Agostino,
di etnia berbera, ma di cultura ellenistico-romana, nasce il 13 nov. del 354 a
Tagaste, l’odierna città algerina di Souk-Ahras, allora nella provincia
proconsolare di Numidia. La famiglia non era ricca, ma molto rispettabile e
stimata. Il padre, Patrizio, pagano, era uno dei curtales, cioè consigliere comunale. Sua moglie Monica, cristana, solo in prossimità della morte riesce
a portarlo alla conversione. Questa condizione familiare non facile fornisce ad
Agostino due antitetiche visioni del mondo e della vita, da lui vissute in
conflitto tra loro. Tale condizione psicologica ci spiega l’importanza del
dubbio quale strumento di ricerca della verità che tormenterà la personalità di
Agostino. La madre, venerata come santa dalla Chiesa latina, esercita un ruolo
imprtante nell’educazione del figlio, che viene iscritto tra i catecumeni, ma
il battesimo arriverà solo verso i 33 anni, a Milano, per merito di S. Ambrogio.
Africano
di nascita, oltre al punico, conosce alla perfezione il latino, mentre con il
greco ha delle difficoltà. Il padre, orgoglioso dei successi scolastici del
ragazzo, raggranella come può i soldi necessari e nel 370 lo manda a Cartagine
per prepararlo alla carriera forense. Qui le seduzioni della metropoli, ancora
fortemente pagana, la licenziosità dell’ambiente studentesco e la smisurata ambizione
di primeggiare in tutto, anche nel peccare, lo spingono ad iniziare una
relazione, durata quindici anni, con una donna, di cui non si conosce il nome,
che gli dà nel 372 il figlio Adeodato. La separazione avverrà a Milano nel 386,
quando lei decide di tornare in Africa. Intorno ai vent’anni, ha la prima
crisi: si rende conto che quel tipo di vita è senza finalità. La lettura dell’Hortensius, opera retorico-filosofica di
Cicerone, andata perduta, sembra aiutarlo a uscire da quella condotta dissoluta
e senza scopo. La sua ansia per la ricerca della verità assoluta lo fa
approdare al Manicheismo, che considera la vita come l’eterna lotta tra il bene
e il male. Prende la decisione di darsi all’insegnamento della retorica con
grande successo. Apre una scuola a Tagaste, poi a Cartagine e a Roma. Infatti
nel 383, a 29 anni, sente l’attrazione fatale di trasferirsi a Roma. Disgustato
dall’ambiente romano, fa domanda per un posto vacante come professore a Milano.
Il praephectus urbi, Quinto Aurelio
Simmaco, lo aiuta a ottenere l’incarico, anche per contrastare, con un manicheo
doc, la fama del vescovo Ambrogio. Dopo alcuni colloqui con il vescovo, sempre
per soddisfare la sete di verità, si sente attratto dai suoi discorsi e inizia
a seguirne le prediche.
La
strada è ancora tormentata, prima di approdare definitivamente alla fede. Lo
angustia il problema del male: se Dio esiste ed è onnipotente, perché non lo
annienta? “Tali pensieri volgevo nel mio
petto infelice, gravato da preoccupazioni tormentosissime, perché temevo la
morte e non avevo trovato la verità. Pure mi rimaneva ferma stabilmente nel mio
cuore la fede cattolica nel Cristo tuo, Signore e Salvatore nostro, una fede
ancora informe sotto molti aspetti e fluttuante al di fuori della dottrina,
eppure il mio animo non l’abbandonava” (Le confessioni,VII,5). La fase del
dubbio non è per Agostino un semplice incidente di percorso, è l’elemento
determinante per fargli trovare il bandolo, cioè la via della fede. Sosteneva
che solo chi dubita è animato dal sincero desiderio di trovare la verità, a
differenza di chi non si pone nessuna domanda (Quanto è attuale questo concetto!).
La madre Monica lo raggiunge a Milano e durante la Veglia pasquale del 387
Agostino e il figlio Adeodato ricevono da Ambrogio il battesimo.
