N° 5 - Maggio 2009
Storie dei lettori
  La prospettiva
di Marina Corradi (da l'Avvenire del 5/4/2009 )


Come cambia la prospettiva

quando si è a un passo dalla morte

 

Ai margini del dibattito sul fine vita, e su quanto questo concetto debba essere “laico”, e su che cosa ne determini la laicità – dove pare che il carattere non vincolante delle dichiarazioni di fine vita venga visto come una lesione della piena autodeterminazione del soggetto, una menomazione della sua individuale libertà – ci continua a tornare in mente quel che dicono, dalle corsie, i medici che concretamente stanno di fronte e accanto ai malati, negli ultimi giorni.

Sono dati forniti un anno e mezzo fa dall’Istituto dei Tumori di Milano, dove in 25 anni – su 40.000 pazienti – uno solo aveva avanzato e mantenuto la richiesta di morire.

Sono le parole di tanti medici sconosciuti, che nel dibattito di oggi non hanno voce, e che dicono come l’immensa maggioranza degli uomini quando ha davanti, imminente e certa, la morte, si attacchi istintivamente alla vita, anche a quella sofferente e limitata, che a noi sani pare una cosa da poco.

Fra tutti, viene in mente ciò che dice Eugenio Borgna, anziano maestro della psichiatria italiana, che dopo una vita intera passata con le malate dell’ospedale psichiatrico di Novara, curandole e anche accompagnandole a morire, afferma che l’eutanasia “è domanda dei sani”. 

Che il malato grave tende ad avvinghiarsi a quanto, anche poco, di vita gli rimane.

Che un conto è guardare alla questione quando si è in piena salute, e dunque in fondo ci si percepisce immortali, e altro, tutt’altro è lo sguardo di un malato condannato.

E dunque, quello stendere un testamento e pretendere poi che sia rispettato integralmente quando fossimo in stato di incoscienza, contiene in sé una profonda irrazionalità.

Perché gli uomini non sono entità pietrificate, che pensano per sempre allo stesso modo.

Basta invece poco, per farli cambiare.

Un responso, una diagnosi di tre righe in calce ad un esame.

E quella vita malata, tarpata, magari non più autonoma, magari bisognosa di una sonda per nutrirsi, magari addirittura assente, cambia, agli occhi di quello stesso uomo, valore.

Pareva un nulla, un avanzo pietoso da rifiutare con libertà ed orgoglio: “In quel caso staccate”.

E invece l’uomo, così com’è davvero, “nudo” in un letto d’ospedale o di una clinica di lusso, quasi sempre, eternamente si direbbe, si ribella; e a quel poco di respiro e luce che gli resta, si attacca.
Vuole vivere, e a volte come mai prima di allora.

(E’ l’esperienza di quella dottoressa dell’Istituto dei Tumori di Milano, allieva di Veronesi, che quando si seppe malata scoprì, ha detto, come ogni giorno ha un valore infinito).

Allora, tornando allo scontro che imperversa su quel pezzo di carta, e su quanto e come la volontà del paziente debba essere un vincolo, vorremmo dire quasi sommessamente che la realtà, negli ospedali, è – ci dicono – altra da quella cristallizzata, geometrica e orgogliosa che crede di dichiararsi in un testamento biologico dei sani.

Altra dalla pretesa che il tuo “no” di giovane con tutta la vita davanti valga come clausola fiscale in quel futuro, a noi stessi così ignoto, che ci attende un giorno.

Non è “cattolico” il volere arginare questa ansia di assoluta autodeterminazione; è semplicemente conseguente a cos’è, a com’è, concretamente, quando si ammala un uomo.

(E se poi la domanda di “staccare” persiste anche di fronte alla morte, spesso, nell’esperienza, ciò che la spinge è la sofferenza fisica – che può e deve essere affrontata e lenita – oppure alla solitudine.

Ma in questo caso la domanda vera del malato è: non lasciatemi solo.

E che tragedia allora fare finta di non capire, e abbandonare alla morte).

                                                                                                      

                                                                                           

  La patente di guida
di Padre Carlo Cencio


HO PERSINO RILASCIATO PATENTI DI GUIDA

 

Se non fosse vero sarebbe una smargiassata, una di quelle fanfaronate da cacciatori o da missionari. Siccome però i miei confratelli lo hanno fatto molto più di me, vorrei parlare anche delle loro esperienze.

A Bozoum non c’era una scuola guida, quindi per imparare a guidare bisognava affidarsi a chi aveva un’auto e la metteva a disposizione.

