Ero passato da lui qualche sera
prima. Lo trovai in sala, accanto al fuoco. Solo. Nella sua abituale poltrona.
Il fiasco del vino nero vuoto a mezzo e il bicchiere pieno a metà erano sul
ripiano del focolare, vicini alla fiamma. Accucciolata sul divano, nella
sospirosa attitudine di semiaddormentata, la sua cagnetta. Mi disse: “Ero a
guardare la fiamma del fuoco”. Poi aggiunse: “Prima di metterti qui in poltrona
accanto a me, prenditi un bicchiere, che sono lì nella vetrina”. Io presi il bicchiere.
Lui me lo riempì. Disse: “Il vino nero va bevuto che dà sul tiepido”. Io ne
bevvi un sorso. Poi mi sedetti, posando il bicchiere in terra alla mia destra.
Mi disse: “Ora che è inverno, alla sera dopo il giro dai vari ammalati, questo
è il mio passatempo, la mia consolazione. Guardo la fiamma del fuoco e ogni
tanto bevo un sorso. La fiamma è come il vino e tutti e due sono come le donne.
Se non fai attenzione, ti affatturano, ti fanno il sortilegio e tu non te ne
puoi più liberare”. Poi, dopo una lunga pausa, aggiunse: “La fiamma poi è anche
peggio del vino, perché ti fa vagare con la fantasia. Guidata dalla fiamma, la
fantasia va a rievocare il passato; ti spinge incontro all’avvenire. Due
operazioni, a questa mia età, egualmente disastrose.
Ci eravamo conosciuti perché avevo i suoi due figli a scuola, in seconda liceo
classico. Io insegnavo Italiano e Latino. Ricordo che venne una volta a
chiederne notizie. Due giovani, lui e lei, per altro seri e studiosi. E
l’incontro si trasformò in conversazione. E la conversazione in scoperta di
affinità elettive, di idee e di sentimenti. Venne altre volte. E i figli erano
più che altro un pretesto. Il vero motivo la consonanza nelle nostre visioni di
vita. Diventammo amici. Nonostante la nostra differenza di età. Ché io ero un
giovane insegnante liceale, pieno di entusiasmo nella mia professione e di fede
nella mia letteratura, e lui un medico condotto, oramai sul viale del tramonto
e con pochissima fiducia nel valore terapeutico della medicina: “L’unica medicina
capace di guarire, diceva, è la volontà di guarigione del malato”. Era
convinto, inoltre, che le malattie erano disagi psicologici del paziente. Non
era religioso. Non credeva in un’altra vita oltre a questa e diceva che, per
tutto ciò che è vivo, la morte consiste nel totale annientamento. Per noi, come
per un uccello, per un fiore, per una pianta. Credeva, però, che la nostra
vita, come quella di ogni altro essere, avesse uno scopo. Lo scopo di
contribuire alla vita del Tutto. Amava la natura sia nei suoi individui (una
pianta, un fiore, una lucertola, una goccia di pioggia), che nei suoi panorami,
nei suoi spettacoli (il mare in tempesta, un paesaggio al chiaro di luna, una
campagna bionda di grano maturo). Aveva sempre letto molto e ancora leggeva. Tra
i poeti prediligeva l’Omero dell’Iliade, e l’Ariosto per il suo Orlando. In
entrambi l’uomo soccombe al destino, ma non si piega. Era invece freddo nei
confronti di Dante: un uomo, secondo lui, che non ha saputo fare da sé. Dei
filosofi amava soprattutto Epicuro e il suo banditore Lucrezio, perché dopo i
disastri provocati dall’idealismo di Platone, avevano riabilitata la materia e
con la materia la nobiltà del nostro corpo. Dei moderni, aveva particolare
ammirazione per D’Annunzio; lo considerava un profeta inascoltato. Di lui
diceva: “I tempi non sono ancora maturi, ma la sua Lussuria sarà il mostro da
esorcizzare negli anni Duemila”. Giudicava Carducci e Pascoli, echi
dell’Ottocento, poeti per spiriti in vena di sentimentalismo. Lui stesso, suo
malgrado, era un sentimentale. Si abbandonava ai ricordi, pur dicendo
disgraziato colui che si fa mettere sotto dalla nostalgia. Figlio di contadini,
rimpiangeva quel mondo difficile, in cui le ore di lavoro correvano senza
interruzione dall’alba al tramonto e in cui lo studio era riservato nel tempo
rubato al sonno. Ma era anche un mondo pieno di libertà e di poesia,
specialmente quello vissuto nella fanciullezza. “Sono stato libero e felice
fino a tutte le elementari, raccontava a volte, in cui i compiti erano alternati
alla vita errabonda nei campi e nei boschi. Poi i miei (mio padre soprattutto)
mi vollero mandare agli studi, come per riscattare il senso di umiliazione del
loro essere contadini. E mi mandarono in collegio. Togliendomi la libertà della
natura. Un insanabile trauma. Sempre ho portato nel cuore quel tipo di vita
errabonda. Quel mio paradiso fatto di vigneti, di oliveti, di boscaglie, di
casolari in mezzo ai poderi, di cipressi in doppia fila verso candide fattorie
o verso piccoli borghi; o messi in gruppo, isolato in mezzo a brune distese di
terra lavorata; oppure di bianchi buoi al centro di lucidi maggesi. Ho
studiato, sono diventato medico, ho messo su famiglia, ho avuto figli. Ma la
mia vita è rimasta spezzata il giorno in cui (era autunno e cadevano le
foglie), lavato e ripulito, vestito tutto a nuovo, il sacco sulle spalle, mio
padre mi accompagnò alla fermata del postale che mi portava agli studi nel
collegio della città vicina”.
