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Tristezza e tiepidezza
di Padre Carlos
Pagina di spiritualità, a cura di padre Carlos TRISTEZZA E TIEPIDEZZA
Non si può dar nome di tiepidezza all’assenza di sentimenti o all’aridità nel rapporto con Dio. Essa nasce da una lunga trascuratezza nella vita interiore. La trascuratezza si manifesta nella negligenza abituale nel compiere i piccoli doveri, nella mancanza di contrizione per i propri peccati, nel non prefiggersi mete concrete nel rapporto con il Signore o con gli altri. Si parla continuamente di Dio, però non si parla con Lui. Viene a mancare il vero culto interiore durante la Messa e le comunioni sono spesso accompagnate da una grande freddezza per mancanza di amore e di preparazione. Non per aridità. Si perde il desiderio di una profonda vicinanza a Dio, nasce così il disinteresse per le cose spirituali. La pigrizia interiore propria della tiepidezza è la rinuncia triste e sgarbata, stupidamente egoista, dell’uomo alla “nobiltà che obbliga” a essere figli di Dio. Il tiepido abbandona, poco alla volta, il rapporto con Dio, non essendo più attratto da Lui ed è a rischio di tentazioni più gravi perché gli manca vigore. Dobbiamo quotidianamente riconquistarci l’amore di Dio, perché ogni giorno vi sono ostacoli che tendono a separarci da Lui. Il fatto di sentire nel corpo e nell’anima il pungolo della superbia, della sensualità, dell’invidia, della pigrizia, dello spirito di sopraffazione, non dovrebbe costituire una scoperta. Si tratta di un male antico, sistematicamente verificato nella nostra esperienza personale: esso è il punto di partenza e l’atmosfera abituale per vincere, in questo intimo sport, la nostra corsa verso “la casa del Padre”. La nostra vita interiore deve migliorare sempre, fino al termine di questo viaggio terreno. E’ come se Egli ci ricordasse: “Lotta ogni istante! Dedica all’orazione il tempo necessario, senza ritagliarlo! Va’ incontro a chi cerca il tuo aiuto! Sorridi a chi ne ha bisogno, anche se la tua anima è sofferente! Esercita la giustizia arricchendola con il garbo della carità!”. Tale sforzo gioioso è l’opposto della tiepidezza che è la trascuratezza, mancanza di interesse a Dio, pigrizia e tristezza negli atti di pietà. Per chi confida nel Signore, nulla è completamente perduto. Se siamo umili, anche se abbiamo rotto la nostra vita in mille pezzi, Dio saprà riaggiustarla: ci pentiamo, e Dio perdona e aiuta sempre. Una debolezza, una caduta, ci devono dare motivo per accostarci maggiormente a Dio: tutto si può aggiustare con un atto sincero di umiltà. Dobbiamo quindi affrontare coraggiosamente le nostre miserie personali, cercare di purificarci, sapendo che Dio non ci ha promesso la vittoria assoluta sul male di questa vita, ma ci chiede lotta. Umiltà, sincerità, pentimento… e riprendere la lotta. Bisogna saper ricominciare una volta e un’altra, tutte le volte che sia necessario: Dio tiene conto della nostra fragilità! Esercitare spesso l’esame di coscienza, ci può aiutare a capire la conoscenza di noi stessi e ci fa confrontare la nostra vita a quello che Dio si aspettava da noi. L’anima è stata talvolta paragonata a una stanza chiusa: quanto più si spalanca la finestra ed entra la luce, tanto più vi si possono notare i difetti e la sporcizia. Nell’esame, con l’aiuto della grazia, ci conosciamo come in realtà siamo. L’esame fatto senza umiltà, è fatto con occhi di cieco: “Sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, per non vedere con gli occhi e non sentire con gli orecchi”. Insieme, nell’esame fatto con umiltà e alla presenza di Dio, scopriremo le radici delle mancanze nella carità, nel lavoro, nella gioia e nella vita di pietà che si ripetono spesso nella vita, di modo che potremo lottare con allegria. Spesso c’è, in ciascuno di noi, un difetto che prevale su tutti. Spesso un difetto sta alla radice di molti altri e perciò vincerlo significa fare molti passi avanti nel nostro cammino verso Dio e, spesso, anche nel nostro rapporto con gli altri. Due sono i mezzi necessari per discernere qual è questo punto di lotta che dobbiamo mettere in primo piano: anzitutto la grazia di Dio, senza la quale nulla possiamo nella vita interiore; poi la direzione spirituale: la persona che conosce bene la nostra anima e con la grazia speciale di Dio può suggerirci i campi di lotta, magari sconosciuti anche a noi stessi, dove ci è richiesto un particolare impegno. Il suo incoraggiamento e la sua preghiera sono un aiuto potente se noi ci siamo fatti conoscere in tutta sincerità. A volte ci verrà indicato il modo più efficace per lottare e per fare con frutto questo esame.
