Il nostro paese è circondato da boschi. E i boschi, con le piane di granaglie dei ‘Calisciari’, gli oliveti di ‘Vada’ e gli orti della ‘Fontana’, significavano vita (da non dimenticare che Ortonovo aveva 1400 abitanti e tutti vivevano della terra).
Oggi a percorrere questi boschi, in cerca di porcini e di cacciagione, si vedono ovunque piante morte e malate; e ovunque tronchi caduti che impediscono il passaggio anche nell’antico sentiero. Ci saranno migliaia di tonnellate di legna secca, pronta da ardere, ma nessuno la raccoglie. Una volta con tronchi e fascine “in collo” si percorrevano chilometri. I “posadori” dove ci si riposava, avevano ognuno il loro nome. Oggi a nessuno passerebbe per la testa di andare alla ‘Zura’ a fare un fascio di “ramotoli”. Un tempo si, (a parte il fatto che oggi il corbezzolo è diventato una pianta protetta, così come il ginepro e l’agrifoglio).
I boschi cedui, a differenza delle “macchiacce”, erano curati come i castagneti e gli oliveti. Si chiamano cedui perché un tempo erano sottoposti a tagli periodici. Il bosco deve respirare, dicevano gli antichi, perciò va sfoltito. Dove c’è un ciuffo di dieci “butti”, se ne devono tagliare più della metà; ma salvare sempre il “patriarca” perché i grandi alberi se non s’ammalano devono essere “eterni”. Ucciderli è un “reato”.
Il bosco era una fabbrica e i boscaioli, gli operai specializzati di questa fabbrica, generalmente erano uomini robusti che lavoravano tutti i giorni al taglio e al trasporto dei tronchi, anche con delle teleferiche rudimentali. Servivano l’edilizia, i cantieri navali, le falegnamerie e la Miniera di Luni, che abbisognava soprattutto di pini. In tempo di guerra i pini erano diventati rari da tanti che ne sono stati tagliati. Ricordo il mitico “Cambrata”, un gigante buono: da tanti alberi che ha portato sulle spalle, aveva un cuscino di calli sul collo e due braccia così possenti che mai più ho rivisto. Emigrò in Francia. Lo ricordo con affetto perché è morto da pochi anni e al suo funerale, in Francia, non ho partecipato. Anche suo padre faceva il boscaiolo ed era un gigante come lui. Un giorno, erano i primi anni trenta, per scommessa si fece mettere sulle spalle un trave enorme ma, fatti pochi passi, scivolò e morì schiacciato.
Un discorso a parte meritano i “Carbonin”. Essi facevano una capanna vicino alla pira fumante e li vivevano per 20 - 30 giorni. La pira aveva bisogno di essere alimentata continuamente. Ma di ciò ne parleremo un’altra volta.
Oggi il bosco sta morendo; è diventato una macchiaccia; solo i pini crescono rigogliosi e, piano piano, stanno prendendo il sopravvento su ogni altro albero. Avanzano inesorabili e distruggono tutto, anche il sottobosco, perché sotto i pini non nasce niente (nemmeno i porcini). I nostri antenati non l’avrebbero permesso. Avevano bisogno che il bosco producesse legna buona, anche da ardere, e il pino non è adatto al camino. Inoltre avevano bisogno anche di erba e foglie da mettere come strame sotto il bestiame, mentre gli aghi di pino (che a differenza delle foglie stentano a marcire) creano uno strato impermeabile sotto il quale non nasce nulla.
I tronchi da lavoro venivano tagliati rigorosamente i primi otto giorni dopo la luna nuova, generalmente d'inverno.
Anche a me è capitato più volte di dover salire sulle piante di castagno per tagliare i rami “canuti” da portare a casa per il camino. Mia nonna mi faceva un “manedo” e me lo metteva in groppa come faceva con l’asino. Non si tagliava niente che non fosse indolore per il bosco, anche a costo di rischiare di rompersi l’osso del collo.
Subito dopo la guerra, per avere un po’ di soldi da spendere alla fiera della Madonna, anche noi ragazzi facevamo i boscaioli: ci organizzavamo ed accumulavamo buona legna da vendere a Boschetto.
A proposito del castagno, vi cito un antico detto ortonovese: “ ‘l castagn d’ la focia i sp’tegia e i ting ‘l camin”, mentre quello dello ‘Scud’din’ (rivolto al mare) invece no.