10 PAOLO - SECONDA LETTERA A TIMOTEO
Paolo è in carcere a Roma: si sente solo e abbandonato da tutti, ma non si preoccupa della sua sorte; ciò che gli sta a cuore è dare continuità certa alla sua azione evangelizzatrice, non disperdere quanto costruito in una vita di lavoro instancabile e mantenere vive le comunità sparse dall’Asia Minore a Roma. Si rende conto quanto sia duro individuare e crescere discepoli fidati, preparati a tutto pur di non disertare o rinnegare la fede. La fiducia in Timoteo è piena e a lui si apre nell’ultimo scritto che sa di potergli inviare. Difatti la lettera si sviluppa in un’appassionata alternanza di esortazioni a ravvivare il dono di Dio che ha ricevuto, di suggerimenti a badare alla propria condotta che deve essere sempre trasparente e al di sopra di ogni sospetto, di incitamenti ad adempiere il ministero cui è stato chiamato senza tentennamenti e vergogna, di ricordi dei tanti momenti duri, ma esaltanti, vissuti insieme. Pur nella certezza che “il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli ”, traspare una vena di malinconia che incrina un poco il suo carattere tenace e perseverante. Bisogna comprenderlo: non è un arrivederci, ma è il commiato definitivo dalle persone che ama e che gli preme portino avanti la missione affidata.
Dopo aver reso grazie a Dio, che lo ha voluto suo apostolo, saluta il diletto figlio spirituale rievocandogli come ha ricevuto la fede schietta e solida in ambito familiare dalla madre Eunìce e dalla nonna Lòide. “Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani .” Nelle parole di Paolo riaffiora un motivo autobiografico: l’imposizione delle sue mani che porta in dono a Timoteo lo Spirito di Dio. Attraverso questo gesto, che è sostanziale e per niente rituale o formale,Timoteo è abilitato a condividere le sofferenze dell’apostolo per il Vangelo e a custodire in deposito il bene prezioso che gli è stato affidato. “Non vergognarti di dare testimonianza al Signore nostro, né di me che sono in carcere per Lui, ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo……..Egli ( Gesù ) ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo, per il quale io sono stato costituito messaggero, apostolo e maestro. E’ questa la causa dei mali che soffro, ma non me ne vergogno: so, infatti, in chi ho posto la mia fede…. Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato.” L’esortazione finale gli offre l’opportunità di riferire gli ultimi eventi personali. Tutti quelli che dall’Asia minore lo avevano seguito fino a Roma, per paura, dopo il suo arresto, lo hanno lasciato. Cita Figèlo ed Ermògene sui quali, forse, aveva fatto maggiore affidamento. Ringrazia,assieme alla famiglia, Onesìforo, che, saputo della sua carcerazione, non si è vergognato né intimorito di palesare l’amicizia con un prigioniero a causa della fede e lo ha cercato con premura finchè non lo ha trovato e visitato. Torna ad implorare di non abbandonare il dono della fede davanti alle difficoltà e alle sofferenze: “E tu, figlio mio, attingi forza dalla grazia che è in Cristo Gesù: le cose che hai udito da me davanti a molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali a loro volta siano in grado di insegnare agli altri. Come un buon soldato di Gesù Cristo soffri insieme con me….Anche l’atleta non riceve il premio se non ha lottato secondo le regole….Cerca di capire quello che dico e il Signore ti aiuterà a comprendere ogni cosa.” Impedito a seguire personalmente i suoi figli spirituali nell’esercizio dei compiti loro affidati, perché in carcere e ormai anziano per correre in lungo e in largo l’Asia mediterranea, la Grecia, l’Illiria e l’Italia, con le sue epistole trasmette gl’insegnamenti dottrinali, teologici, comportamentali e organizzativi. Delega il potere di imporre le mani ( consacrare ) a nuovi messaggeri di Cristo, purchè siano interamente votati alla causa senza titubanze. “ Ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio Vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore. Ma la parola di Dio non è incatenata!.....Questa parola è degna di fede: se moriremo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso.” In queste poche righe è riassunto tutto l’insegnamento di