N° 5 - Maggio 2014
LA LEGGE 40, PROMETEO E LA LETTERA A DIOGNETO
di Egidio Banti


La sentenza della Corte costituzionale che, affossando forse in via definitiva il senso della legge 40 sulla cosiddetta riproduzione assistita, ha dato via libera anche in Italia alla “fecondazione eterologa”: era attesa. In materia di diritti riproduttivi e più in generale di diritti familiari, le normative internazionali ed europee, alle quali sempre di più si vanno uniformando sia la magistratura italiana sia la Corte costituzionale (che però, in senso proprio, magistratura non è, in quanto solo un terzo dei suoi componenti sono magistrati), sono quanto mai “liberal” nel senso più esteso del termine: le scelte di autodeterminazione del singolo non trovano di fatto più confini né in ambito familiare né tanto meno in ambito sociale. Se il primo libro del codice civile fascista del 1942 poneva il diritto di famiglia sotto la tutela preminente dell’interesse pubblico (lo Stato) e se la legge “democristiana” del 1975 esaltava invece il rapporto solidale, paritario ed inscindibile tra i coniugi, ormai, di fronte ad un progressivo disfarsi dell’istituto familiare come lo abbiamo conosciuto in passato, è la scelta della singola persona a dettare legge. Anche su questioni delicatissime quali il concepimento, la procreazione, domani forse la morte. Sino al punto – un tempo considerato fantascientifico – di alterare i caratteri stessi della natura umana. La posizione cattolica, che non si stanca di mettere in guardia contro l’abbandono dei principi di natura, viene presentata come retrograda ed oscurantista, lesiva dei diritti dei singoli.
Questione tutt’altro che nuova, a ben vedere. Sin dai primordi della civiltà, la convivenza civile e le religioni si sono trovate di fronte al contrasto tra “natura” e “scienza”. Il mito e la tragedia greca hanno descritto quel contrasto con pagine altissime e cariche di saggezza: la “tekne”, ovvero la scienza, va avanti in modo incessante, ma l’uomo, pur traendone benefici apparenti, si macchia, così facendo, di una delle colpe più gravi, anche se più impalpabili, della sua coscienza, il delitto di “ùbris”. Questa parola – molto simile al concetto biblico del peccato originale – si traduce in vari modi: eccesso, tracotanza, superbia, prevaricazione. Il celebre mito di Prometeo rende bene l’idea: Prometeo, “amico” degli uomini, sale all’Olimpo per rubare il fuoco agli dei e donarlo all’uomo, nonostante il divieto celeste. Ciò facendo, egli commette “ùbris”, e deve essere punito, incatenato sul Monte Caucaso e torturato da un’aquila, a mo’ di esempio. Molti poeti e drammaturghi, nel corso dei secoli, hanno preso la parte di Prometeo, vedendo in lui un simbolo di libertà e di sconfitta di un’autorità ingiusta. Poco però si sono soffermati sul concetto di “ùbris”, legato all’esistenza di una legge morale non scritta alla quale la scienza non può pensare di sostituirsi. Perché la scienza può rappresentare il nuovo, ma non il bene, che compete ad una diversa dimensione dell’umano: si pensi alla fissione dell’atomo ed all’enorme differenza morale tra i suoi possibili utilizzi, dalla bomba atomica alla medicina.
Oggi però queste considerazioni – anche per motivi di carattere consumistico e quindi di facili guadagni – sono tutt’altro che di attualità e, come detto, la tendenza giuridica, specie nei paesi sviluppati dell’Europa e del Nord America, va nella direzione di non porre freni alla scelta del singolo individuo. Arrivando ad intervenire anche nelle fasi più delicate della vita. La posizione cattolica è chiara, e non cessa di ammonire sui rischi insiti in scelte che possono essere senza limiti, se non quelli (a loro volta molto pericolosi e sconcertanti: si pensi alle notizie di questi giorni sullo scambio di embrioni in un ospedale di Roma) posti dalla stessa organizzazione medico-scientifica. I cattolici lo fanno non solo con argomenti religiosi, ma in primo luogo di richiamo alla retta ragione. Però non vengono ascoltati e il timore è che nei prossimi anni e decenni le tendenze oggi in atto si estendano ancora.

Che fare allora ? Le indicazioni, come sempre, ci vengono dal Vangelo e dall’antica tradizione della Chiesa. Non basta, e soprattutto non serve, stracciarsi le vesti e gridare allo scandalo. La storia della Chiesa ci insegna che non fu quella la strada intrapresa dai cristiani in tempi altrettanto difficili, nei quali essi vivevano in ambienti e in contesti ostili, come nell’impero romano al tempo delle persecuzioni. Ad allora risale un documento prezioso, considerato non a torto il fondamento della moderna dottrina sociale della Chiesa: la “Lettera a Diogneto”, scritta nel secondo secolo e contenente alcune indicazioni sul comportamento dei cristiani nel “mondo”. Prendiamone solo alcuni passi, tratti dal celebre quinto capitolo: “I cristiani …
vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri … Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne … Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi”. Quanta attualità in queste parole scritte quasi duemila anni or sono! E come risuona attuale anche l’ammonimento del Papa Paolo VI che, circa quarant’anni or sono, ci ricordava come “Il nostro tempo non ha bisogno tanto di maestri quanto di testimoni”.



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