|
|
|
La riconciliazione
di Antonio Ratti
Meditazione quaresimale: LA RICONCILIAZIONE
La Quaresima e la Settimana Santa rappresentano i momenti più indicati a fare il punto sulla consistenza della propria fede.
Anche i più tiepidi (cioè, i più restii a trovare un po’ di tempo mentale, oltre che fisico, per considerare nella sua pienezza il senso della vita) dovrebbero sentire la scossa per gli avvenimenti che si stanno preparando e dei quali non si può fare solo memoria passiva, bensì vanno meditati e vissuti come il succo vero e sostanziale di ogni esistenza. Tre sono i momenti che danno significato e valore assoluto alla proposta che Gesù offre all’uomo: l’ultima cena, la crocifissione, la resurrezione; ovvero, la donazione di sé che garantisce, quale dono gratuito, la giustificazione, la salvezza, l’eternità.
Per tutti?
Certo, è disponibile per tutti coloro che la desiderano e la cercano.
La legge impone (infatti, ordina o vieta) la donazione, che è atto di amore, offre, motiva, si spende a dare le ragioni per compiere liberamente la scelta di campo.
La donazione, non l’imposizione, sa creare le condizioni ottimali a predisporsi all’accettazione senza riserve. Rispolverando un po’ di sano egoismo, esiste un’alternativa degna di questo nome?
L’ateismo, ovvero il rifiuto di affrontare il problema di un Dio creatore, l’indifferenza, ovvero, l’ignavia, la pigrizia e l’insofferenza che vietano di pensare sul significato della vita, la droga, il rumore che assorda, lo sballo del sabato sera, ovvero, l’alibi per un impedimento fisico, mentale e psichico a ragionare sul valore della vita, non sono e non danno valide alternative al destino dell’uomo. Spesso si sente parlare di “problema di coscienza” e di “esame di coscienza”, ma sappiamo di che si tratta e, soprattutto, cos’è la coscienza?
Per S. Paolo è l’esigenza di un principio interiore come criterio di discernimento dell’agire umano e trova la risposta adeguata nella Rivelazione e nella Parola di Gesù.
Per S. Ireneo di Lione rappresenta la realtà complessa dell’uomo formato da corpo, intelletto e anima che devono convivere insieme e trovare una sintesi condivisa, per cui la coscienza è l’ambito da cui partire per cogliere il senso ultimo dell’agire morale.
Per la tradizione cristiana, che ha sempre riconosciuto il primato della coscienza, essa è il luogo in cui l’uomo si autoriconosce e decide di sé e la definisce come la norma ultima della moralità, difendendone i diritti inderogabili.
Anche i partiti politici, quando nel Parlamento affrontano argomenti delicati, i così detti “temi eticamente sensibili”, per il voto concedono ai propri rappresentanti “la libertà di coscienza”, cioè, non se la sentono di violare, coartandola, l’intimità libera della coscienza. Ora che abbiamo individuato cos’è la coscienza, impariamo a conoscerla e a definirla sempre meglio affidandole con fiducia le sue specifiche competenze e riconoscendole il ruolo di guida.
Un detto popolare, cogliendo nel segno, la paragona all’aglio che “rinfaccia” il suo inconfondibile odore.
Difatti, essa è quella “vocina” che esce dal nostro “dentro” e che con pacata insistenza indica, suggerisce, propone.
Quante volte gli imponiamo il silenzio sognando di prenderla a martellate come Pinocchio con il grillo parlante?
A chiunque dà fastidio ammettere i propri limiti e le proprie colpe o mancanze: gli elogi appagano e rendono tanto orgogliosi da scivolare spesso nel peccato di presunzione; per questo periodicamente è bene fare un “check up” (controllo) per rimettere ordine e rilanciare il nostro agire sotto il controllo di una corretta coscienza.
E’ sempre difficile ammettere a se stessi le proprie trasgressioni: figuriamoci dichiararle ad altri. Nasce così l’arte dell’auto-valutazione e dell’auto-assoluzione dei propri comportamenti: “non ho ammazzato, non ho rubato, ho tutelato i miei interessi e quelli della famiglia, quindi sono a posto con la coscienza”.
