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di Angela Diamanti
Via Landinelli si allunga pigramente nel sole tiepido di questo primo martedì di settembre. Protagonisti e comparse dell’ebbrezza estiva hanno lasciato Sarzana, semivuote le strade del centro, chiusi per ferie i caffè. Dove sono diretta però tutto funziona con lo stesso ritmo settimana dopo settimana, stagione dopo stagione, sottovoce per non disturbare. Svolto in Via dei Giardini dove non ci sono giardini ma solo alte case che stringono una strada pedonale, apro il cancello che introduce nel cortile interno dell’antica sede Vescovile, sul citofono una targa Ristoro “gli amici”. La grande cucina è fresca, le mura secolari non tradiscono, ora accenderò il forno e i fuochi e fra poco sarà dura…Chiara è già qui, sta terminando il suo anno di Servizio Civile, pochi minuti e arriva Vanna. È una mia collega di lavoro e questa esperienza condivisa alla Caritas, ogni settimana un pomeriggio insieme in mensa, ha creato un legame, una forza che dà ancora più significato alle nostre mattine a scuola. Decidiamo il menù: risotto, frittata, insalata mista, macedonia; poi nel mezzo di tre casse di verdura da pulire li vedo comparire nel cortile. Mi cercano. Diciottenni, miei alunni, fidanzatini storici della classe, lei quando può aiuta in mensa, lui sempre in prima fila nelle raccolte alimentari che si organizzano al liceo. Vado da loro, un bacio che accolgo con imbarazzo, poi arrivano le parole, pesanti da dire e da ascoltare. La mamma del ragazzo è gravemente ammalata da poche settimane con una diagnosi che fa paura. E adesso? Dove trovo le parole? Ancora una volta…non so essere voce, non so essere mani, sono stupidamente inutile. Eppure parlo, parliamo, tessiamo insieme il filo della speranza e la promessa di condividere il dolore. Devo riprendere il posto in cucina, tendo le braccia verso di loro, lui è alto, io incerta, il mio mento sbatte sulla sua spalla magra e così è lui che mi abbraccia, un soffio di voce “ Grazie Profe “. Il cancello si chiude, la cucina ora è calda, con Vanna divido la sofferenza e il cibo che resta da preparare Venti posti a sedere tutti occupati, tra mezz’ora ne arriveranno altrettanti:uomini, poche donne, gente di ogni età, di molte provenienze. Passo tra i tavoli con il riso fumante, porto ancora pane e poi la focaccia croccante, ha un buon odore. “ Mi piace tanto la focaccina ma non ho denti”. La voce brusca si rompe nel terminare le frasi, è un uomo con un corpo forte ma un viso scavato dalle rughe, occhi sfuggenti, mani deformate. Vanna arriva con la seconda portata, torno in cucina, ritorna il pensiero ad un’ora fa, ma il presente ora è quell’uomo sdentato. Sposto il sacco del pane, la carta si slabbra e scorgo dell’altro, affondo le mani e afferro della focaccina soffice e tiepida. Sorrido pensando a Don Giovanni e ai suoi racconti sulla Provvidenza. Subito di corsa in sala e l’uomo è ancora lì. Prende la focaccia che gli tendo, ora mi guarda e gli occhi sono neri e luminosi “ Grazie sorella”.
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