e nessuno può ricordare.