Con
questa tredicesima puntata si chiude la serie dei Padri della Chiesa che avevo
scelto ritenendoli tra i più rappresentativi per dare l’idea di come traggano
origine la teologia e la dogmatica che codificano e danno sostanza alla Parola
di Gesù attraverso il magistero della Chiesa. Spero di aver contribuito a fare
intravedere la grandezza di alcuni uomini che hanno fissato le coordinate della
fede e difeso con tutte le loro energie quell’ortodossia teologica e dogmatica
cui hanno ampiamente concorso a definire. Certo la preghiera intensa e l’aiuto
dello Spirito Santo sono stati determinanti, ma la volontà di testimoniare la
Parola di Gesù e il suo progetto di amore salvifico è frutto dello spessore
morale e culturale di questi personaggi eccelsi. In Occidente S. Isidoro di
Siviglia è ritenuto storicamente l’ultimo; in Oriente è con S. Giovanni
Damasceno che si chiude l’era dei Padri della Chiesa.
Sant’Isidoro è ritenuto
una mente enciclopedica, perché non c’è argomento scientifico che non lo abbia
attratto e approfondito; questa caratteristica ha influito, sotto certi
aspetti, in modo negativo, sull’originalità del suo pensiero: difatti è un
eccellente e prolifico scrittore scientifico, divulgatore convincente,
testimone della fede di specchiate virtù fino alla santità, ma non va oltre. “Ultimo dei Padri latini, S.Isidoro (Cartagena
560 – Siviglia 636) ricapitola in sé
tutto il retaggio di acqusizioni dottrinali e culturali che l’epoca dei Padri
della Chiesa ha trasmesso ai secoli futuri. Isidoro fu molto letto nel Medioevo,
soprattutto per le sue Etimologie, un’utile “somma” della scienza antica” (Piero
Bargellini). Degna di menzione è la sua
azione missionaria presso i Visigoti, popolazione dell’est-europeo stabilitasi
in Spagna e nel nord Africa: li converte, infatti, dall’arianesimo
all’ortodossia cattolica, favorendo così la piena integrazione con la
popolazione locale.
Giovanni
Damasceno (in arabo, Yuhanna
ib Sarjun) nasce a Damasco intorno al 676 da una facoltosa famiglia
impegnata, pur cristiana, nell’amministrazione del califfato omayyde. Giovanni
è nominato governatore della città sotto i primi tre califfi, ma caduto in
disgrazia per gli intrighi di corte, viene processato per tradimento e
condannato al taglio della mano sinistra. Termina così in modo drammatico la
sua carriera politico-amministrativa. Muore a Gerusalemme il 4 dicembre 749.
Per inquadrare al meglio il personaggio, la fede e l’opera di Giovanni non c’è
di meglio che riportare la catechesi di papa Benedetto XVI tenuta nell’udienza
generale del 6 maggio 2009:
“Vorrei parlare oggi di Giovanni Damasceno, un
personaggio di prima grandezza nella storia della teologia bizantina, un grande
dottore nella storia della Chiesa universale. Egli è soprattutto un testimone
oculare del trapasso dalla cultura cristiana greca e siriaca, condivisa dalla
parte orientale dell’Impero bizantino, alla cultura dell’Islàm, che si fa
spazio con le sue conquiste militari nel territorio riconosciuto abitualmente
come Medio o Vicino Oriente. Giovanni, nato in una ricca famiglia cristiana,
ancora giovane assunse la carica - rivestita forse già dal padre - di
responsabile economico del califfato. Ben presto, però, insoddisfatto della
vita di corte, maturò la scelta monastica, entrando nel monastero di san Saba,
vicino a Gerusalemme. Non allontanandosi mai dal monastero, si dedicò con tutte
le sue forze all’ascesi e all’attività letteraria, non disdegnando una certa
attività pastorale, di cui danno testimonianza soprattutto le sue numerose
Omelie. La sua memoria liturgica è celebrata il 4 Dicembre. Papa Leone XIII lo
proclamò Dottore della Chiesa universale nel 1890. Di lui si ricordano in
Oriente soprattutto i tre Discorsi contro coloro che calunniano le sante
immagini, che furono condannati, dopo la sua morte, dal Concilio iconoclasta di
Hieria (754). Questi discorsi, però, furono anche il motivo fondamentale della
sua riabilitazione e canonizzazione da parte dei Padri ortodossi convocati nel
II Concilio di Nicea (787), settimo ecumenico. In questi testi è possibile
rintracciare i primi importanti tentativi teologici di legittimazione della
venerazione delle immagini sacre, collegando queste al mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio nel seno
della Vergine Maria. Giovanni Damasceno fu inoltre tra i primi a distinguere,
nel culto pubblico e privato dei cristiani, fra adorazione e venerazione : la