In genere eravamo noi missionari ad aver bisogno di autisti di colore come collaboratori, meccanici, operai…

Però questi giovani dovevano anche dare un regolare esame di guida, sia teorico che pratico, per ricevere una valida patente di categoria B o C che li autorizzasse a guidare automobili o camion in tutto il Centrafrica o all’estero.

Anche i mercanti arabi o coloro che intendevano lavorare nei trasporti dovevano sottoporsi all’esame.

Ogni tanto ci veniva notificato dalla prefettura che per il giorno dopo dovevamo tenerci disponibili per esaminare alcuni candidati.

Naturalmente era un servizio gratuito.

Quel giorno, quando arrivò la notifica, ci rendemmo conto che il giorno dopo sarei stato disponibile solo io, così la mattina dopo, puntuale alle otto, mi recai in prefettura a bordo della nostra auto.
Trovai ad attendermi i due candidati e un poliziotto.

Aspettammo che arrivasse l’ufficiale, perché sarebbe stato lui il testimone qualificato a convalidare l’esame con la firma e a rilasciare il foglio di via in attesa della patente.

Parlai con il poliziotto e mi feci spiegare come dovevo agire.

Mi disse: “L’esaminatore è lei, faccia quello che vuole…qui ci sono i libri…qui c’è un foglio sul quale scrivere il suo giudizio.

Prima li sottoporrà all’esame teorico e poi a quello pratico”.

Capii anche che una delle ragioni per cui ci veniva richiesto quel servizio era dovuta al fatto che in quel modo non sarebbe mancata un’auto per l’esame pratico.

Dove ne avrebbero presa un’altra?

C’era quella del prefetto, quella del capo della polizia, o quella del…

Ma non erano mai disponibili.

Quando arrivò l’ufficiale, cominciammo subito gli esami.

Mi sedetti a un tavolino di fianco all’ufficiale e chiamai il primo candidato.

Lo feci sedere, chiedendogli la carta d’identità, che porsi all’ufficiale perché compilasse il foglio. Presi il testo e cominciai a presentare al candidato i vari simboli: la segnaletica orizzontale e verticale, i semafori, le precedenze…

Mi tenevo forte per non ridere.

Infatti tutte queste cose esistevano sui libri, ma, sulle strade, erano quasi inesistenti.

Poi passai ai problemi più concreti: come comportarsi durante le piogge o nel poto-poto (fango viscido e scivoloso), oppure alle barriere doganali.

Gli chiesi come avrebbe dovuto agire in caso d’incidente, qualora ci fossero stati solo danni agli automezzi oppure anche alle persone; non feci nessuna domanda sul motore perché temevo ne sapesse più di me.

Alle mie domande il candidato rispondeva come poteva e qualche volta ammutoliva.

Per riparare, passai a questioni molto pratiche di responsabilità verso i datori di lavoro e i padroni delle auto che avrebbe guidato.

Sapevo infatti che entrambi i candidati avrebbero guidato mezzi della missione di Bocaranga o di Ngaoundaye.

Mi rispose abbastanza bene.

A quel punto passammo all’esame pratico.

Per fortuna in auto eravamo solo noi due.

Sapevo che i missionari lo avrebbero ancora seguito e aiutato, altrimenti avrei proprio dovuto rimandarlo.

Era impacciato, si vedeva che aveva guidato poco ed era molto emozionato.

L’ho promosso affidandolo all’angelo custode e alla responsabilità dei padri di Bocaranga.

Più o meno la stessa cosa successe con l’altro candidato, che era meno preparato in teoria, ma molto più esperto nella pratica.

Si vedeva che aveva già guidato.

Promossi anche quest’ultimo.

Erano contenti e non finivano di ringraziarmi.

L’ufficiale compilò i fogli e il giudizio, rilasciando loro un certificato.

La patente vera e propria sarebbe arrivata in seguito.

Siccome ormai è da molti anni che guidano, spero che non abbiano fatto gravi danni né a se stessi né agli altri, perché mi sentirei un po’ responsabile.

Anche questa è una delle cose strane che ho dovuto fare in terra di missione.

Non si direbbe, ma anche la novità e l’imprevisto sono una componente gratificante della vita missionaria!

La missione, forse, piace a molti anche per questo: qui svolgiamo compiti e mansioni che mai avremmo svolto nel nostro mondo occidentale.

A Roma si finisce sempre con l’essere secondi o terzi, mentre in un villaggio si è immancabilmente primi.

Forse anche questa sensazione di “potere” e di facile prestigio entra come componente inconscia del cosiddetto “mal d’Africa”.

