Come accennato in
conclusione allo scritto sul Concilio di Nicea, Costantino, piuttosto digiuno
dei temi fondanti il cristianesimo, si lascia incantare dall’accattivante
eloquio di Eusebio, vescovo di Nicomedia, ariano convinto, che a Nicea ha
votato contro Ario solo per opportunismo: conoscendo bene il caratterino dell’imperatore,
che ha la residenza nella sua città, sa che avrebbe perduto la cattedra episcopale
e sarebbe andato in esilio.
Molto introdotto a corte, con il nuovo imperatore, Costanzo II, riesce, di
fatto, a emarginare definitivamente il vescovo Osio e a diventare il primo
vescovo della nuova capitale, Costantinopoli. Costanzo II, succeduto al padre
Costantino nel 337 e risolti i problemi politico-militari legati alla
successione (negli anni elimina diversi usurpatori), acquista un ruolo attivo
nelle diatribe dottrinali che il Concilio di Nicea non aveva sanato e, da
fervente ariano, allontana i vescovi contrari all’eresia, tra questi anche il
futuro padre della Chiesa e vescovo di Alessandria, Sant’Atanasio. La situazione
della Chiesa, specie in Oriente, ma anche in alcune aree dell’Occidente
(es.Provenza), è veramente critica e in stato confusionale sul piano
dottrinale, quanto su quello organizzativo: incertezza e instabilità regnano
sovrane nelle diocesi dove si susseguono colpi di mano dall’una e dell’altra
parte.
Per tentare di porre fine a questa gravissima condizione che arreca solo danni
anche alla credibilità del messaggio evangelico, il vescovo di Roma, Giulio I,
anche nel nome della pace sociale, convince i due imperatori (Costante I per
l’Occidente, Costanzo II per l’Oriente), a convocare un Concilio veramente
ecumenico col preciso compito di riportare ordine e disciplina nella gerarchia
dilaniata persino nei rapporti interpersonali e indicare il corretto percorso
teologico e morale. I due imperatori, molto sensibili ai temi dell’ordine
pubblico, organizzano al meglio per l’autunno del 343 il Concilio nella città
di Serdica o Sardica (odierna Sofia, capitale bulgara) che si trova al confine
tra le due parti dell’Impero, quindi è una scelta strategica. Sono chiamati a
partecipare tutti i vescovi, senza distinzione alcuna, anche quelli esiliati,
perché non ariani. Le intenzioni sono più che lodevoli, poiché partecipano il
vescovo di Roma, Giulio I, Atanasio, il
vescovo antiariano esiliato di Alessandria e, ovviamente, l’anziano
protagonista di Nicea, il vescovo di Cordoba, Osio. Sono presenti 170 vescovi
di cui 76 dell’occidente latino. L’inizio dei lavori, purtroppo, coincide con
la ripresa delle solite discussioni polemiche e sterili, le solite capziose
argomentazioni che sfociano in aperti dissidi personali: in sostanza, si
determina un clima surriscaldato dove Gesù e lo spirito evangelico sono gli
unici ignorati e assenti. Il fallito tentativo di confermare la destituzione e
l’esilio di Atanasio da parte di un combattivo gruppetto di vescovi ariani,
provoca la definitiva rottura. Gli ariani, in minoranza per l’assenza di molti
vescovi orientali, che ritengono inutile partecipare al dialogo, abbandonano i
lavori e si riuniscono in un concilio alternativo a Filippopoli (odierna
Plovdiv, Bulgaria). Per questa ragione quello di Sardica o Serdica non viene
riconosciuto come ecumenico, ma semplicemente un concilio provinciale (oggi,
diremmo Sinodo). Sono confermati il Credo di Nicea e i 20 canoni. Vengono
aggiunte alcune norme (canoni): l’obbligatorietà della presenza del vescovoi
nella propria sede, limitandone le assenze a tre settimane; la raccomandazione
ad evitare la frequentazione degli ambienti della corte imperiale al fine di
frenare l’ingerenza e l’inquinamento del potere politico nella vita della
Chiesa. Sono già palesi i rischi e i pericoli che si corrono quando i rapporti
tra potere politico e potere religioso non sono equilibrati ed equidistanti.
L’ultima novità è il canone numero tre che stabilisce il diritto di un vescovo
deposto da un sinodo provinciale di appellarsi al vescovo di Roma che ordinerà
una nuova istruttoria.
Se anche in questo caso vi sarà opposizione, la Chiesa di Roma (come
metropolita) interverrà mediante un tribunale di vescovi presieduto da legati
romani. Al temine dei lavori, primavera del 344 ( Pasqua?), il vescovo Osio
rientra nella sua diocesi di Cordoba, ma non c’è pace per questo vecchio
combattente della corretta teologia trinitaria, perché il solito Costanzo II,
divenuto unico imperatore, vuole obbligarlo ad abiurare al suo Credo niceno. La
lettera di risposta di Osio non lascia dubbi. Allora, Costanzo, per umiliare un
personaggio carismatico e di grande seguito, gli ordina di comparire davanti ad
un tribunale di vescovi ariani, dove viene dileggiato e torturato. Infine, è
mandato nel 355 in esilio a Sirmio, in Pannonia (odierna, Sremesko Mitrovica,
Serbia) sede dell’esercito orientale, dove muore all’età di 101 anni nel 357
lontano dalla sua terra e dalla sua diocesi. E’ venerato come padre della
Chiesa e santo confessore dai cattolici e dagli ortodossi, che ne fanno la
memoria liturgica il 27 agosto.
Ho già detto le motivazioni per le quali Il Concilio di Sardica non è
nell’elenco dei 21 riconosciuti, nonostante la presenza dei vescovi di Roma e
di Alessandria, riconosciuti preminenti a Nicea, ma ho voluto inserirlo per far
comprendere come i primi secoli della Chiesa siano stati veramenti tribolati a
causa della eccessiva litigiosità speculativa, caratteristica tipica delle
popolazioni mediorientali (la grande filosofia non parla latino e bizantinismo
vuol dire spaccare il capello in otto, cioè la testardaggine del non mollare
mai sulle proprie argomentazioni) e della scarsa umiltà da parte di eccelse
persone a riconoscere errori e limiti. Evidentemente la pace evangelica, pur essendo
un desiderio appetibile per tutti, cristiani e non, è sempre rimasto un
miraggio e tale è ancora oggi. Il Concilio di Sardica, quindi, va considerato
come uno dei tanti nobili tentativi della Chiesa di indicare all’uomo la strada
dell’equilibrio, del riconoscimento e del rispetto reciproci, come punti fermi
sui quali innestare le ragioni e il senso dell’obiettivo finale dell’uomo.