Senza utilizzare il cilicio a mo’ di tortura per confessare, cominciamo a indagare con più attenzione, chiedendoci nell’ordine: “Cosa non ho fatto che avrei potuto o dovuto fare?”, “Che bene ho fatto?”, “ Che male ho fatto?”: avremo delle sorprese.
Scopriremo che le maggiori carenze sono di omissione, in relazione al compimento dei doveri coniugali, familiari, professionali, civili, sociali, ecclesiali.
Ci sono molti modi di “ammazzare” (per es.”ne uccide più la lingua che la spada”, suggerisce un detto popolare), altrettanti di “rubare” (es. evadere il fisco, non compiere con diligenza il proprio lavoro, corrompere per tornaconto a danno di altri, negare il possibile alla famiglia, abusare della fiducia altrui). I Comandamenti sono dieci, non i due o tre che non costa eccessiva fatica rispettare.
Poiché la morale cristiana trova la sua piena attuazione nel comandamento dell’amore, chiediamoci se l’amore verso il Signore è reale e totale, non verbale e formale.
Poiché non è possibile amare senza conoscere l’oggetto del proprio amore, domandiamoci quanto è grande la nostra ignoranza religiosa, quanto lacunoso è il nostro ascolto della Parola e, talvolta, presuntuosa la nostra appartenenza alla comunità dei cristiani.
Inoltre, l’amore verso Dio non può prescindere né essere disgiunto dall’amore verso il prossimo, interroghiamoci, pertanto, quanto è profondo e sincero il legame con le persone che ci stanno vicino e quanto è robusta la disponibilità con quelle che incontriamo nel cammino della vita.
Se l’analisi è corretta, non resta che spaventarci della nostra pochezza, mascherata da visibili e generici atteggiamenti buonistici.
Se questa è la nostra condizione, com’è possibile rifiutare, ancora, un dialogo che aiuta a riconoscere e accantonare le nostre miserie mentali e spirituali, un dialogo che riconcilia, attraverso il sacrificio di Gesù, a Dio Padre, un dialogo che, facendoci sentire puliti e rinati, dona carica e nuova lena nel procedere verso il traguardo della vita?
Infine, se ancora riteniamo di non avere niente da confessare, ma sentiamo la “vocina” di cui sopra che sollecita con pacata insistenza l’opportunità di un dialogo chiarificatore, quasi un testa a testa liberatorio, per riprendere soddisfatti e riconfermati con Lui e con noi stessi il cammino di fede, rimane, ancora, tanto difficile per il nostro amor proprio e contrario alla nostra “privacy” avvicinarsi ad un confessionale con l’umiltà di chi conosce i propri limiti?
E se a Gesù bastasse solo questo sforzo consapevole che annulla ogni egoistico ostruzionismo del nostro “io”, perché perdere l’occasionissima di guardare al Cielo con fiducia totale e gioia ?
25. 02. 09 Antonio Ratti
|
|
|
|
|
|
|
Gioia e sacrificio
di Padre Carlos
GIOIA E SACRIFICIO
Santa Teresa in un suo scritto dice: “I tiepidi non abbracciano la croce, la trascinano”.
Uno dei primi sintomi della tiepidezza è proprio il rifiuto, insieme al disprezzo più o meno consapevole, della mortificazione.
Difatti il Signore ha detto: ”Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano”.
Il Signore non chiede di rinunciare alle cose (alla casa, ai beni, e a tutto il resto): ci chiede di rinunciare a noi stessi, di offrirgli quello a cui teniamo di più, il nostro Dio.
In fondo, tutti gli ostacoli alla vita interiore hanno origine nell’amore disordinato alla propria persona (l’io sempre e davanti a tutto) e nelle varie forme dell’egoismo.
Dimenticarsi di sé per Cristo e preoccuparsi degli altri conduce alla libertà, alla gioia e alla pace, rendendoci capaci di elevare il nostro sguardo a Lui.
Chi è abituato a non negarsi nulla, chi ha i sensi indisciplinati ed è disposto ad accettare tutte le comodità di una vita molle, difficilmente potrà essere padrone di sé e raggiungere Dio.
La castità, la sobrietà, l’umiltà e la mitezza, espressioni della temperanza, sono possibili soltanto con l’esercizio delle piccole mortificazioni, con le quali è intimamente unità interiore, una gioia densa di contenuti.