Qui ci si sente maestri su tutta la linea, interpellati e…seguiti: tecnici, architetti, ingegneri, medici,professori, sacerdoti, redentori, antistregoni ecc.

Fortunatamente la maggior parte di noi prende le cose per il verso giusto, altrimenti rischieremmo di cadere facilmente nella presunzione.

 

                                                                                                          

  Il Parmignola
di Franco Marchi


 

 

 

Questo piccolo torrente (è lungo infatti poco più di 10 chilometri) è stato oggetto di tante ricerche scolastiche.

Colle sue acque venivano mosse le ruote dei mulini e dei frantoi del territorio.

Colle sue acque le donne lavavano i panni ai vari lavatoi o direttamente nel torrente.

L’acqua del torrente era ripartita in una serie fittissima di “betali” che correva in mezzo ai campi. Nelle sua acque si macerava il lino e la canapa.

Il sovrintendente delle acque del Parmignola aveva il suo daffare un tempo.

Il suo letto era molto più in alto e da diversi decenni è stato abbassato e le violenti piogge di questo lungo inverno ormai ne hanno approfondito il suo corso.

Da anni gli alunni della Scuola Media hanno suggerito agli Amministratori comunali di adoperare i suoi argini, già in parte pronti, per strade e piste ciclabili.

La serie ultraventennale dei suggerimenti e il fatto che non siano poi grandi opere, ci fa constatare che ci sia al fondo della non presa in considerazione qualche cosa di ben preciso.

Cosa volete che interessi ai politici del benessere giovanile?

Le cose da fare devono essere mosse da progetti, architetti, imprese…

Così succede in Italia e anche Ortonovo non è difforme.

Si fanno studi, indagini ed altro ancora; ciò che è al centro di un territorio non si sposta.

Gli anni passano ed i figli crescono; pazienza se ne parlerà per i loro nipoti.

 

 

                                                                                                                 

  Un amore per una vita (1)
di Carlo e Maria Giovanna


 

 

Tutto era incominciato in un giorno in cui un miope sorriso di fanciulla aveva illuminato un’oscura aula universitaria di archeologia.

E quel sorriso era rivolto a me, che stavo dall’altra parte del grande tavolo, di fronte, reduce da dolorosi cammini di amare esperienze.

Un uomo ancora alle soglie della giovinezza; e già senza speranze, senza illusioni, senza gioie del presente, senza nostalgie del passato, senza affettuose prospettive per il futuro.    

La vita, una pesante inutilità, che gli altri avevano voglia di vivere.

Frequentavo l’università, il cuore spento ad ogni curiosità intellettuale, ad ogni aspirazione professionale; impaziente solo di distrazioni e di evasioni; preoccupato di non essere mai a tu per tu con me stesso; desideroso solo, se mai me riusciva, di perdere quella parte di me che mi era gravoso portarmi appresso.

Alla dolcezza di quel sorriso ero rimasto sconcertato.

Un sorriso di donna, A me?

E com’era possibile, così morto come mi sentivo, accendere ancora al riso la grazia di un volto femminile?

Inoltre, avevo concepito paura.

Ché altre ragazze già mi avevano sorriso.

E quei sorrisi mi avevano incantato; e all’incanto della loro magia il mio cuore aveva palpitato; e avevo sognato paradisi; ma poi presto quei sorrisi si erano spenti; o si erano risolti nell’indifferenza della derisione; o, addirittura, nella crudeltà della irrisione.

Per cui, sebbene a quella luce avessi provato un intimo compiacimento, nelle parole avevo dovuto realizzare uno spontaneo meccanismo di difesa.

Avevo Detto: “Anche tu della aristocrazia dei trenta e lode!?”

Lei allora mi aveva guardato, con aria interrogativa.

Ma non aveva smesso di sorridermi.

E avevo aggiunto: “Vedo che sei preoccupata, perché non ti ricordi di minime cose.

Tutte uguali, voi donne!

Seducenti nelle vostre frivole vanità, suggerite atmosfere di lusinghevole e spensierata poesia.

Ma è tutta apparenza! In realtà siete prosaiche, arriviste, egoiste e crudeli”.

Nonostante la gratuita brutalità delle parole, lei non si era offesa; né aveva smesso di guardarmi e di sorridermi.

E’ vero: le cose accadono e sono avvolte nel mistero.

Certo lei aveva guardato dentro il mio cuore; e subito, al di là delle parole così ostentatamente violente, per magica intuizione aveva visto un cuore che avrebbe amato oltre ogni modo; e che già amava dentro quel suo cuore così femminilmente sensibile e divinatore.