Gesù e le verità su cui poggia la nostra fede: il mistero pasquale – morte e resurrezione -, la promessa a chi morirà con lui, per lui vivrà e la sentenza inappellabile per chi rinnega e abbandona lui. Il problema dell’apostasia e dell’abbandono della fede per timore delle sofferenze fino alla morte ( martirio ) cominciava a farsi sentire pesantemente. Per secoli la piaga dell’abiura e dell’apostasia tormentò la Chiesa a causa delle violente persecuzioni che toglievano tranquillità e serenità; infatti bastava la delazione o la spia per essere trascinati in carcere e poi, quasi sempre, al martirio. Per sopportare il tutto era necessario possedere una fede profonda e aver compreso fino in fondo il messaggio di Gesù. Paolo sollecita a fare attenzione ai problemi di sempre: guardarsi dagli eretici e falsi profeti, badare alla propria condotta che deve essere di esempio, prestare la massima vigilanza per i pericoli provocati da uomini spregevoli e senza scrupoli, che con ogni mezzo cercano di creare disordini e divisioni nelle comunità. Alle vuote discussioni dei falsi maestri è necessario opporre il lavoro di chi dispensa parole di verità, alle contese verbali la parola che educa e concilia, alle deviazioni la ricerca di un atteggiamento irreprensibile che sa invocare il Signore con cuore puro.
Ormai la lettera volge al termine. Paolo sa che ben difficilmente il suo apostolato e la sua guida potranno durare a lungo, quindi è giunto il momento di assegnare i compiti per il dopo di lui e lo fa aprendo il cuore all’elogio del discepolo prediletto : “Tu mi hai seguito da vicino nell’insegnamento, nella magnanimità, nella carità, nella pazienza”,quindi “Rimani saldo in quello che hai imparato e credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù.” Ancora una volta gli ricorda il suo ministero: “Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e per il suo regno:annuncia la parola,insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento…..Vigila attentamente, sopporta le sofferenze, compi la tua opera di annunciatore del Vangelo, adempi il tuo ministero.” In 5 verbi Paolo sa racchiudere il ministero sacerdotale: annunciare, insistere, ammonire, rimproverare, esortare. Paolo sente veramente di essere giunto al capolinea della vita nella consapevolezza di aver combattuto la buona battaglia e di attendere “la corona di giustizia” che il Signore gli consegnerà. Ha la certezza di aver dato tutto: la sua esistenza si è dipanata come un’offerta-sacrificio permanente, per cui con attesa serena aspetta “il momento che io lasci questa vita.” Dal dialogare con il suo interlocutore affiora il rammarico di essere rimasto solo con l’evangelista Luca, abbandonato da alcuni, mentre altri (“Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia“) sono lontani impegnati nell’azione missionaria. Nelle ultime righe si appalesa un momento di abbandono e scoramento: “Cerca di venire presto da me, prima dell’inverno, perché Derma mi ha abbandonato….Venendo portami il mantello che ho lasciato a Troade.” Non solo Derma ha preferito le cose di questo mondo, ma anche altri, come Alessandro, il fabbro, hanno tradito con cattiveria. “Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito: tutti mi hanno abbandonato.” Ma con fede incrollabile sa che presto “il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno.” Nei saluti finali non dimentica gli amici veri, i collaboratori sinceri come Aquila, Priscilla e Onesìforo.
Paolo in questa lettera si definisce: apostolo, messaggero e maestro. Quale apostolo, voluto da Dio, è la fonte e il garante della tradizione. Quale messaggero è il banditore del Vangelo di Dio che, attraverso Gesù Cristo, dona la salvezza e la vita eterna a tutti coloro che lo accolgono con amore e cuore puro. Quale maestro insegna la verità di Dio, rivelata per mezzo di Cristo Gesù. Alla fine questo triplice aspetto converge nella figura del martire che giunge al termine della corsa e consegue la corona della vittoria.
Ora spetta a Timoteo proseguire nel suo ruolo costudendo la tradizione, annunciando il Vangelo, insegnando la verità con determinazione e testimoniando il dono della salvezza promessa con l’esempio di fedeltà al Risorto.