La gioia del cuore è infatti il segnale infallibile di una temperanza autentica.
Paolo VI ricordava il pericolo che esiste oggi nel voler nascondere la necessità del sacrificio e della mortificazione nella vita cristiana.
Spesso si affaccia la tentazione di considerare facile il cristianesimo, di accoglierlo nei suoi conforti, ma senza alcun sacrificio, cercando di renderlo conformista a tutti gli abituali del vivere mondano.
Non è così !
Il cristianesimo, non può essere esonerato dalla croce. Gesù ci ha detto: “Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo”.
Il legno sul quale Cristo vinse il peccato è la strada che tutti dobbiamo percorrere per raggiungere il Cielo: non vi è santità senza la Croce.
E’ triste mettere il cuore nelle cose che sono passeggere; è triste una vita senza senso come lo è un dolore, che non avvicina a Dio; è triste lasciar passare i giorni senza affrettarci verso il Signore; sono tristi la tiepidezza e il peccato.
Ma il sacrificio che porta, o dispone all’Amore non può mai essere triste.
La croce ogni giorno.
Non un giorno senza croce; non un giorno in cui non portiamo la croce del Signore.
Il cammino della nostra santificazione personale passa quotidianamente per la Croce:non è un cammino di infelicità, perché Cristo stesso ci aiuta, e lì dove è Lui non c’è posto per la tristezza. Qualche volta la croce del Signore si fa trovare in una grossa difficoltà, in una malattia grave e dolorosa, in un disastro economico, nella morte di una persona cara, nelle incomprensioni e nelle grandi ingiustizie.
La croce – piccola o grande – quando la si accetta, dà pace e gioia in mezzo al dolore; diversamente, la ribellione fa perdere l’armonia interiore e l’anima si riempie di tristezza e malumore.
Tutti dobbiamo assumere un atteggiamento deciso, e caricarcela sulle spalle.
Al mattino ci sarà di aiuto considerare che il giorno appena iniziato ha la sua croce, e tocca a noi scoprirla perché possa santificarci.
Il cristiano che rifugge sistematicamente il sacrificio non troverà mai né Dio, né la felicità.
Ma non è facile avere per tutta la giornata questa disponibilità verso la croce.
“Tanto leggero è il peso di Cristo che non solo non opprime, ma anzi solleva”, ci giova portarlo per essere sollevati; se lo deporremo, ci troveremo più oppressi.
La mortificazione interiore ci ottiene il controllo dell’immaginazione e della memoria, tenendo lontani pensieri e ricordi inutili, e in special modo i moti disordinati dell’amor proprio, della superbia e della sensualità.
Bisogna mortificare il corpo.
Un po’ meno quindi nelle comodità, nei capricci; è nella vita ordinaria di tutti i giorni che devono essere cercate le mortificazioni.
Con la mortificazione ci eleviamo verso il Signore; senza di essa, invece, restiamo attaccati alla terra.
Per progredire nel cammino interiore e per essere anche noi discepoli di Gesù, dobbiamo avere una costante e abituale disposizione alla mortificazione.
|
|
|
|
|
|
|
Saulo di Tarso
di Antonio Ratti
SAULO DI TARSO
ovvero PAOLO, l’Apostolo delle genti (2)
LE OTTO PAROLE CHE DEFINISCONO PAOLO
Otto parole aiutano a delineare la forte personalità e l’opera di evangelizzatore che non conosce ostacoli.
Persecutore della Chiesa con zelo assoluto.
Non teme di parlare della sua azione di avversario dei cristiani.
Anzi, nel sottolineare la sua preparazione biblica presso la scuola di Gamalìele e la vita modellata sul rispetto totale della Legge, evidenzia l’ovvietà di dover combattere ogni distorsione e devianza.
Saulo, come ogni buon giudeo, è convinto che l’uomo può giungere alla comunione con Dio solo osservando scrupolosamente la Legge.
Quando entra in contatto e riflette sulla predicazione di Gesù, avverte il rischio gravissimo per il futuro del giudaismo.