                                                                                                             

                                                                                                                       Carlo

 

TITOLI E AMORE

 

Amore mio,

mi cantasti un canto

che ha per titolo:

“Un amore per una vita”.

Ma, se io ne componessi

uno per te,

dovrei rovesciare le parole,

e cantare così:

“una vita per un amore”.

                                                  Maria Giovanna

  Una porta aperta
di Marta


 

 

Una porta aperta è quasi sempre un invito ad entrare.

Che bello è trovare una ‘porta aperta’ quando nel nostro peregrinare, stanchi e affamati troviamo ristoro, accoglienza e calore.

Una ‘porta aperta’ come nella parabola del figliol prodigo: il padre accoglie il figlio con amore e gioia perché è tornato all’ovile.

Una ‘porta aperta’ anche quando cerchiamo lavoro e non troviamo un muro ma disponibilità nei datori di lavoro, nel discutere e venirci incontro.

Una ‘porta aperta’ anche quando afflitti dai nostri problemi o dalle malattie troviamo chi ci offre la propria spalla sulla quale piangere, e ci consola, ci incoraggia a proseguire con perseveranza, con fede…

 Una ‘porta aperta’ anche nel nostro svago per ritemprarci dai soliti affanni e trovare delle istituzioni sane, sportive, ludiche per rigenerarci lo spirito.

Una ‘porta aperta’ per tutti quelli che in questo periodo hanno subito il terremoto e possano trovare la porta aperta della loro casa.

 Una ‘porta aperta’ per tutti coloro che chiedono aiuto, gli emarginati, i barboni, i drogati, gli alcolisti, i giocatori d’azzardo: possano tutti trovare il sentiero giusto per una vita dignitosa.

A volte entrare in una porta aperta dove non conosciamo cosa c’è all’interno ci sgomenta perché noi tutti abbiamo paura dell’ignoto, ponendoci poi tante domande.

E se all’interno ci fosse qualcuno che ci prende a randellate in testa?

Non si potrebbe certo dire come San Francesco: “…in ciò sta vera letizia…”.

Ed ecco che il nostro istinto di conservazione ci propone di essere cauti e guardinghi nell’eventualità di cambiare la nostra strada in una peggiore.

Quante volte nella vita ci è capitato di trovare una porta chiusa?

Ma è anche vero il detto: “Si trova una porta chiusa, si spalanca un portone”.

Comunque vadano le cose in tutti noi resta la speranza e il desiderio - se ne siamo degni – di trovare una grandissima, immensa, perenne ‘porta aperta’: quella del Paradiso.

 

                                                                                                                                          

  L'incanto di un acero rosso
di M.G. Perroni Lorenzini


 

 

Frustate di neri lapilli

erodono il bianco di latte,

l’opale di un sogno lucente…

Ma il dito ritorna a inseguire

figure su un serico arazzo:

rivuole, insistente l’accesso,

la guida dell’agile slitta

dai tinnuli squilli d’argento…

Se illusa è la pausa del sogno,

se breve è il rifugio concesso,

eppure era bello sognare

l’incanto di un acero rosso.

 

                                           

  Riflessioni giornaliere
di Un assiduo lettore


 

 

7 APRILE 2009

 

Oggi ho rivissuto un momento di Paradiso.

Sono venute la Giuliana, la Marta, la Federica, la Francesca e l’Adriana.

Poi si sono aggiunte anche la Lupi e la Marta.

Un incontro come ai vecchi tempi.

Abbiamo letto la ‘Parola di vita’: “Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà”.

Mai ‘Parola di vita’ fu appropriata come oggi!

Infatti la notte scorsa un terribile terremoto ha distrutto gran parte dell’Abruzzo causando tanti morti e feriti nel cuore della notte.

Chi di loro al momento di coricarsi si immaginava di dover morire durante la notte?

“Vegliate, perché non sapete…”.

Poi ognuna di loro ha raccontato esperienze di vita vissuta, alla luce del Vangelo.

Anime meravigliose che mi hanno fatto rivivere momenti di gioia che avevo quasi dimenticato.

Mi è sembrato che il tempo non sia mai trascorso.

Ecco: l’attimo presente, il ricominciare, l’affidarsi a Lui in tutto e per tutto, e soprattutto l’Amore scambievole, la base per creare l’UNITA’, presupposto per Gesù in mezzo a noi.

Ed è la gioia, la felicità, la PACE!

E’ la benzina del cielo per andare avanti, sino a quel giorno a noi sconosciuto quando Lui verrà!