prima si può rivolgere soltanto a Dio, sommamente spirituale, la seconda invece
può utilizzare un’immagine per rivolgersi a colui che viene rappresentato
nell’immagine stessa. Ovviamente, il Santo non può in nessun caso essere
identificato con la materia di cui l’icona è composta. Questa distinzione si
rivelò subito molto importante per rispondere in modo cristiano a coloro che
pretendevano come universale e perenne l’osservanza del divieto severo
dell’Antico Testamento sull’utilizzazione cultuale delle immagini. Questa era
la grande discussione anche nel mondo islamico, che accetta questa tradizione
ebraica della esclusione totale di immagini nel culto. Invece i cristiani, in
questo contesto, hanno discusso del problema e trovato la giustificazione per
la venerazione delle immagini. Scrive il Damasceno: "In altri tempi Dio
non era mai stato rappresentato in immagine, essendo incorporeo e senza volto.
Ma poiché ora Dio è stato visto nella carne ed è vissuto tra gli uomini, io
rappresento ciò che è visibile in Dio. Io non venero la materia, ma il creatore
della materia, che si è fatto materia per me e si è degnato abitare nella
materia e operare la mia salvezza attraverso la materia. Io non cesserò perciò
di venerare la materia attraverso la quale mi è giunta la salvezza. Ma non la
venero assolutamente come Dio! Come potrebbe essere Dio ciò che ha ricevuto
l’esistenza a partire dal non essere?…Ma io venero e rispetto anche tutto il
resto della materia che mi ha procurato la salvezza, in quanto piena di energie
e di grazie sante. Non è forse materia il legno della croce tre volte beata?...
E l’inchiostro e il libro santissimo dei Vangeli non sono materia? L’altare
salvifico che ci dispensa il pane di vita non è materia?... E, prima di ogni
altra cosa, non sono materia la carne e il sangue del mio Signore? O devi
sopprimere il carattere sacro di tutto questo, o devi concedere alla tradizione
della Chiesa la venerazione delle immagini di Dio e quella degli amici di Dio
che sono santificati dal nome che portano, e che per questa ragione sono
abitati dalla grazia dello Spirito Santo. Non offendere dunque la materia: essa
non è spregevole, perché niente di ciò che Dio ha fatto è spregevole" (Contra imaginum
calumniatores, I, 16, ed. Kotter, pp. 89-90).
Vediamo che,
a causa dell’incarnazione, la materia appare come divinizzata, è vista come
abitazione di Dio. Si tratta di una nuova visione del mondo e delle realtà
materiali. Dio si è fatto carne e la carne è diventata realmente abitazione di
Dio, la cui gloria rifulge nel volto umano di Cristo. Pertanto, le
sollecitazioni del Dottore orientale sono ancora oggi di estrema attualità,
considerata la grandissima dignità che la materia ha ricevuto nell’Incarnazione,
potendo divenire, nella fede, segno e sacramento efficace dell’incontro
dell’uomo con Dio. Giovanni Damasceno resta, quindi, un testimone privilegiato
del culto delle icone, che giungerà ad essere uno degli aspetti più distintivi
della teologia e della spiritualità orientale fino ad oggi. E’ tuttavia una
forma di culto che appartiene semplicemente alla fede cristiana, alla fede in
quel Dio che si è fatto carne e si è reso visibile. L’insegnamento di san
Giovanni Damasceno si inserisce così nella tradizione della Chiesa universale,
la cui dottrina sacramentale prevede che elementi materiali presi dalla natura
possano diventare tramite di grazia in virtù dell’invocazione (epiclesis) dello
Spirito Santo, accompagnata dalla confessione della vera fede. In collegamento
con queste idee di fondo Giovanni Damasceno pone anche la venerazione delle
reliquie dei santi, sulla base della convinzione che i santi cristiani, essendo
stati resi partecipi della resurrezione di Cristo, non possono essere
considerati semplicemente dei ‘morti’. Enumerando, per esempio, coloro le cui
reliquie o immagini sono degne di venerazione, Giovanni precisa nel suo terzo
discorso in difesa delle immagini: "Anzitutto
(veneriamo) coloro fra i quali Dio si è riposato, egli solo santo che si riposa
fra i santi (cfr Is 57,15), come la santa Madre di Dio e tutti i santi. Questi
sono coloro che, per quanto è possibile, si sono resi simili a Dio con la loro
volontà e per l’inabitazione e l’aiuto di Dio, sono detti realmente dèi (cfr
Sal 82,6), non per natura, ma per contingenza, così come il ferro arroventato è
detto fuoco, non per natura, ma per contingenza e per partecipazione del fuoco.