Infatti, insanabile è il contrasto tra le due vie di salvezza: giungere a Dio attraverso l’obbligo di sottostare alla Legge senza alcun intermediario, non solo non si concilia con la mediazione operata da Gesù, ma questa costrizione mostra tutti i suoi limiti al cospetto di una salvezza che è, invece, dono gratuito attraverso un gesto di amore.
Ne consegue che, se i cristiani non saranno annientati, saranno costoro a far scomparire una fede costruita sulla tradizione.
Convertito. Quando comprende che la salvezza non è legata all’osservanza della Legge, ma è donata, si converte alla gratuità e all’universalità della salvezza, percependo il Gesù, che lo ha bruscamente cercato per farsi conoscere, come il Risorto glorioso protagonista della salvezza cui aspira.
Negli Atti degli Apostoli Luca sembra suggerirci che non potremo mai capire Paolo, se prima non avremo fatto i conti con questa sconvolgente idea, la resurrezione di Gesù.
La storia di Paolo è la storia del Risorto che opera attraverso un discepolo consapevole che “Dio decise di rivelarmi suo Figlio perché lo facessi conoscere fra i pagani”(Gal 1,35).
La Legge“è santa, e santo e giusto e buono è il comandamento” (Rm 7,12), ma è incapace di unire a Dio. Qualsiasi azione dell’uomo da sola non è in grado di cambiare il peccatore in giusto; anzi, il solo rispetto della Legge, in presenza del peccato, può diventare “vanto glorioso” che aumenta il distacco dal Signore.
Missionario. Atterrato e accecato da Cristo ne diventa umile servitore, impegnando tutte le sue energie nel farlo conoscere, come si era adoperato a contrastarlo.
Così programma i suoi viaggi senza risparmiarsi pur di portare qualcuno a Cristo.
Pastore. Fondata una comunità, continua a interessarsene personalmente e inviando collaboratori fidati e preparati come Timoteo a Tessalonica e Tito a Corinto, oppure invia lettere con le quali risponde a specifiche richieste di chiarimenti, corregge deviazioni ed errori (es. l’obbligo della circoncisione per i pagani, pratica diffusa che ha sempre contrastato con rigore), incoraggia nelle difficoltà, dà consigli per la crescita ecclesiale, svolge un’attenta attività di cura delle anime che ha avvicinato a Gesù.
In questo ruolo di pastore che non abbandona mai il suo gregge nel momento del bisogno, rimane a Corinto, città un po’ particolare, un anno e mezzo.
Teologo. Nelle sue parole e nei suoi scritti non si limita a trasmettere fedelmente “quello che anch’io ho ricevuto”, ma approfondisce e sviluppa nella cultura greco- romana, realtà in cui opera, quelli che ritiene siano i concetti cardine della nuova fede: il dono della salvezza attraverso il sacrificio e la resurrezione del Figlio del suo Signore.
Si adopera a far superare le problematiche sorte all’impatto con il paganesimo imperante, anche se, ormai, in crisi di identità.
A ragione si spende con i Corinzi nell’illustrare il valore e la grandezza del matrimonio, della verginità e di comportamenti in linea con la parola di Gesù.
La sua cultura giudaica di totale adesione alla Legge e sottomissione a Dio, è una costante che riaffiora : per lui il cristiano è un testimone di vita, non un maestro esperto di parole.
“ Fratelli, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. Non siate motivo di scandalo né ai giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio…” (Cor10,31-32)
[Se non ricordo male, Paolo VI richiamandosi palesemente al suo antico omonimo, sosteneva che la Chiesa ha bisogno di testimoni e non di maestri]. Contestato. Tanta solerzia e tanto zelo nel diffondere la novità cristiana trovano accoglienze, non di rado, poco entusiaste nella realtà ebraica come in quella di cultura greco-romana.
Deve allontanarsi da Damasco calandosi di notte in una cesta dalle mura.
Problematico è il rapporto con Gerusalemme.
E’ odiato dai giudei che lo ritengono un traditore; è avversato dai cristiani giudaizzanti per il suo apostolato tra i pagani in nome dell’universalità della fede.
Solo col tempo è stato accolto e riconosciuto come apostolo.
Letterato. Basta leggere le lettere per rendersi conto delle sue capacità di scrittore essenziale, chiaro e schietto, che sa ricevere influssi dalla cultura greca senza subirla, che sa inventare terminologie idonee ad esprimere la profondità e l’originalità del pensiero cristiano.