E speriamo che ci trovi con la luce accesa!

 

12 APRILE 2009

 

Oggi è Pasqua! Eccomi qui, col mio deambulatore!

 E…se andassi incontro a Gesù? risorto?

Mille motivi per non andarci.

Poi…uno solo per convincermi: l’UNITA’.

L’unità tra le mie anime sorelle dell’incontro di alcuni giorni fa.

Vai, non aver paura!

E sono andato.

Ed è stata la gioia con l’incontro di Gesù risorto.

Mentre mi avvicinavo all’altare con le mie stampelle, traballante sulle gambe, ho visto la Marta.

Ci siamo guardati.

Le ho strizzato l’occhio.

Lei mi ha risposto!

Così era tra noi, nell’Eucaristia, lo Spirito Santo!

 

                                                                                            

  Le apuanate
di Romano Parodi


LE APUANATE: Come si evitò il quarto duello

Dal “Ceccardo” di Lorenzo Viani

 

Il barbaro dagli occhi celesti all’osteria dl Giglio.

 

Eravamo il manipoletto apuano quasi al completo.

 Era notte profonda: forse le due del mattino.

Ci sedemmo a un tavolone patriarcale nell’antisala.

Bevemmo e parlammo di poesia, a noi si unì una ragazza nottambula, Francesca, la quale assai volentieri bevve alla salute del poeta un quartuccio di vino.

Il Gamba, proprietario, si accostò al tavolo perché gli piaceva sentir parlare di poesia.

“Creda, sor Ceccardo, la ‘un andrei mai a letto per ascoltarla…”

Il Poeta era cavaliere con le donne e aveva un debole per gli osti omaccioni grossi, pieni di umore pacifico e di bonomia; sorrideva all’omone e alla ragazza e ogni tanto risucchiava una goccia di vino.

Qualcuno di noi sonnecchiava; tutto faceva prevedere che la comitiva si sarebbe ridotta a letto, verso l’alba, in santa pace.

Il campanello della porta suonò e due individui chiesero di bere un bicchiere di vino.

Uno era un nostro amico, Dante Zani e l’altro uno scultore tedesco.

Fu una nuvoletta che di lì a poco si tramutò in uragano: io presentai al poeta il primo, e poi facendomi animo (sapevo l’odio di Ceccardo verso i tedeschi), dissi il nome del secondo.

Ceccardo, appena intese le irte e taglienti consonanti, rizzò le orecchie come un cane da presa, si ravviò nelle mani la “cravache” e stese, come soleva fare in simili casi, un dito solo al tedesco, senza parlare, senza guardarlo.

Lo scultore tedesco, mortificato dalla fredda accoglienza, si permise toccarlo con un dito sulle ampie spalle e disse: “Tristan Kurz, alemanno”.

 Al che il poeta rispose: “Ceccardo Roccatagliata Ceccardi”.

Il tedesco aveva bevuto e, non pago della digrignata, ribatté: “Tristan Kurz, alemanno!”.

Il poeta si passò la “cravache” da una mano all’altra e ripeté: “Ceccardo Roccatagliata Ceccardi!”.

Noi ci si guardò in faccia come per dire: “Addio, anche stasera ci siamo!”.

Ma ormai non si poteva più frenare la burrasca.

Ceccardo fremeva e ci guardava eroico quando l’incauto tedesco, per l’ultima volta ripeté: “Tristan Kunz, alemanno”, Cecardo si drizzò su se steso, sbatacchiò la “cravache” sul tavolo e, con un urlo disperato che fece rintronare l’albergo, gridò: “E io, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, italiano: l’ultimo rappresentante del grande odio italico contro i barbari”.

Il tedesco stupefatto sobbalzò indietro, ci guardò e poi balbettò: “Io…io…io brindo a Sadowa!”.

A questo punto noi ci alzammo per evitare guai maggiori ma il poeta con un gesto imperioso ci tenne indietro gridando: “Fermi, il barbaro conosce la storia…

Se tu brindi a Sadowa, io brindo a Davout e bevo a Margueritte epico cuore, che a Sedan cavalcò vendicatore fra le mitraglie e bevo a Garibaldi che a Digione ha umiliato nel fango le piccolette aquile imperiali e bevo a chi violerà i vostri borghi, a chi stuprerà le vostre donne…”.

E mentre con l’usata foga investiva il malcapitato, si traeva di tasca il portafoglio e da questo cavava lentamente la sua carta da visita.

Allungò il braccio verso il tedesco e gliela porse dicendo: “E domattina vi uccido!”.

