Domenica 6 ottobre: 27a del
tempo ordinario
“ Se aveste fede…” (Lc.17, 5-10).
Gesù
non chiede chissà cosa. Chiede fede. In questo “anno della fede” il cristiano
si interroga ancora di più non tanto sulla “quantità” della sua fede ma sull’intensità.
Il Maestro, infatti, ci suggerisce che basterebbe “un granellino di senape” per
operare prodigi impensati. Ma se il ”granellino” non c’è, o languisce
spegnendosi tristemente? Gothe, sul limitare della morte, chiedeva luce, e
pregava che si aprisse di più la finestra. Per Il cristiano il problema è
cercare luce, quella vera: Gesù. E’ Lui che ci apre al Padre. A noi,
attraverso una fede nuda, se necessario, la scelta di abbandonarci con totale
fiducia. La fede è cammino, nella gioia
e nei dolori, compagna preziosa dei nostri giorni, che se così vissuti,
ci garantiscono beatitudine. Trilussa,
poeta romano, la fede la vede così, sapientemente: “Quella vecchietta cieca, che incontrai/ la notte che me spersi in mezzo
ar bosco, /me disse: - Se la strada nun la sai,/ te ciaccompagno io, ché la
conosco. /Se ciai la forza de venimme appresso, /de tanto in tanto te darò 'na
voce, /fino là in fonno, dove c'è un cipresso, /fino là in cima, dove c'è la Croce…
/ Io risposi: - Sarà … ma trovo strano /che me possa guidà chi nun ce vede … -/
La cieca allora me pijò la mano /e sospirò: - Cammina! - Era fa Fede.
Domenica 13 ottobre: 28a del
tempo ordinario
“… e gli altri nove dove
sono?” (Lc. 17,11-19).
Sono
in dieci a chiedere pietà. Quei dieci sono lebbrosi, colpiti da una malattia
che devastava il corpo e condannava a un isolamento totale. Tragedia
irraccontabile. Gesù, "ricco di misericordia” li invia ai sacerdoti facendo già capire, e
lo farà, che intende liberarli: il sacerdote, infatti, doveva ratificare la
guarigione dalla lebbra, consentendo alle persone l’inserimento desiderato
nelle celebrazioni del culto e nella società. Ma l’uomo, afferma Jerzy Lec, “è
persona non grata”. Qui si vede plasticamente. Su dieci guariti, e da quale
male! nove ignorano tranquillamente quel Gesù
che avevano supplicato, suscitando l’amara constatazione del
Maestro. Solo uno, sottolineerà , un samaritano, quindi un eretico
e peccatore, secondo gli ebrei, tornerà indietro a dire grazie. Proprio
quest’uomo si meriterà da Gesù lode e certezza di salvezza. E quegli ingrati?
Raccontano di noi. Di fronte all’innumerevoli doni del Signore che
arricchiscono la nostra quotidianità quante volte sentiamo stupita gratitudine? La Messa stessa che è rendimento
di grazie, Eucarestia appunto, la viviamo in questa dimensione? Proviamo il
bisogno, la gioia di cantare con il Salmo: “Che cosa renderò al
Signore per quanto mi ha dato? Alzerò il
calice della salvezza e invocherò
il nome del Signore”? La
mentalità stessa di oggi, e forse di sempre, è esigente nei diritti ma
indifferente alla riconoscenza. Chi dice “grazie” a Dio e al fratello che ti ha
beneficato? Eppure, questa parola, è stato scritto, non l’ha inventata un uomo,
è stato un angelo a portarla sulla terra.
Domenica 20 ottobre: 29a del tempo ordinario
“ il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà fede sulla terra?” (Lc. 18, 8).
Una domanda drammatica quella del Maestro.
Che esige una risposta. Tutti siamo coinvolti. Evitiamo di fare i “furbi”: quando Lui tornerà, noi non ci
saremo, ci saranno altri… No, questo venire del Signore, deve trovare ognuno,
nel suo tempo, con la lampada accesa, col desiderio di una sposa che attende lo
sposo. Lui viene. Riconosciamo
come “dono grande” questa divina
“ostinazione d’amore…” (don Mazzolari) di rimanere con noi, di servirci a
tavola e fare festa. Facciamo nostra, allora, la preghiera di uno che scriveva
su Dio e lo adorava contemplandoLo: S. Tommaso d’Aquino. “Concedimi, Signore mio Dio,
un’intelligenza che ti conosca, una volontà che ti cerchi, una sapienza che ti
trovi, una vita che ti piaccia, una perseveranza che ti attenda con fiducia, e
una fiducia che alla fine giunga a possederti”.
Domenica 27 ottobre: 30a del tempo ordinario
“ due uomini salirono al
tempio…” (Lc. 18, 10-11).
Parabola conosciutissima, da vivere più che
da godere. Due uomini salgono “per pregare”. Il primo è un fariseo. I farisei
erano impegnati ogni giorno a mettere in pratica 613 precetti, estratti dalla
legge di Mosè. Erano anche ossessionati da ciò che era puro o impuro. Si
potrebbero definire ‘professionisti del sacro’. Il fariseo “prega”. Davvero?
Luca nota che quel tale prega “tra se”. La traduzione più aderente al testo
greco è: “verso se stesso”. Non prega dunque il Signore, ma in realtà loda solo se stesso. Così, si adula, si
compiace, si confronta sfacciatamente perfino con quel disgraziato che vede in
fondo al tempio. L’altro uomo è un pubblicano. Lui si ferma “a distanza”, termine
col quale Luca indica il ‘pagano’. E’ ebreo, in realtà, quest’uomo innominato,
ma si sente profondamente peccatore, quasi un escluso. La descrizione
evangelica lo conferma: “non osava alzare gli occhi al cielo” – “si batteva il
petto”- diceva: “O Dio abbi pietà di me peccatore”. In verità, i pubblicani non
erano stinchi di santo. Erano dazieri e mettevano le tariffe delle tasse a
piacere. Apparivano e molti lo erano, ladri di professione, quindi impuri sul
serio. Ed ecco la sconcertante conclusione fatta da Gesù: “Io vi dico: ‘Questi’”, il pubblicano,
“a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato”, (perdonato) “perché chiunque si esalta sarà umiliato, e
invece chi si umilia sarà esaltato”. Il
pubblicano è perdonato perché non si vanta di niente. Sa solo di aver bisogno
della misericordia di Dio, del suo perdono e del suo amore e a Lui si affida.
Il primo, è pieno di se, di una boria sconfinata: Il Signore non trova dove
posare i suoi doni. ”Ha rimandato i ricchi a mani vuote” profetizzerà Maria. Il
secondo si sente vuoto, bisognoso: ecco perché, direbbe ancora Maria, “i
poveri, li ha riempiti di beni”.
E' consapevole di essere un peccatore, sente il
bisogno del cambiamento, di una rinascita e, soprattutto, ha la consapevolezza
di non poter pretendere niente da Dio. Nulla ha da vantare e nulla da esigere.
Può solo sperare. Fa affidamento su Dio, nella sua misericordia, non su se
stesso. Questa è l'umiltà di cui parla la parabola, l'atteggiamento che Gesù
loda: non elogia la vita del pubblicano, come non ha disprezzato il fariseo.
Conclusione
La morale
della parabola è chiara e semplice: l'unico modo corretto di porsi di fronte a
Dio, nella preghiera e nella vita, è quello di sentirsi costantemente bisognosi
del suo perdono e del suo amore. La giustizia che il fariseo vantava davanti a
Dio come conquista di uno sforzo personale, il pubblicano l'ha ricevuta come
dono misericordioso dal Signore.