Poiché la sua vita si dipana in un incrocio di culture (ebraica, greca, romana) e la sua attività si muove essenzialmente in ambito ellenistico, mostra di conoscere bene le molte risorse della lingua greca arrivando ad attribuire significati inediti a vocaboli come sarx “carne”, pneuma “spirito”, hamartìa “peccato”, sotèria “salvezza” e tanti altri. Sottolineo, a mo’ d’esempio, “pneuma”, che in greco vuol dire soffio vitale, riferito allo Spirito Santo.
Martire. La totalità della fede in Cristo e nei suoi doni trova il suo epilogo nel martirio verso il quale si avvia con la consapevolezza di chi sta per raggiungere il traguardo della vita: la visione permanente di chi ha voluto cambiargli l’esistenza, Gesù.
Il suo pensiero e la sua fede poggiano su pochi punti che ritiene determinanti.
Desidera vivere ed è pronto a morire per Gesù Cristo che, liberandolo dal peccato, lo ha reso “nuova creatura” (2 Cor 5,17); sente con Lui così forte la vicinanza che “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2;20), perché attraverso la sua mediazione salvifica gli è possibile raggiungere il Padre e lo Spirito Santo.
Da Cristo la sua attenzione si sposta alla Chiesa vista quale comunione universale: “Il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo?
Pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti, infatti, partecipiamo dell’unico pane” (1 Cor 10,16-17) che è Cristo.
Antonio Ratti
|
|
|
|
|
|
|
Gli Ebrei
di Antonio Ratti
GLI EBREI : 17) Il culto
La religione ebraica attraverso il culto riconosce il rapporto di dipendenza totale da Jhwh.
Pertanto i riti sono improntati ad un significato storico-commemorativo di eventi dove Jhwh si è reso presente a Israele con un intervento storicamente qualificabile e documentato dalla Tradizione, che per l’ebraismo è la storia.
Il sacrificio, che rinnova l’alleanza con Dio, è cosa santa e trova nel Levitico (1-7) le motivazioni e le indicazioni fondamentali per una corretta esecuzione.
Inizialmente consisteva in un’offerta di essenze profumate e di incenso, di cui i sacerdoti del Tempio avevano l’obbligo rituale.
Successivamente il sacrificio fu arricchito con l’offerta di focacce di fior di farina non lievitate, di 12 pani (le 12 tribù), rinnovati ogni sabato e di primizie della terra e dei greggi (Nm15,17-21).
Anche i primi nati di uomini e di animali rientravano nell’offerta delle primizie, perché tutto ciò che è creato e viene prodotto dalla terra appartiene a Dio: “Consacrerai a me ogni primogenito, tutto ciò che nasce per primo tra i figli di Israele, tanto degli uomini, quanto degli animali, esso mi appartiene” (Es 13, 1-2).
L’olocausto, che è il sacrificio totale della vittima (uccisione), è presentato mattina e sera all’altare del Tempio dal sacerdote. Nel tempo il culto decadde ad abitudine, tanto che contro la ritualità esteriore del sacrificio e dell’olocausto si levò violenta la protesta dei profeti che sostenevano la necessità di una fede fondata sulla conversione interiore del cuore e dello spirito.
“Che m’importa la moltitudine dei vostri sacrifici? – dice Jhwh – Io sono sazio di olocausti di montoni e di grasso di bestie ingrassate; il sangue dei giovenchi, degli agnelli e dei capri io non gradisco….Cessate di recare oblazioni vane….Lavatevi, purificatevi, togliete dinanzi ai miei occhi la malvagità delle vostre azioni, cessate di fare il male, imparate a fare il bene,cercate la giustizia...”(Is 1,11-13, 15-17).
[L’uomo non cambia : oggi com’è la nostra fede?].
E’ evidente come il culto, che inizialmente nelle sue manifestazioni non era diverso dai riti idolatri, si affinasse, acquistando quell’interiorità e quel simbolismo cui una fede seria aspira.
