Quello
che cercherò di descrivervi, è uno spaccato di vita ortonovese d’anteguerra.
Dovete sapere che l’odiata pancia di oggi era, allora, simbolo di benessere. Il
pasto degli ortonovesi, nella prima metà del secolo, era molto frugale e sempre
uguale. Al mattino latte con polentina di ciana,
oppure coi borgadei freddi (castagne,
sbucciate, cotte e conservate alla finestra. Li ricordo gelidi, anche nel latte
bollente. A mezzogiorno polenta, “la podenta siciliana a s’ fa con d’acqua
d’la fontana, a s’ ruma con ‘n tok d’ legno, mir ‘n po’ ke bed’ngegno!”, diceva
mia nonna. Si affettava col refe e si condiva con olio e formaggio pecorino,
oppure con una saraka (un pesce) contro la quale, tutti passavano a
più ripresa il pezzo di polenta da insaporire. Alla sera minestrone, due piatti
se i grandi erano generosi. Ricordo che fu don Andriollo, negli anni sessanta,
a predicare l’usanza di mangiare un secondo piatto, magari solo insalata e uovo,
diceva.
La mia infanzia la ricordo in attesa della domenica. Era il giorno nel quale ci
si levava “le grinze dal buzo” e non
si mangiava l’odiata polenta dura (la facevano dura perché si conservava di
più: anche se si chiama polenta proprio perché, deve essere lenta). Ero già
grandicello quando ho scoperto che si poteva mangiare anche dell’altro; prima
ero convinto che a mezzogiorno la polenta fosse obbligatoria. La domenica, si
ammazzava la gallina o il coniglio, si impastavano taglierini o lasagne, si
mangiava la maroka e la frutta e, per andare alla Messa, chi l’aveva,
si metteva la mutatura (vestito
completo di giacca e pantaloni). Una
cosa che mi è rimasta impressa di queste tavolate domenicali è come mio nono Bozo sbucciava la pera e la divideva in
parti uguali; era un artista, tutti a tavola stavamo ad osservarlo in silenzio:
le bucce erano sottilissime, levava il torsolo con uno stile che mai ho
rivisto; le parti erano perfettamente uguali, anche se a me diceva: “a te ‘l pù groso”. Mai ho armagnà, in vita mia, spicchi di pera così buoni, sembravano
butiro.
La domenica era quindi il massimo del benessere: “brodo d’ gag’ina, ombra d cantina (vino del bar, anni fa ce
n’erano cinque, ora solo uno) e dormir
fin’a la deshi d‘la matina”. Ma non per tutti però. C’era chi si trovava
sul tavolo il solito tofo d’ podenta, dura anche la domenica.
Come Giumignan che diceva: “O ma’, ‘nkò
a dè domen’ka, an la voi la podenta!”: E lei: “O bi, s’n t’la vo’, và fora e spet k’la dona da iarcoti”.
Giumignan usciva e tornava dopo una mezzoretta: “O ma’, tant k’aspeto a ‘n magn na feta”. E dopo un po’, l’aveva
mangiata tutta, anche la potina (culetto) del toffo: “Tanto ho bel ke visto, k’la dona a n ven pù!”. E allora la mamma spiegava: “O bi, a m par d scì ka dè v’nu: k la dona a d’er la fama!”.
Il lunedì, mentre si scendeva la collina verso Carrara per andare alle cave
(non dimentichiamoci il detto: i
cauadori d’Ort’nò: lo sapete che ancora oggi c’è la cava Ortonovo?), la
conversazione verteva sempre sul pasto domenicale. A parole era uno sfoggio di
succulenti cibi, ma si spacciavano per veri anche i desideri e Blagheta, esibendo
il buzo, diceva: “Mir ki, da tanti strozapreti ka iò magnà
ti po’ skiciar na pulcia”.