Il tedesco stupefatto, intontito, trasecolato, gli restituì la carta e sedette mogio mogio senza più fiatare.

Ceccardo chiamò a padrini due di noi per prendere gli accordi.

“Domani nella selva Feronia io ucciderò il barbaro che per tre volte osò qualificarsi tedesco al mio cospetto”.

L’alba non fu apportatrice di serenità nell’inquieto animo del Poeta; anzi, Ferdinando Lassalle si alternava con tutti i mani della sua terra apuana. “Il barbaro…il barbaro---“ E la “cravache” roteava nell’aria.

Noi si ascolta  taciturni.

Il poeta navigava nel mare delle leggende, delle ombre e della paura.

“Domani può darsi che io sia cenere e ombra…

Ricordate l’epigrafe.

Ve la ripeto per l’ultima volta: “Hic constit viator”.

Al mattino lo accompagni in treno a La Spezia, a prendere alcune sue cose.

Quando rientrammo a Viareggio, gli amici avevano imbastito una bugia per evitargli il duello, che sarebbe stato il quarto della sua vita.

“Ceccardo, non ti puoi battere con il barbaro, perché egli fu per qualche tempo internato in un manicomio”.

“Allora era un povero mentecatto”, urlò il poeta disperato.

Il più colpito fu Kurz. Pare che egli, nella sua via di Versilia, avesse imbottito un fantoccio delle sembianze del poeta e lo tempestasse di fendenti, finché il fantoccio si staccò e gli cadde addosso trascinandolo a terra, dove si fratturò una costola.

 

 

                                                           (a cura di Romano Parodi)

  Un poeta ed il suo tempo
di Romano Parodi


 

 

A 90anni dalla sua morte il Comune di Ortonovo ha celebrato Ceccardi Roccatagliata con due conferenze: Una del prof Carozzi autore del libro “Lettere a Gemma”, che ha ricordato le tappe del corteggiamento di Ceccardo ha Gemma Catalani di Carrara; e una del prof Paolo Zoboli che ha trovato alcune poesie inedite del poeta ortonovese sul quale ha dato la tesi di laurea.  

Una terza ci sarà quest’estate, in Ortonovo paese.

Il prof Zoboli ha ricordato alcuni stupendi aneddoti sul contrasto feroce  fra Ceccardi e Marinetti: fondatore del futurismo.

Nel cenacolo di Sturla, in una sera di luna piena, Ceccardo lo apostrofa minaccioso col suo inseparabile frustino, “l’eroica cravache”, al grido di “Assassino, tu vuoi uccidere il passato, tu vuoi uccidere il chiaro di luna” il poeta si china e provocatoriamente bacia la terra rischiarata dai raggi lunari.

Poi ha ricordato come Emilia Venturini (“Quando ci rivedremo”) sia stata la musa di tutta la sua vita.

 "Un poeta in attesa di giustizia - scriveva Carlo Bo -  Le sue migliori poesie reggono il confronto con le cose più belle del secolo, e dovranno figurare in quell'antologia essenziale che il tempo finirà per imporre con le sue grandi forbici".

"Egli riuscì ad insinuarsi fra il vecchio e il nuovo, fra i clamori imperanti del modello dannunziano, e a segnare una tappa decisiva nella svolta della nuova poesia - dice Adriano Andreani - Ceccardo aveva inconsciamente assimilato un grande amore per la natura e un nobile slancio verso la gente umile quando giovanissimo, tutte le mattine,  amava accodarsi ai cavatori ortonovesi che scendevano dal piccolo paese per portarsi alle cave".

Dopo un'infanzia fugacemente felice nella casa avita, travolto da eventi fatali, si trovò ad essere un uomo fuori dalle regole, uno spirito inquieto, un vagabondo.

"Così viandante nel cuor mi crebbi, ed un amor de l'aspra mia terra azzurra ingentilia quel primo desio vago di errori, con pensose illusion di ricordi..." 

Carlo Bo, in un Elzeviro sul Corriere della Sera dal titolo "Maledetto Ceccardo, Grande dimenticato", dice che Ceccardo " vagheggiava un mondo nuovo, fra repubblica e anarchia" e mette "Motivo d'amore", amata molto anche da Montale, fra le poesie più belle del secolo, e afferma che questa poesia rappresenta il simbolo del passaggio, dal vecchio al nuovo, dal solenne al misurato. -

Mattin, col sole ridi / e gridi con gli uccelli, / ma più che il sole e i nidi / ride e grida il mio cuore / ride e grida l'amore, / e il mio dolce desio / sfiorandole i capelli / sorpassa in mormorio / i nidi e gli arboscelli.