Inoltre con la schiavitù, le diaspore, la distruzione del Tempio e l’impossibilità pratica di effettuare olocausti, divenne impossibile conservare tante espressioni rituali, mentre alcune altre divennero insostituibile segno di appartenenza tangibile al popolo di Israele.
Esempio: il rito della Berith Mila (circoncisione), che si fa otto giorni dopo la nascita, segna l’accoglienza e l’appartenenza del neonato al popolo dell’alleanza ed è il simbolo della santità di Israele in mezzo alle nazioni pagane (Gn17, 9-14).
La purificazione rituale ebbe, ed ha, grande importanza.
Infatti, il rapporto con il sacro esige segni di purità nel fedele che, sin dal risveglio, rende grazie a Dio che gli permetterà di affrontare i doveri di una nuova giornata.
Alle preghiere si accompagnano, così, riti di purità.
Le abluzioni o il cambio di abito sono gesti ovvi di igiene, ma anche un rito sacro, perché al dialogo con Dio ci si presenta al meglio .
[ Analogamente il celebrante cattolico compie il medesimo rito purificatorio nella Santa Messa con la lavanda delle mani prima della consacrazione eucaristica ].
A questo duplice significato rientra anche il lavaggio delle mani prima della preghiera di benedizione ai pasti quotidiani.
Anche la dieta del fedele è regolata: i cibi e le bevande devono essere “kasher”(= adatte) per poterle ritenere biblicamente “pure”(vedi par. 20).
Gli animali devono essere macellati da esperti che, rispettando certe regole precise, riducano al minimo la sofferenza per l’animale e consentano di eliminare il sangue, ritenuto impuro e, quindi non commestibile.
La carne va lavata e salata per togliere ogni grumo di sangue.
Oggi le forme di vita cultuale più importanti sono:
-la preghiera personale che mette in contatto il fedele con Dio;
-la preghiera liturgica e comunitaria del sabato e delle celebrazioni festive;
- la recita dei Salmi;
- la circoncisione.
E’ bene ricordare che l’Antico Testamento esprime un concetto determinante per comprendere la fede ebraica: non solo le cose animate e inanimate, ma anche tutto il tempo appartiene a Dio.
“Tuo è il giorno, tua è la notte; tu hai stabilito la luna e il sole….
Tu hai fatto l’estate e l’inverno” (Sal74, 16- 17).
E’ in questa ottica di sacralità che l’uomo deve intendere lo scorrere del tempo; quindi, le feste ( tempo dedicato in esclusiva a Dio) sono il rinnovamento celebrativo di episodi della storia ebraica dove tangibile è stata l’azione di Jhwh.
Ora diventa più comprensibile perché al vertice di tutte le festività è la Pasqua nella quale ogni ebreo, con la memoria dell’esodo, si sente personalmente liberato da un intervento diretto di Dio e avverte la sua costante presenza.
Se il tempo e le cose appartengono a Lui, ne consegue il permanente atto di fede e di sottomissione alla volontà di Dio attraverso l’applicazione dei precetti mosaici della Torah.
Ogni gesto rituale e cultuale è in funzione di questo obiettivo che dà senso e valore al vivere dell’uomo ebreo.
Antonio Ratti
|
|
|
|
|
|
|
Parola di vita
di Chiara Lubich
PAROLA DI VITA
“Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà” (Mt 24, 42).
Hai osservato come in genere non vivi la vita, ma la trascini in attesa di un “dopo”, in cui dovrebbe arrivare il “bello”?
Il fatto è che “dopo-bello” deve arrivare, ma non è quello che tu aspetti.
Un istinto divino ti porta ad attendere qualcuno o qualcosa che possa soddisfarti.
E pensi magari al giorno di festa, o al tempo libero, o ad incontro particolare.
Ma passati questi, non resti soddisfatto, almeno pienamente.
E riprendi il tran tran d’una esistenza non vissuta con convinzione, sempre in attesa.
La verità è che, tra gli elementi che compongono anche la tua vita, ve n’è uno da cui nessuno può scappare; è l’incontro a tu per tu col Signore che viene.
Questo è il “bello” al quale inconsciamente tendi, perché sei fatto per la felicità.
E la piena felicità può dartela solo Lui.
E Gesù, conoscendo quanto tu ed io siamo ciechi nella ricerca di essa, ecco che ci ammonisce:
Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà”.