Decide
di tornare in Africa, dove nel 391, dopo diversi dinieghi, accetta di essere
ordinato sacerdote. Il vescovo di Ippona, Valerio, lo aiuta materialmente a
costruire un monastero nella sua Tagaste. E’ l’inizio dell’ordine degli
agostiniani. Il primate d’Africa, Aurelio, nomina Agostino, quarantaduenne,
vescovo coadiutore dell’anziano vescovo di Ippona, Valerio. Così per 34 anni (395-430)
Agostino, lasciato il suo monastero, trova il modo di far combinare i suoi
doveri pastorali, le sue battaglie contro le eresie donatista, pelagiana,
ariana, e il manicheismo con l’austerità della vita monastica, trasformando la
residenza episcopale in un convento dove vive una vita di comunità con il suo
clero e uno stuolo di seguaci. Dopo una breve malattia e aver già da tempo concordato
il suo successore, per evitare le frequenti diatribe, muore il 30 agosto del 430 all’età di settantasei anni.
Tutta
la sua immensa dottrina, l’originalità delle sue riflessioni e la capacità di
confutare ogni devianza eretica, lo rendono uno scrittore fecondo, inesauribile
e, soprattutto, comprensibile e chiaro. Accenniamo a qualcosa del pensiero di
Agostino, perché sintetizzare in due paginette la vastità e la complessità dei
temi teologici affrontati è impossibile.
Non a caso per secoli è stato incontrastato riferimento del pensiero e
dei dogmi della Chiesa e ancora oggi non è ragionevole sviluppare un argomento
teologico senza conoscere il suo punto di vista. Sicuramente in una terna dei
sommi padri e dottori della Chiesa latina il suo nome non può mancare. E’ detto Doctor Gratiae, perché il suo concetto
di Grazia, quale dono di Dio a tutti gli uomini, rappresenta per la Chiesa
Cattolica il punto fermo della sua dottrina. La Grazia è un dono del Padre che
ci viene dato attraverso il sacrificio della croce del Figlio Unigenito, Gesù
Cristo. Essa è lo strumento indispensabile e il solo atto a garantire la
salvezza nella vita eterna. Spetta alla volontà dell’uomo accoglierla, perché
Dio propone, non impone, né ci sono prediletti a priori. Infatti, se l’uomo non
fosse libero, non avrebbe né meriti, né colpe. Ma l’uomo col peccato originale
ha compromesso la propria libertà, volgendola contro se stesso. Sebbene
divenuto indegno di ricevere la salvezza, Dio, conoscendo le possibili
inclinazioni umane verso il bene o verso il male, da buon Padre-Creatore concede
alla creatura il suo aiuto, cioè le fa dono della Grazia per salvarsi, pur
lasciando anche la libertà di dannarsi. Agostino sostiene il libero arbitrio dell’uomo, cioè la piena
facoltà di scelta; infatti, se Dio è l’Essenza dell’amore, non può permettere i
chiamati o i predestinati, lasciando gli altri al loro destino; dunque, Dio,
che è l’eterno presente, conosce e precorre semplicemente la volontà dell’uomo,
senza interferenze, né costrizioni, poiché la nostra volontà è l’unica che ci
rende meritevoli della salvezza o della dannazione. Per Agostino a fondamento
della libertà umana c’è la Grazia divina, poiché solo con essa l’uomo diventa
capace d’intendere e di dare attuazione alla propria scelta di vita e alle proprie
scelte morali che fanno da corollario alla Grazia per allontanarsi dal male.
Cosa sollecita l’uomo a cercare il senso della vita e a giustificarla, cioè a
tentare di coglierne la verità? (le eterne domande: chi sono? da dove vengo e
verso cosa sono destinato? Suggeriva ai giovani Benedetto XVI a Monaco di
Baviera nella precedente GMG).
Agostino
individua la molla che spinge l’uomo a cercare la risposta nel dubbio, cioè nell’ansia
e nella volontà della ricerca continue, costanti, con alti e bassi, finchè non
si trovano le certezze che danno appagamento. Il suo curriculum esistenziale ne
è l’esempio migliore: l’indifferenza verso gli insegnamenti cristiani della
madre, la vita giovanile libera e disordinata, il concubinaggio, il figlio, la
dolce vita milanese, il manicheismo (la lotta tra il bene e il male), infine il
fascino di Sant’Ambrogio che offre ad Agostino l’approdo sicuro e certo al suo
cercare. Nelle Confessioni, biografia
di un grande travaglio, traspare l’amarezza del tempo perso a non cercare o a
cercare male la verità dell’esistenza. “Tardi
ti ho amato. Bellezza così antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Sì, perché
tu eri dentro di me ed io fuori: lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle sembianze
delle tue creature. Eri con me, ma io non ero con te. Mi tenevano lontano da te
le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti e il tuo
grido sfondò la mia sordità; balenasti e il tuo splendore dissipò la mia
cecità; diffondesti la tua fragranza, respirai ed ora anelo verso di te; ti
gustai ed ora ho fame e sete di te; mi toccasti e arsi dal desiderio della tua
pace” (Le confessioni X,27-38).
