La sentenza della Corte costituzionale che, affossando
forse in via definitiva il senso della legge 40 sulla cosiddetta riproduzione
assistita, ha dato via libera anche in Italia alla “fecondazione eterologa”:
era attesa. In materia di diritti riproduttivi e più in generale di diritti
familiari, le normative internazionali ed europee, alle quali sempre di più si
vanno uniformando sia la magistratura italiana sia la Corte costituzionale (che
però, in senso proprio, magistratura non è, in quanto solo un terzo dei suoi
componenti sono magistrati), sono quanto mai “liberal” nel senso più esteso del
termine: le scelte di autodeterminazione del singolo non trovano di fatto più
confini né in ambito familiare né tanto meno in ambito sociale. Se il primo
libro del codice civile fascista del 1942 poneva il diritto di famiglia sotto
la tutela preminente dell’interesse pubblico (lo Stato) e se la legge
“democristiana” del 1975 esaltava invece il rapporto solidale, paritario ed
inscindibile tra i coniugi, ormai, di fronte ad un progressivo disfarsi
dell’istituto familiare come lo abbiamo conosciuto in passato, è la scelta
della singola persona a dettare legge. Anche su questioni delicatissime quali
il concepimento, la procreazione, domani forse la morte. Sino al punto – un
tempo considerato fantascientifico – di alterare i caratteri stessi della
natura umana. La posizione cattolica, che non si stanca di mettere in guardia
contro l’abbandono dei principi di natura, viene presentata come retrograda ed
oscurantista, lesiva dei diritti dei singoli.
Questione tutt’altro che nuova, a ben vedere. Sin dai
primordi della civiltà, la convivenza civile e le religioni si sono trovate di
fronte al contrasto tra “natura” e “scienza”. Il mito e la tragedia greca
hanno descritto quel contrasto con pagine altissime e cariche di saggezza: la “tekne”, ovvero la scienza, va avanti in
modo incessante, ma l’uomo, pur traendone benefici apparenti, si macchia, così
facendo, di una delle colpe più gravi, anche se più impalpabili, della sua
coscienza, il delitto di “ùbris”.
Questa parola – molto simile al concetto biblico del peccato originale – si
traduce in vari modi: eccesso, tracotanza, superbia, prevaricazione. Il celebre
mito di Prometeo rende bene l’idea: Prometeo, “amico” degli uomini, sale
all’Olimpo per rubare il fuoco agli dei e donarlo all’uomo, nonostante il
divieto celeste. Ciò facendo, egli commette “ùbris”, e deve essere punito, incatenato sul Monte Caucaso e
torturato da un’aquila, a mo’ di esempio. Molti poeti e drammaturghi, nel corso
dei secoli, hanno preso la parte di Prometeo, vedendo in lui un simbolo di
libertà e di sconfitta di un’autorità ingiusta. Poco però si sono soffermati
sul concetto di “ùbris”, legato
all’esistenza di una legge morale non scritta alla quale la scienza non può
pensare di sostituirsi. Perché la scienza può rappresentare il nuovo, ma non il
bene, che compete ad una diversa dimensione dell’umano: si pensi alla fissione
dell’atomo ed all’enorme differenza morale tra i suoi possibili utilizzi, dalla
bomba atomica alla medicina.
Oggi però queste considerazioni – anche per motivi di
carattere consumistico e quindi di facili guadagni – sono tutt’altro che di
attualità e, come detto, la tendenza giuridica, specie nei paesi sviluppati
dell’Europa e del Nord America, va nella direzione di non porre freni alla
scelta del singolo individuo. Arrivando ad intervenire anche nelle fasi più
delicate della vita. La posizione cattolica è chiara, e non cessa di ammonire
sui rischi insiti in scelte che possono essere senza limiti, se non quelli (a
loro volta molto pericolosi e sconcertanti: si pensi alle notizie di questi
giorni sullo scambio di embrioni in un ospedale di Roma) posti dalla stessa
organizzazione medico-scientifica. I cattolici lo fanno non solo con argomenti
religiosi, ma in primo luogo di richiamo alla retta ragione. Però non vengono
ascoltati e il timore è che nei prossimi anni e decenni le tendenze oggi in
atto si estendano ancora.
Che fare allora ? Le indicazioni, come sempre, ci
vengono dal Vangelo e dall’antica tradizione della Chiesa. Non basta, e
soprattutto non serve, stracciarsi le vesti e gridare allo scandalo. La storia
della Chiesa ci insegna che non fu quella la strada intrapresa dai cristiani in
tempi altrettanto difficili, nei quali essi vivevano in ambienti e in contesti
ostili, come nell’impero romano al tempo delle persecuzioni. Ad allora risale
un documento prezioso, considerato non a torto il fondamento della moderna
dottrina sociale della Chiesa: la “Lettera
a Diogneto”, scritta nel secondo secolo e contenente alcune indicazioni sul
comportamento dei cristiani nel “mondo”. Prendiamone solo alcuni passi, tratti
dal celebre quinto capitolo: “I cristiani
… vivono nella loro patria, ma
come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati
come stranieri … Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i
neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non
vivono secondo la carne … Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita
superano le leggi”. Quanta attualità in queste parole scritte
quasi duemila anni or sono! E come risuona attuale anche l’ammonimento del Papa
Paolo VI che, circa quarant’anni or sono, ci ricordava come “Il nostro tempo non ha bisogno tanto di
maestri quanto di testimoni”.