Vegliate.
State attenti.
State svegli.
Perché di molte cose non sei sicuro al mondo, ma di una certamente non puoi aver dubbi: che un giorno devi morire.
E questo per il cristiano significa presentarsi davanti a Cristo che viene.
Può essere che anche tu sia come i più che dimenticano la morte volutamente, di proposito.
Hai paura di quel momento e vivi come se non esistesse.
Dici con la tua vita terrena, col radicarti sempre più in essa: la morte mi fa tremare, quindi non c’è.
Invece quel momento verrà.
Perché Cristo viene certamente.
Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà”.
Con queste parole Gesù intende la sua venuta all’ultimo giorno.
Come è salito al Cielo fra gli apostoli, così tornerà.
Ma queste parole vogliono dire anche la venuta del Signore alla fine della vita di ogni uomo.
Del resto, quando l’uomo muore, per lui il mondo è finito.
E giacché non sai se Cristo viene oggi, stasera, domani, o fra un anno o più, devi vigilare.
Proprio come quelli che stanno svegli perché sanno che i ladri verranno a svaligiare la loro casa, ma non ne conoscono l’ora. E, se Gesù viene, vuol dire che questa vita è passeggera.
E se è tale, anziché svalutarla, devi dare ad essa la massima importanza.
Devi prepararti per quell’incontro con una vita degna.
“Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà”.
Certamente occorre che anche tu vigili.
La tua vita non è solo un pacifico susseguirsi di atti.
E’ pure una lotta.
E le tentazioni più varie, come quelle sessuali, quelle della vanità, dell’attaccamento al denaro, della violenza, sono i tuoi primi nemici.
Se vigili sempre, non ti lascerai prendere di sorpresa.
Ma vigila bene chi ama.
E’ dell’amore vigilare.
Quando si ama una persona, il cuore vigila sempre attendendola, e ogni minuto che passa senza di lei è in funzione di lei.
Così fa una sposa amorosa quando fatica, o prepara quanto può servire al suo sposo assente: fa ogni cosa in vista di lui. E quando arriva, nel suo saluto esultante c’è tutto il gioioso lavoro della giornata.
Così fa una mamma, quando prende un piccolo riposo durante l’assistenza del suo ragazzo ammalato.
Dorme, ma il suo cuore veglia.
Così agisce chi ama Gesù.
Fa tutto in funzione di Lui, che incontra nelle semplici manifestazioni della sua volontà in ogni attimo, e incontrerà solennemente nel giorno in cui verrà.
E’ il 3 novembre 1974.
Si conclude a Santa Maria, nel sud del Brasile, un incontro spirituale di 250 giovani, di cui la maggior parte proviene dalla città di Pelotas.
Il primo pullman, con quaranta cinque persone, parte: tanti canti, tanta gioia, tanto amore a Gesù.
Ad un certo punto del viaggio alcune ragazze dicono insieme il rosario coi misteri dolorosi e chiedono alla Madonna la fedeltà a Dio, fino alla morte.
In una curva, per un guasto meccanico, il pullman precipita in un burrone d’una cinquantina di metri, capovolgendosi tre volte.
Muoiono sei ragazze.
Una sopravvissuta dice: “Ho visto la morte da vicino, però non ho avuto paura perché Dio era lì”.
Un’altra: “Quando mi sono accorta che potevo muovermi, in mezzo ai rottami, ho guardato il cielo stellato e, inginocchiata tra i corpi delle mie compagne, ho pregato.
Dio era lì accanto a noi…”.
Il babbo di Carmen Regina, una delle vittime, ha raccontato che spesso la figlia ripeteva: “E’ bello morire, papà, si va a stare insieme a Gesù”.
Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà”.
Le giovani di Pelotas, perché amavano, vigilavano, e quando è venuto il Signore gli sono andate incontro con gioia.
Chiara Lubich
|
|
|
|
|
|
|
I Cristiani
di Enzo Bianchi
Quando i cristiani non disertano, quando restano saldi al loro posto e assolvono la funzione assegnata loro da Dio, è allora che sono anima del mondo, di un mondo che Dio ha tanto amato fino a dare suo Figlio”.
Enzo Bianchi
|
|
|
|
<-Indietro |
|
|
|