N° 9 - Novembre 2014
La Chiesa di fronte alla crisi della famiglia
di Egidio Banti


Che la famiglia tradizionale, intesa come a lungo è stata intesa – in particolare nel cosiddetto “mondo occidentale” –, attraversi oggi una crisi profonda non è una novità. Lo aveva già lucidamente indicato, oltre mezzo secolo or sono, il Concilio Vaticano II: “Il cambiamento di mentalità e di strutture spesso mette in causa i valori tradizionali, soprattutto tra i giovani … Le istituzioni, le leggi, i modi di pensare e di sentire ereditati dal passato non sempre si adattano bene alla situazione attuale; da qui un profondo disagio nel comportamento e nelle norme stesse di condotta” (“Gaudium et Spes”, n. 7). Le ragioni sono molteplici, ed attengono, come indicava il Concilio, alle modalità stesse di organizzazione sociale dell’uomo contemporaneo: la sostanziale scomparsa del cosiddetto modello di “famiglia patriarcale”, più legato alla civiltà agricola che non a quella industriale o post-industriale; i processi crescenti di regolazione demografica e di controllo delle nascite; la maggiore autonomia dei singoli componenti del nucleo familiare, anche sul piano economico; le opportunità (ma anche i pericoli) connessi alla straordinaria diffusione dei mezzi di comunicazione, specie nella versione digitale e telematica; l’idea di una libertà sempre più intesa (proprio grazie alle facoltà consentite dalla scienza e dalla tecnica) come autodeterminazione personale, anche in campo sessuale, e quindi come stagione di diritti assai più che di doveri. Di qui, non solo la diffusione degli aborti in tutte le varie forme oggi possibili, ma anche quella dei divorzi, delle convivenze, delle unioni civili anche tra persone dello stesso sesso, e così via. Non c’è bisogno di andare lontano: basta guardarsi intorno per vedere come siano ormai diffuse, in tutte le loro varie forme, le nuove modalità di organizzazione familiare. E come siano sempre più numerose anche le famiglie di genitori credenti e praticanti che, con sofferenza a volte indicibile, le vedono presenti nella vita dei loro figli o dei loro congiunti.
Ortonovo, la Val di Magra, l’Italia non sono in questo diversi dall’intera platea delle società occidentali, per non dire, almeno in parte, dal mondo globale. Il numero dei matrimoni civili, ad esempio, supera ormai stabilmente nel nord Italia quello dei matrimoni religiosi, e molto numerose sono le coppie regolarmente sposate senza figli. Era inevitabile, di fronte a questi rapidi mutamenti di scenari, che la Chiesa cattolica – sulla scia delle indicazioni del Concilio Vaticano II e del magistero dei sommi pontefici – si interrogasse sul modo di porsi in chiave pastorale nei confronti di una famiglia sempre più in crisi, in difficoltà, in sofferenza.
Papa Francesco non ha esitato, sin dai primi giorni del suo pontificato, a mettere in luce la necessità della Chiesa, del resto, di aprirsi al mondo: senza mettere in discussione la propria dottrina, ma anzi ricavando dai problemi e dalle attese di oggi nuova forza e nuova linfa per annunciare il Vangelo. Così, ad esempio, nelle pagine dell’”Evangelii Gaudium”.
Il Sinodo straordinario dell’inizio di ottobre, preparando il Sinodo ordinario che si terrà il prossimo anno sullo stesso tema, è stato così dedicato dal Papa, che appositamente lo ha voluto, proprio all’esame della pastorale della famiglia. Le discussioni sono state accese, come furono accese a suo tempo quelle del Concilio. I giornali, nell’epoca della comunicazione globale in tempo reale, hanno dato spazio a quelle discussioni, ovviamente a modo loro. Come sempre, in quei resoconti ed in quelle ricostruzioni occorre fare come si dice “la tara”, non meravigliandosi dei contrasti. Il Papa stesso aveva ammonito di volere una discussione vera, reale, non di facciata. E così è stato. Sul piano mediatico hanno tenuto banco alcune questioni specifiche, oggetto di forti contrasti nelle varie fasi del Sinodo: la comunione ai divorziati risposati, il possibile riconoscimento delle convivenze, la pastorale nei confronti delle persone ed anche delle coppie omosessuali. In realtà, queste specifiche questioni, come altre, erano inserite in un discorso ben più vasto, ovvero in un quadro generale di rinnovato annuncio del valore e della bellezza della famiglia cristiana, fondata sul matrimonio e sulla fedeltà reciproca. Ma la Chiesa doveva anche misurarsi sulle novità del nostro tempo, non – come qualcuno paventava o strumentalmente accusava – per adeguarsi all’ipotetico volere di una maggioranza, bensì per capire le ragioni di comportamenti sempre più diffusi e per trovare quindi il modo migliore di dialogare con quelle persone, che spesso hanno alle spalle storie difficili ma che altrettanto spesso hanno comunque avuto una formazione cristiana. Questo del resto è avvenuto altre volte in passato. Negli anni Cinquanta il vescovo di Prato Pietro Fiordelli era stato processato (e poi assolto) per aver definito “pubblici concubini” due persone che si erano sposate civilmente. Oggi nessuno si sognerebbe di usare parole tanto pesanti in un caso analogo. E’ il frutto del corretto aggiornamento di una pastorale che non si caratterizza per l’uso del bastone, ma per la volontà di dialogo, di accoglienza, di tendere la mano.
Le discussioni nella Chiesa non devono fare paura, anzi è un bene che ci siano. Perché, come spiega il Catechismo della Chiesa cattolica, se la Sacra Scrittura e la Tradizione apostolica sono definite, esistono anche “
“tradizioni” teologiche, disciplinari, liturgiche o devozionali nate nel corso del tempo nelle Chiese locali. Esse costituiscono forme particolari attraverso le quali la grande Tradizione si esprime in forme adatte ai diversi luoghi e alle diverse epoche. Alla luce della Tradizione apostolica queste “tradizioni” possono essere conservate, modificate oppure anche abbandonate sotto la guida del Magistero della Chiesa” (“Catechismo della Chiesa cattolica”, n. 83). Del resto, se non fosse così, la spinta ecumenica dell’ultimo secolo e l’apertura verso le altre confessioni cristiane sarebbero parole vuote. Il soffio dello Spirito saprà sempre fare la sua parte. Alla base di tutto, nella Chiesa, c’è il magistero del Papa, e Francesco ha tenuto a ribadirlo nel discorso finale tenuto a sorpresa ai padri sinodali dopo le votazioni conclusive di sabato 18 ottobre: “Il sinodo “si svolge cum Petro et sub Petro, e la presenza del Papa è garanzia per tutti ... Dunque, il compito del Papa è quello di garantire l’unità della Chiesa, e quello di ricordare ai pastori che il loro primo dovere è nutrire il “gregge” e le “pecorelle smarrite”.
E ancora: “La Chiesa ha le "porte spalancate" ai bisognosi, "non solo ai giusti", essa non è "in litigio" con "una parte contro l'altra". Il Papa ne garantisce l'unità e nessuno ha mai messo in discussione la indissolubilità o la procreatività del matrimonio”. Parole chiare, che tutti siamo ora chiamati ad approfondire e a meditare in vista del Sinodo ordinario del 2015. Come ha detto a lavori conclusi il vescovo Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia, “il cambiamento è avviato, non si torna indietro”. In che modo e con quali forme definitive è presto per dirlo. La preghiera e il soffio dello Spirito aiuteranno la Chiesa, come sempre avvenuto nei momenti difficili.

                                                                                             



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