I fenomeni migratori hanno da sempre accompagnato l’uomo alla ricerca di condizioni ambientali più adatte a migliorare la qualità della vita e della sicurezza. Le prime organizzazioni sociali erano clan familiari e tribù nomadi, che, seguendo la ciclicità stagionale, si spostavano verso luoghi più accoglienti.
La più antica attività lavorativa praticata era la pastorizia, quindi la transumanza alla ricerca di pascoli verdi e acqua era d’obbligo.
Gli Etruschi, che in Italia sono stati il primo popolo a dotarsi di una vera struttura sociale, economica e di governo, dando il via alla civiltà storicamente documentata del nostro Paese, venivano, via mare, dall’oriente.
Nelle grandi capitali dell’antichità, Atene, Alessandria, Roma, Costantinopoli, esistevano consistenti comunità di stranieri, creando società multietniche. Gli ebrei, per esempio, erano numerosi ovunque. Quelle che sono note come invasioni barbariche, in realtà cos’erano se non migrazioni? I Longobardi in Italia, i Visigoti in Spagna, i Franchi in Francia, tanto per citare qualche caso, hanno trovato le condizioni, a loro ideali, per fermarsi e integrarsi. Tutto questo per dire che gli eventi migratori sono antichi quanto l’uomo, perché il bisogno e la volontà di poter vivere meglio ha sempre spinto alla ricerca.
Le stesse civiltà moderne, proprio per il loro tipo di organizzazione, inducono agli spostamenti d’interi nuclei familiari da una località a un’altra.
Dopo la guerra, l’esigenza di lavoro, da una parte, e l’offerta di occupazione, dall’altra, hanno spostato dal Sud al Nord d’Italia decine di migliaia di persone, favorendo la ricostruzione e la rinascita economica dell’intera Nazione. Oggi, in un mondo globalizzante, la vecchia Europa è un polo di attrazione per chi nel terzo e quarto mondo vuole fuggire alla miseria più nera; alla mancanza di futuro; all’insicurezza, alla corruzione dei regimi; alla violenza delle dittature; alle guerre e persecuzioni di religione e ideologiche. Purtroppo il colonialismo ha rappresentato solo un fenomeno di pervicace spoliazione di risorse e di appropriazione indebita di immense ricchezze, senza nulla in cambio, a danno di inermi popolazioni lasciate colpevolmente alla loro ancestrale arretratezza culturale, sociale ed economica. Il post-colonialismo, poi, ha alimentato solo classi politiche locali inadeguate, litigiose, prepotenti, non democratiche, corrotte e ladre, peggiorando ovunque drammaticamente la situazione.
La Somalia non esiste più come Nazione, perché da anni non ha più alcuna struttura governativa degna di questo nome, ma ha i cosidetti “signori della guerra” che imperversano impunemente dettando la loro legge fatta di soprusi e di orrori. In diverse altre Nazioni africane i governi controllano la capitale e le aree limitrofe, lasciando interi territori alla mercè di bande terroristiche (vedi le regioni del nord della Nigeria con le persecuzioni e gli omicidi contro la comunità cristiana). Allora, chi è spinto a migrare? Ad abbandonare il quasi niente certo per andare verso l’insicuro ignoto? Indiscutibilmente i più poveri e indifesi, cioè, coloro che, non avendo nulla da perdere, sperano di trovare un luogo dove basta poco per stare meglio, se non bene. Tra questi disperati in movimento è fisiologico che s’infiltrino personaggi poco raccomandabili che, con il loro delinquere, etichettano anche gli onesti, suscitano diffidenza e ostracismo, se non ostilità.
I nostri emigranti del primo ‘900 negli Stati Uniti hanno collaborato alle fortune di quella Nazione, ma hanno dato anche Al Capone, quindi, il buono e il cattivo, come momenti di forti tensioni, non sono una novità dell’oggi. Cercando di non lasciarci prendere da inutili paure e intemperanze, dobbiamo accettare e predisporci ai cambiamenti, perché, che lo si voglia o no, questa è la nuova realtà. L’immigrazione sta mutando il volto ai luoghi abituali della nostra vita. In famiglia, a scuola, sul lavoro, in chiesa, nei luoghi del tempo libero incontriamo giornalmente ospiti che hanno scelto l’Italia per dare più certezze alla propria esistenza.
Ormai 5 milioni abbondanti di migranti di 193 paesi con 140 lingue diverse, con usi, costumi e religioni, spesso, lontani dal nostro modo di pensare e di credere, vivono in Italia. Non di rado, nelle nostre comunità, per un’istintiva forma di autodifesa e di smarrimento verso i rapidi mutamenti, gli atteggiamenti sono di indifferenza, diffidenza e intolleranza: comportamenti che non aiutano a comprendere il nuovo che avanza e a capire che non si può far finta di niente arroccandoci nel nostro isolamento. Un vecchio proverbio dice: “Non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere nè peggior sordo di chi non vuol sentire.”
Seguendo il magistero di Benedetto XVI (enciclica Caritas in veritate) è fondamentale ricercare e costruire occasioni d’incontro, di conoscenza reciproca, di relazione, di accoglienza, di integrazione - cosa assai diversa dall’assimilazione – per ridisegnare il volto delle nostre città e delle nostre comunità senza escludere nessuno. Già è grande il numero dei nati in Italia, che forse non vedranno mai la terra dei loro genitori, pertanto questa è la loro definitiva patria.
Nella sala giochi dell’Oratorio della mia parrocchia si è presentato, qualche settimana orsono, un ragazzino che, poi, mi ha detto di avere dieci anni, riccioluto e con qualche lineamento caratteristico del viso, al quale ho chiesto il nome per poterlo individuare per la riconsegna di una pallina da bigliardino che mi aveva appena chiesto. Mi risponde, Elias; lo guardo sorpreso dalla “s” finale. “Io sono nato in Italia, sono italiano,… mio padre è brasiliano”, aggiunge con decisione. Dal tono secco, quasi risentito della voce, ho capito tante cose che mi fanno concludere: ce ne fossero di italiani così fieri di esserlo; allora, perché non accoglierlo e negargli quei diritti che saranno anche i suoi doveri?