Gli strozzapreti erano
polpettine di verdure fritte. “O blagon,
a ma ito tu mog’iera ke d’ut’ma vota ka da mis su la padeda t’ sen ‘ndà a
cercar d’ombreda p’rké t’ cr’deua kal pioesa”. (O blagone, mi ha detto tua moglie, che l’ultima volta che ha messo
su la padella, sei andato a prendere l’ombrello, perché credevi che piovesse). “E te, Isè, kos ta magnà arman?”.
“Tordei”. “Dalvero!, e quanti?”. “Sé
feta!”.
Se uno sfoggiava una mutatura, dicevano: “I par ‘l pot d Mod’na”. Bastava che
uno si comprasse un paio di scarpe che subito: “Mir lu lì, i par Fabricoti da iarcoti!”. E già che ci sono vi
racconto delle mie “scarpe” di legno d’agntan.
Me le aveva fatte Carlin d P’k’iè, fratello di mia nonna, scapolo, che abitava
alla piazzetta. Era arrotino e aggiustava tutto: ombrelli, piatti, scarpe…, ma
a me, che gli portavo tutti i giorni un piatto di polenta, faceva anche scarpe
di legno d’ la domen’ka (di lusso).
Era uno strolko (filosofo); predisse
che la guerra sarebbe finita fra Luni e Ceparana. E così fu. E dalla rotonda
del Santuario diceva: “La piana di Luni sarà una città e a Ortonovo rimarranno
quattro gatti”. E così è. Dai 1400 abitanti del 1600 (Carrara 2000, Spezia
1400) a meno di 300.
A Ortonovo, negli anni ’30 e ’40, tutti o quasi mandavano i figli nei frati. Io
non ci sono andato perché non mi piacevano i koli, ortaggio molto usato in quel tempo nei conventi. Dicevano: “Va ‘n ti preti, t’ farà na beda vita, t
sarà struito, t magn’rà ben, e t’avrà la peda liscia”. Ma gli anarchici i
preti li mandavano all’inferno come dice questa famosa storiella popolare, che
mi raccontava mio nonno Bozo. Ve la racconto già tradotta.
“Un prete e un uomo muoiono e si trovano insieme
davanti al portone del Paradiso. Il prete, che si crede uno di casa, ha fretta
di entrare e batte il pik’iacò. San
Pietro viene ad aprire e, prima di farlo entrare, gli dice: “Fammi vedere le
mani”. Le guarda bene davanti e dietro e
dice: “Mettiti là e aspetta che arrivi Domine Dio”, e lo lascia fuori. Poi vede
l’altro in disparte e lo invita a farsi avanti. L’uomo s’avvicina e pieno di
vergogna gli fa vedere le sue grosse mani, nere da fare schifo a na’ latrina, piene di setole e con dei
calli grossi e duri come sassi. “Venga dentro quell’uomo, queste, sono le mani
dei santi”.
Da notare che san Pietro da del tu al prete e del lei all’uomo.
Ps. Mi hanno “accusato” di ricordare
sempre il nonno paterno e mai quello materno, e allora riparo, raccontandovi la
poesia che mio nonno Zighin (Franciosi Gino) ha insegnato a figli e nipoti.
Egli aveva dieci fratelli, quattro dei quali (due femmine e due maschi) erano ciechi,
e “pretendeva” che volessimo loro bene:
“Povero cieco,/ nella tua notte eterna,/ chi si cura di te,/ chi ti governa?/ Ci
son le stelle in cielo,/ tu non lo sai,/ e la tua mamma, / l’hai veduta mai?/ Con l’occhio spento, / poverino e solo, / chi
guiderà il tuo triste volo? / Ecco, il mio cane, / il mio Fido, / che mi
guadagna spesse volte il pane”.
“Ascolta - mi diceva - cosa dice il giorno della Madonna, il cieco che ai
piedi della scalinata chiede l’elemosina, e non dimenticarlo mai.
”Poveretto, povero cieco, vi sento e non vi vedo: è una croce fino alla morte”.