Poi mi disse: “Questi tardi e nebbiosi pomeriggi invernali sanno già
l’atmosfera natalizia; e la fiamma mi riporta alla poesia di antichi focolari,
non più ritrovati e mai dimenticati”. Parlava nella semioscurità della sala,
solo rischiarata dal riverbero del fuoco. Il vino nel fiasco e nel bicchiere
scintillava il suo rosso rubino. “Bevo per dimenticare, disse, quel mio passato
che non torna, questo presente che non m’importa, e un futuro che… C’era un
poeta greco, ricordo, ma non ricordo il nome, che diceva che è meglio per
l’uomo morire a sessant’anni. Anche prima, dico io…”. E dicendo, prese in mano
il bicchiere e, prima di bere, mettendolo contro la luce della fiamma, ne
guardò la luminosa trasparenza. Poi lo vuotò. Quindi lo riempì di nuovo e lo
posò rosso rubino accanto al fiasco. “E’
bello il vino, disse, anche la sua bellezza contribuisce a inebriarti. E anche
la fiamma, quando è una bella fiamma. E anche una bella donna, una ragazza, una
vergine, quando è bella”. In queste sue confidenze, eccetto gli accenni di
quella sera, in cui le paragonò al vino e alla fiamma, mai parlò di donne e di
amore. Questo suo silenzio in merito mi stupiva. Eppure, la sua figura, nobile
e aristocratica nello stile e ancora giovanilmente virile nell’aspetto, e quel
suo sguardo intelligente e signorilmente ironico, facevano pensare il
contrario. Facevano pensare ad una gioventù di pieno fascino e quindi ad
avventure ricche di amori e di passioni. Forse troppo dolorosi da rievocare.
Avrei voluto chiedere: “E le donne?”. Ma il senso di pudore che mi
caratterizzava, pur nella ormai cordiale reciproca confidenza, me lo impediva.
Poi fece silenzio. E, nel silenzio, improvvisamente, mi disse: “L’altra sera
ero a cena da amici; quando, d’un tratto, un forte mal di testa. Mi dovettero
accompagnare a casa… E pensare che non sapevo cos’era il mal di testa…”. E ci
fu ancora un lungo silenzio. Ma io ero abituato a quei silenzi. Quando andavo a
trovarlo, le parole a volte erano rare. Allora, più che la conversazione, era
lo stare insieme che ci gratificava. La cagnetta si mosse, guardò in giro, sospirò,
e si rimise giù, nella sicurezza della presenza del padrone. Infine lui disse:
“Sai? Le analisi hanno diagnosticato un aneurisma cerebrale… E’ stato per
quello il mal di testa…”. Sentii. Ma non potevo crederci. Mi sembrava una cosa
assurda. Aggiunse: “Ci sarebbe l’intervento chirurgico. Ma poi nel novanta per
cento dei casi si resta un vegetale… E io penso che se uno è nato, deve anche
avere il coraggio di morire”. Lo guardavo stupito. Avevo letto il Fedone. E
nella mia giovanile superficialità avevo pensato che quella serena e gioviale
imperturbabilità di Socrate di fronte alla morte poteva essere in definitiva
un’invenzione dell’autore, per fare della bella letteratura. Poi parlò ancora:
“Ma, non ci pensiamo… Brindiamo piuttosto; o, meglio, libiamo agli dèi,
affinché ci siano amici e perché il passaggio da qui a colà ce lo rendano del
tutto felice”. E, dopo averne versate alcune gocce sulla fiamma nel focolare,
bevve. E, invitandomi a libare io stesso era sereno e disteso. Mi sorrideva.
Notai quel suo riferimento a Socrate. Eravamo dunque in sintonia di pensieri.
Però mi volevo convincere che lo faceva per celia. Non mi riusciva di prendere
sul serio tutta la faccenda.
Quando mi congedai, lo lasciai che tuttavia beveva. Ma sapevo che era un uomo
robusto e un gran bevitore. Quel suo vino nero colore del rubino: “E’ dei miei
poderi di Montefollonico”, mi diceva. E nella commozione della voce lo
struggimento del cuore: la poesia di quelle pendici solatie che, ricche di
ubertosi vigneti, scendevano a valle in dolce declivio, suo regno
nell’infanzia. Nel salutarmi ebbe ancora modo di scherzare: “Cerca di stare
bene, mi disse, ma non ci dovrebbero essere problemi. Gli dèi sono in obbligo
ora con noi, di trattarci bene, dal momento che abbiamo libato in loro onore”.
Alcuni giorni dopo, infatti, mentre ero fermo ad un semaforo, vidi alla mia
sinistra degli avvisi mortuari. Uno col suo nome, e il titolo ’medico condotto’
e le formule consuete: ‘è mancato all’affetto dei suoi cari’, ‘ne danno il
triste annuncio la moglie e i due figli’… E i nomi erano quelli dei suoi
famigliari. E leggendo, non ero addolorato; anzi sorridevo. Pensavo, infatti,
che gli dèi gli erano stati amici. Perché, certo, nonostante la sua
miscredenza, avevano esaudito la sua lunga nostalgia di tornare a contemplare
la fiamma di quei suoi antichi focolari, non più ritrovati, ma mai dimenticati.