N° 1 - Gennaio 2010
Imprevisti ad Hai. - Memorie missionarie-
di Padre Carlo Cencio, Missionario carmelitano

 

 

Una domenica ero con suor Ida al villaggio di Hai, ai piedi di un grande roccione nero. Il giorno prima mi ero divertito a scalarlo. Avevo sperato che un gruppo di ragazzi venisse con me, sarebbe stato un modo per fare amicizia, invece l’unica che ebbe il coraggio e la forza di salire fu la suora. In vetta a quella roccia regnava il silenzio. Era patria di volatili e di scimmie, e rifugio di gazzelle inseguite. Lassù ci pareva di essere in aereo, con il piccolo villaggio sparpagliato sotto i nostri piedi.

         Quella domenica mattina avevo fatto tutto quello che dovevo: pulizie, canti, prove, confessioni, colazione ecc. Avevo anche preparato l’altare.

         Venne l’ora della Messa e la gente si era radunata; erano in tanti. Cominciai la Messa con un dubbio e una certa apprensione: sarei stato tranquillo fino in fondo? Avevo un malore e sintomi allarmanti: in Africa bastano un po’ di fresco nella notte, un inizio di paludiamo o un boccone poco sano per sentirsi costretti a fare corse drammatiche per tutta una mattinata! E se mi foose toccato durante la Messa…in camice e casula? No, non doveva accadere! Eppure qualcosa mi diceva che la situazione non era del tutto sotto controllo. Mi premunii come potei… e, con fiducia e timore, andai all’altare.

         Il lungo canto d’ingresso mi preoccupò un po’ anche perché dopo ci sarebbero stati anche Kyrie e Gloria…Riuscii a resistere abbastanza bene fino all’omelia, che ridussi all’essenziale. Il momento dell’offertorio e del canto professionale fu molto lungo, come si usa in Centrafrica, e qui mi resi conto che non si trattava solo di una vaga avvisaglia: il mio fisico era in rivoluzione. Ogni mio movimento si faceva drammatico, specie quando ero sceso a distribuire la comunione. Tanta era la fatica che ero tutto sudato.

         Risalii all’altare e rapidamente conclusi la Messa. Mentre l’assemblea faceva il canto finale, mi svestii e uscii dalla chiesa di paglia verso il bosco. Corsi a nascondermi dietro un cespuglio…e fu una tragedia.

         Qualche tempo dopo, sempre in questo villaggio, ci fu un altro imprevisto. Era il giorno delle Cresime. Quel mattino avevo fatto l’appello diverse volte. Si erano radunati lì quattro villaggi per ricevere la Cresima. Delegato del vescovo era padre Agostino Delfino (ora vescovo di Berbérati). Una sessantina di persone doveva ricevere la Cresima, erano tutti adulti: c’erano vecchi, donne incinte uomini e parecchi giovani. Erano ben vestiti. Prevaleva il rosso, colore del fuoco e dello Spirito.

         Dopo il terzo appello, ne mancavano ancora due. Il padre era arrivato e tutti, processionalmente, entrammo in chiesa. Feci allora una seria raccomandazione: per celebrare convenientemente il sacramento, ordinai che la porta fosse tenuta chiusa e che nessuno entrasse o uscisse durante la liturgia. Li conoscevo… e sapevo che andavano e venivano con estrema facilità, perdendo parti importanti della cerimonia. Nessuno doveva disturbare la celebrazione; anche i ritardatari non dovevano essere lasciati entrare. I consiglieri avevano il compito di controllare la porta. La Messa cominciò e il delegato del vescovo tenne la sua omelia sul sacramento della confermazione. Al termine la corale fece un canto allo Spirito Santo. Nel frattempo, sentii qualcuno che batteva alla porta d’entrata. Mi girai di scatto e ricordai ai consiglieri di non aprire ai ritardatari: avevano già perso una parte troppo importante della cerimonia.

         Il vescovo cominciò l’invocazione allo Spirito Santo. Ma là in fondo la porta continuava a essere battuta: qualcuno voleva entrare a tutti i costi. Siccome questo recava disturbo all’assemblea, alzai la voce. Vedendomi così rigido i catechisti mi si fecero intorno per dirmi: ”Padre, là fuori non c’è una ritardataria. C’è una donna che all’inizio della Messa era qui nella seconda fila, ma è stata colta dalle doglie… è uscita e ha dato alla luce il suo bambino, ora vuole entrare per ricevere la Cresima: la lasci entrare”. Esterrefatto, chiesi scusa e feci cenno di aprire la porta. La puerpera, ancora pallida e barcollante, entrò col suo bambino in braccio; tutti l’accolsero con sorrisi di compiacimento.  Avvicinandosi al ministro per ricevere la Cresima gli disse: “Grazie, padre: è un dono suo: si chiamerà Agostino”. E fu festa per tutti.

 

 

 


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