Dice infatti: Sarete santi, perché io sono santo (Lv 19,2)”.
Dopo una
serie di riferimenti di questo tipo, il Damasceno poteva perciò serenamente
dedurre: "Dio, che è buono e
superiore ad ogni bontà, non si accontentò della contemplazione di se stesso,
ma volle che vi fossero esseri da lui beneficati che potessero divenire
partecipi della sua bontà: perciò creò dal nulla tutte le cose, visibili e
invisibili, compreso l’uomo, realtà visibile e invisibile. E lo creò pensando e
realizzandolo come un essere capace di pensiero arricchito dalla parola e
orientato verso lo spirito". E per chiarire ulteriormente il pensiero,
aggiunge: "Bisogna lasciarsi
riempire di stupore da tutte le opere della provvidenza, tutte lodarle e tutte
accettarle, superando la tentazione di individuare in esse aspetti che a molti
sembrano ingiusti o iniqui, e ammettendo invece che il progetto di Dio va al di là della capacità conoscitiva e
comprensiva dell’uomo, mentre al contrario soltanto Lui conosce i nostri
pensieri, le nostre azioni, e perfino il nostro futuro". Già Platone, del resto, diceva che tutta la
filosofia comincia con lo stupore: anche la nostra fede comincia con lo stupore
della creazione, della bellezza di Dio che si fa visibile. L’ottimismo della
contemplazione naturale di questo vedere nella creazione visibile il buono, il
bello, il vero, questo ottimismo cristiano non è un ottimismo ingenuo: tiene
conto della ferita inferta alla natura umana da una libertà di scelta voluta da
Dio e utilizzata impropriamente dall’uomo, con tutte le conseguenze di
disarmonia diffusa che ne sono derivate. Da qui l’esigenza, percepita chiaramente
dal teologo di Damasco, che la natura
nella quale si riflette la bontà e la bellezza di Dio, ferite dalla nostra
colpa, "fosse rinforzata e rinnovata" dalla discesa del Figlio di Dio
nella carne, dopo che in molti modi e in diverse occasioni Dio stesso aveva
cercato di dimostrare che aveva creato l’uomo perché fosse non solo
nell’"essere", ma nel "bene-essere" (cfr La fede ortodossa).
Con trasporto appassionato Giovanni spiega: "Era necessario che la natura
fosse rinforzata e rinnovata e, fosse indicata e insegnata concretamente la
strada della virtù, che allontana dalla corruzione e conduce alla vita eterna…”.
Apparve così all’orizzonte della storia il grande mare dell’amore di Dio per
l’uomo. Vediamo, da una parte, la bellezza della creazione e, dall’altra, la
distruzione fatta dalla colpa umana. Ma vediamo nel Figlio di Dio, che discende
per rinnovare la natura, il mare dell’amore di Dio per l’uomo. Continua
Giovanni Damasceno: "Egli stesso, il
Creatore e il Signore, lottò per la sua creatura trasmettendole con l’esempio
il suo insegnamento… E così il Figlio di Dio, pur sussistendo nella forma di
Dio, abbassò i cieli e discese… presso i suoi servi… compiendo la cosa più
nuova di tutte, l’unica cosa davvero nuova sotto il sole, attraverso cui si
manifestò di fatto l’infinita potenza di Dio".
Papa
Benedetto ha colto tutta la modernità di Giovanni Damasceno, ma, soprattutto,
ha reso comprensibile le ragioni del culto delle immagini.