Molte furono le battaglie perse (affrontò anche tre duelli all'arma bianca); ma oggi vi voglio raccontare di una sua  vittoria.

Nel 1907 il Comune di La Spezia bandisce un concorso per un'epigrafe da collocarsi nella casa che ospitò Shelley.

Ceccardo, che ha una sconfinata ammirazione per lo sventurato poeta inglese, spinto dagli amici apuani, partecipa al concorso.

Quando la commissione lo proclama vincitore; il suo presidente, il potente senatore Paolo Mantegazza, in contrasto con la decisione, minaccia di rassegnare le dimissioni e innesta un'aspra polemica giornalistica di carattere nazionale.

Si scoprirà poi che la contrarietà del senatore era dipesa dal fatto che aveva partecipato anche lui al concorso e pretendeva la vittoria.

Dato la sua fama, molti critici propendano per la sua epigrafe, ma Ceccardo non demorde e lotta con l'irruenza tipica del suo carattere.

Alle offese che il senatore gli aveva indirizzato sul "Giornale d'Italia": tipo: "Piccoli uomini cercano un epigrafista  della loro statura,...", risponde sul "Lavoro" di Genova: "Io sono alto di statura come d'ingegno, perché cosi volle natura, ma anche perché, nei miei primi giovani anni, ben altri libri ho letto e prediletto che non gli opuscoli afrodisiaci, larvati di scientifica nebbia, di un volgarizzatore fortunato". (Il Mantegazza scriveva libri).

I piccoli uomini della commissione però, resistono alla potente lobby politica e mediatica del senatore e scelgono l'epigrafe ceccardiana che fa bella mostra di sé sopra l'arcata centrale della facciata di Villa Magni-Maccaroni a San Terenzo di Lerici.

Lì soggiornò Bercy Bysshe Shelley prima di “approdare, per improvvisa fortuna, ai silenzi delle isole elisee" - , ma è soprattutto la chiusa a consacrare Ceccardo: “Spirito eletto della poesia”, - scrive Adriano Andreani

 

O benedette spiagge /  ove l'amore, la libertà, i sogni /  non hanno catene.

 

                                                                                                                     

  Maggio
di Antonio Integlia


MAGGIO, QUEL MESE

CHE NON DOVREBBE FINIRE MAI

           

Maggio è appena iniziato, ma è un mese che dovrebbe durare...almeno 365 giorni.

Infatti è il mese dedicato alla “Mamma”, uno dei fiori più belli che si conoscano.

Avete presente la rosa?

Ecco, se dovessimo rappresentare il volto di una mamma mentre osserva il suo bambino, non potremmo inventarci niente di meglio che una rosa appena sbocciata.

Se pronunciamo la parola rosa ci vengono subito in mente delle cose positive, dei momenti piacevoli: tutte le rose sono belle, tutte hanno la loro dignità.

Lo stesso avviene per la parola”mamma”.

Tra tutte le mamme, poi, alcune hanno saputo sviluppare al massimo le loro doti innate, sino a meritarsi riconoscimenti unanimi.

Ricordo, io salesiano, “Mamma Margherita”, la mamma di don Bosco.

Donna forte, dalle idee chiare, sobria e determinata; nell’educazione cristiana è severa, dolce e ragionevole.

Cresce tre ragazzi dal temperamento molto diverso.

Accompagna con amore Giovanni fino al sacerdozio e poi lo segue nella sua  missione tra i giovani poveri e abbandonati di Torino.

Illetterata, ma piena di quella sapienza che viene dall’alto è stata d’aiuto per tanti poveri ragazzi della strada, figli di nessuno.

Un’altra donna che ha sviluppato davvero la sua maternità è stata Madre Teresa.

Pérez de Cuellar, allora segretario generale dell’ONU, disse di lei: “Ecco la donna più potente della Terra…”.

 Madre Teresa non gradì quel saluto altisonante e, con un po’ d’imbarazzo, rispose: “Io sono soltanto una povera donna che prega...

Pregate anche voi, e Dio vi riempirà il cuore di amore e così potrete vedere bene i poveri che avete attorno e potrete amarli con il cuore di Dio!”.

