Nel
paese di Ortonovo tutte le case, o nei fondi, o nelle soffitte, o sotto
l’intonaco, hanno i muri neri. Non ne esiste una che possa dirsi incolume; è il
“dramma” di tutti i muratori: c’è sempre il rischio che l’intonaco “sputi” il
nero sottostante. Il camino, probabilmente, disperdeva troppo calore e non
andava bene per i kanici; e siccome
tutte le case avevano un kanicio, ecco
che il nero, nel corso dei secoli, ha impregnato indelebilmente i sassi dei
muri (l’intonaco non esisteva).
Il kanicio era un caldo locale con
dei buchi su porte e finestre per la fuoriuscita del fumo (alcuni lo chiamavano
‘l lacrimadoro dond’a’s’rida); al
centro c’era un focolare senza camino, sovrastato da un pianale d’ v’ton d’ frasso, o canne, sul quale
venivano poste le castagne ad essiccare. Tutto intorno vi erano delle panche e,
nelle sere d’inverno, la gente vi andava a veglia. Lo racconta anche il nostro
Ceccardo: “Al ceppo che in rossor fosco
balena, convien la veglia c’umile grandeggia di rocche e fusi, e di ricordi
echeggia…”.
Io invece ricordo: “’N top ric ricio,
gh’è montà sunt’l kanicio, ‘l kanicio gh’è ato vota: a t’ d’arkonto ‘n k natra
vota?”.
Il fuoco era alimentato da grossi cioki possibilmente
di castagno; sempre acceso, giorno e notte, per una quarantina di giorni. Al
termine dell’essicazione si metteva tutto in appositi sacchi che, presi da
uomini robusti, venivano roteati nell’aria e sbattuti su dei grossi ceppi. “Giovanni, Giovanni, che sbatti le castagne,
le sbatti così forte da far tremar le porte!”, diceva una tiritera. Poi le
donne con la soreta le pulivano dalla
pula, ed ecco che la scorta di cibo era assicurata per tutto l’anno: i guscion erano pronti (bolliti sono
ottimi).
Nei tempi antichi le macine per ridurli in farina erano rotolate a mano o con i
muli; poi, nel XV secolo, si passò ad utilizzare i mulini alimentati con l’acqua
del Parmignola.
Sui castagni selvatici che davano le castagne rufolone si innestò il castagno carpanese
che dava castagne grosse e bionde, più pulite internamente e più abbondanti.
I castagneti, un tempo, erano curati come gli uliveti; venivano potati, avevano
la loro piana vangata… (basta andare nei boschi anche lontani come la Jar d’ felcia, la Zura, San Lorenz d’oro,
i Karisciari, la Focia, la Mak’ia, ecc. per accorgersene). Oggi purtroppo i
castagni sono malati e si stanno tutti rinselvatichendo, perché soffocati da
altra vegetazione più forte (i pini, ad esempio, autentica rovina dei nostri
boschi).
Fino all’ultima guerra la castagna è stata il pane dei poveri. Nel latte del
mattino, al posto del pane, si mettevano i borgate
(erano ottimi anche indorati e fritti), oppure si metteva la polentina di ciana. La polenta di ciana con il formaggio pecorino fresco
era il naturale pasto del mezzodì.
Al tempo della raccolta i castagneti erano puliti come ora gli oliveti; le
foglie servivano come lettiera per le bestie; i cardi erano utilizzati come combustibile, i rami canuti erano tagliati per il camino;
raccogliere una sek’ia (circa 20
chili) di castagne era assai facile. Le più belle venivano vendute nel carrarese:
con i sacchi in spalla, gli uomini, o in testa, le donne) andavano a venderle
casa per casa. Qualche sacchetto è toccato anche a me. Che tempi, ragazzi!