“Si enim fallor sum. Nam qui non est, utique nec falli potest, ac per
hoc sum si fallor” (Se infatti mi sbaglio, vuol dire che esisto: chi non
esiste non può nemmeno sbagliarsi; dunque, siccome mi sbaglio, esisto). Da
questo sillogismo, che è segno di consapevolezza, parte la ricerca verso le
certezze di cui l’uomo ha bisogno. Così Agostino scopre che la Verità è
infinita, perfetta, eterna, e che continuerà ad esistere anche quando il mondo
scomparirà. La Verità viene da Dio, che è presente nell’anima di ogni uomo (anche
se lui lo ignora o lo rifiuta), quindi la Verità è la luce di Dio, la Verità è
Dio. “Noli foras ire, te ipsum redi, in
interiore homine habitat veritas, etsi tuam naturam mutabilem inveneris,
trascende et te ipsum” (Non uscire fuori di te, ritorna in te stesso:
nell’interiorità dell’uomo abita la verità, e se troverai la tua natura
mutabile, trascendi te stesso) (De vera
religione). Quindi la Verità si trova già nel mondo interiore di ogni uomo,
basta solo la volontà di riscoprirla e la voglia di portarla alla luce. Dio
donando la fede, cioè il mezzo indispensabile per raggiungere la Verità e
annullare il dubbio, esaudisce alla richiesta della ragione di dare un
significato al proprio pensare.
Agostino,
approfondendo il rapporto tra fede e ragione, si convince che la fede cristiana
non è separata o in conflitto con la razionalità, poiché il credere e il
comprendere si sostengono e si influenzano a vicenda: si crede purchè si
comprenda e si comprende purchè si creda. Nel De Trinitate sottolineando come nel prologo al suo Vangelo,
Giovanni sottolinei il rapporto di distinzione (“il Verbo era presso Dio”) e, insieme, di identità (“il Verbo era Dio”), Agostino ritiene la
triade divina, superando le diatribe dell’ortodossia greco-orientale su
sostanza, persona e natura, tre facoltà di una medesima realtà, non subordinate
tra loro, ma in rapporto paritario. “Et
ideo non amplius quam tria sunt: unus diligens eum qui de illo est, et unus
diligens eum de quo est, et ipsa dilectio” (Le persone divine non sono più
di tre: la prima che ama quella che da lei nasce, la seconda che ama quella da
cui nasce e la terza che è lo stesso amore).
“Ecce tria sunt, amans et quod amatur et amor” (Ecco sono tre: l’Amante,
l’Amato e l’Amore).
Nel
suo cercare le ragioni dell’uomo, Agostino ha posto la sua attenzione anche
sulle passioni e sui desideri: egli sosteneva che, esistendo la volontà in tutte
le passioni, le passioni sono la volontà stessa. Così i sentimenti umani altro
non sono che la manifestazione della nostra volontà. Lo stretto legame tra
volontà e sentimenti è rappresentato dal sentimento più forte, l’amore, che è
il vero motore della volontà, ovvero
la tendenza naturale dell’uomo a ricercare un certo bene. Dunque, se la volontà
è l’elemento che più di ogni altra cosa caratterizza l’uomo, l’uomo è ciò che ama. Il problema, semmai,
è cosa amare e non perché amare o se amare. Agostino individua due vie d’amore:
l’amore per le cose e le creature che porta al rifiuto del Creatore e l’amore
per il Creatore che tutto comprende. “Dunque,
una volta per tutte, ti viene proposto un breve precetto: ama, e fa ciò che vuoi. Se tu taci, taci per amore; se tu parli,
parla per amore; se tu correggi, correggi per amore; se perdoni, perdona per
amore. Sia in te la radice dell’amore; e da questa radice non può derivare se
non il bene…”) (In epistolam
Ioannis ad Parthos). Il punto focale della morale agostiniana è la carità (charitas) intesa come amore che tende
verso Dio, poiché Egli ne è la sorgente.
Basta ricordare le infinite citazioni di Giovanni Paolo II e di
Benedetto XVI che propongono Dio come Carithas e di papa Francesco con il suo
costante appello alla giustizia sociale in nome dell’Amore, per comprendere
l’attualità e la modernità del pensiero agostiniano. Il titolo di doctor Gratiae non gli arrivato per
caso.