Ma, in assoluto, la “mamma” per eccellenza è rappresentata dalla giovane Maria, di cui anche Chi aveva la possibilità di moltiplicare pani e pesci e di resuscitare morti, non ha potuto fare a meno. Anche Maria, come tutte le mamme,ha ricevuto il dono di partorire il “suo frutto”, ed è davvero bello pensare a quanta gioia possa esservi nei suoi occhi quando noi, recitando l’”Ave Maria”, le riconosciamo l’immensità della grazia che l’ha resa benedetta fra tutte le donne, e così oggi venerata in tanti luoghi e Santuari, anche alla Spezia e in tutta la Liguria.

            Mamme, non cambiate mai, perché ognuna di voi è un perfetto architetto!

                        

                                                                                                

           

                                                                                                                         

Tantissimi Auguri a tutte le mamme

<-Indietro
 I nostri poeti
 Storie dei lettori
 Spiritualità
 I nostri ragazzi
 La redazione
 Galleria Foto
 E Mail
Lunae Photo
Archivio
2022
n°6 Giugno
n°5 Maggio
n°4 Aprile
n°3 Marzo
n°2 Febbraio
n°1 Gennaio
2021
n°10 Dicembre
n°9 Novembre
n°8 Settembre-Ottobre
n°6 Giugno/Luglio
n°5 Maggio
n°4 Aprile
n°3 Marzo
n°2 Febbraio
n°1 Gennaio
2020
n°11 Dicembre
n°10 Novembre
n°6 Settembre-Ottobre
n°5 Giugno
n°4 Aprile
n°3 Marzo
n°2 Febbraio
n°1 Gennaio
2019
n°10 Dicembre
n°9 Novembre
n°8 Ottobre
n°7 Agosto-Settembre
n°6 Giugno-Luglio
n°5 Maggio
n°4 Aprile
n°3 Marzo
n°2 Febbraio
n°1 Gennaio
2018
n°11 Dicembre
n°10 Novembre
n°9 Ottobre
n°8 Settembre
n°7 Luglio-Agosto
n°6 Giugno
n°5 Maggio
n°4 Aprile
n°3 Marzo
n°2 Febbraio
n°1 Gennaio
2017
n°11 Dicembre
n°10 Novembre
n°9 Ottobre
n°8 Settembre
n°7 Luglio-Agosto
n°6 Giugno
n°5 Maggio
n°4 Aprile
n°3 Marzo
n°2 Febbraio
n°1 Gennaio
2016
n°11 Dicembre
n°10 Novembre
n°9 Ottobre
n°8 Agosto-Settembre
n°7 Luglio
n°6 giugno
n°5 Maggio
n°4 Aprile
n°3 Marzo
n°2 Febbraio
n°1 Gennaio
2015
n°11 Dicembre
n°10 Novembre
n°9 Ottobre
n°8 Agosto-Settembre
n°7 Luglio
n°6 Giugno
n°5 Maggio
n°4 Aprile
n°3 Marzo
n°2 Febbraio
n°1 Gennaio
2014
n°10 Dicembre
n°9 Novembre
n°8 Ottobre
n°7 Agosto-Settembre
n°6 Giugno-Luglio
n°5 Maggio
n°4 Aprile
n°3 Marzo
n°2 Febbraio
n°1 Gennaio
2013
n°10 Dicembre
n°9 Novembre
n°8 Ottobre
n°7 Agosto-Settembre
n°6 Giugno-Luglio
n°5 Maggio
n°4 Aprile
n°3 Marzo
n°2 Febbraio
n°1 Gennaio
2012
n°10 Dicembre
n°9 Novembre
n°8 Ottobre
n°7 Agosto-Settembre
n°6 Giugno-Luglio
n°5 Maggio
n°4 Aprile
n°3 Marzo
n°2 Febbraio
n°1 Gennaio
2011
n°11 Dicembre
n°10 Numero speciale
n°9 Novembre
n°8 Ottobre
n°7 Agosto-Settembre
n°6 Giugno-Luglio
n°5 Maggio
n°4 Aprile
n°3 Marzo
n°2 Febbraio
n°1 Gennaio
2010
n°10 Dicembre
n°9 Novembre
n°8 Ottobre
n°7 Agosto-Settembre
n°6 Giugno-Luglio
n°5 Maggio
n°4 Aprile
n°3 Marzo
n°2 Febbraio
n°1 Gennaio
2009
n°11 Edizione speciale
n°10 Dicembre
n°9 Novembre
n°8 Ottobre
n°7 Agosto-Settembre
n°6 Giugno-Luglio
n°5 Maggio
n°4 Aprile
n°3 Marzo
n°2 Febbraio
n°1 Gennaio
 
     
 Copyright 2009 © - Il Sentiero. Bollettino Interparrocchiale di Ortonovo (SP) Crediti