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Gli Ebrei
di Antonio Ratti
GLI EBREI
13)La fede ebraica La fede ebraica trova la sua definizione nel termine ‘emunà (fiducia in Dio) in riferimento non tanto a quello che Egli è ma, essenzialmente, a ciò che Egli opera nella storia del creato e, in particolare, in quella del popolo d’Israele. Dalla medesima radice di ‘emunà deriva anche amen, termine con il quale si esprime l’atteggiamento di chi ha fede e fiducia nel Signore e per questo rimane saldo in Lui e nei suoi insegnamenti. La Bibbia è il testimone di quanto questo atteggiamento di fiducia in Dio nasca e si sviluppi come fede storica della rivelazione di Dio verso l’umanità: è Jhwh che cerca e si rivolge ad Abramo, offrendogli un patto di alleanza in nome del quale si impegna a condurre il popolo di Israele verso la Terra Promessa. Israele risponde all’operare divino nei suoi confronti, accogliendone gli insegnamenti rivelati sul monte Sinai attraverso la Torah, ricevuta da Mosè e trasmessa dalla Tradizione. L’ebreo riconoscendosi nella storia di fede del popolo di Israele, che conduce da Abramo ai nostri giorni, si lascia pervadere e plasmare dalla memoria di questa storia con azioni e comportamenti che coinvolgono la vita quotidiana esprimendo in atti concreti la sua appartenenza al popolo della promessa. Tale fede ha poco di speculativo e filosofico, ma è piuttosto una disposizione all’ascolto della Parola rivelata. Lo Shemà, professione di fede, (vedi par. 16) sottolinea questa disposizione: ”Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno …”. Lo Shemà, come il nostro Credo, impegna l’ebreo all’osservanza dei precetti, alla loro trasmissione di generazione in generazione e ricorda che l’adesione deve coincidere con una scelta di vita che ha nella Torah il punto centrale in quanto segno concreto di fedeltà al Signore: “Fiducia in Dio” e “ Fare la volontà di Dio” rappresentano la sintesi della fede ebraica.
14)L’uomo L’uomo ebreo, quale creatura voluta da Dio, ha ben chiaro la sua condizione di dipendenza e sottomissione, oltre alla incommensurabile distanza che lo separa dalla sua fonte di vita. Manifesta tutta la consapevolezza dei suoi limiti e le emozioni legate all’idea di “ Tremendo e santo è il suo nome”, ciononostante nel suo status di creatura effimera nel tempo, sa trovare la fiducia di Colui che, per natura, è illimitatamente distante, ma che, per sua misericordia, è paternamente vicino (“parlava con Mosè faccia a faccia, come uomo che parla con il proprio amico”). L’uomo biblico, come non dimentica mai la potenza e l’aspetto terribile e tremendo (nel senso di eccezionale) del suo Creatore, così sa di poter sempre contare nel suo amore provvidenziale, che non verrà mai meno, neppure quando, malauguratamente, la creatura si ribella. Nella sua pochezza, l’uomo della Bibbia esprime, tuttavia, una grande dignità: “Quando io considero i cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate nella volta, che cosa è l’uomo perché tu te ne debba ricordare; che cosa è il figlio dell’uomo perché tu te ne dia pensiero?”( Sal.8, 3-5 ) Nell’uomo che accetta come verità basilare della sua vita Dio, padre e creatore, che provvede alla sue creature con abbondanza di attenzioni, si devono manifestare diversi sentimenti di edificazione quali l’amore ed il rispetto assoluto verso Dio, la pratica della giustizia, la cura e l’attenzione per i deboli e gli indifesi. Di contro all’uomo fedele, abbiamo l’empio, colui che rifiuta la sua dipendenza di creatura, vivendo, pertanto, fuori dalla conoscenza di Dio e quindi fuori da ogni rapporto con Lui. “Ecco l’uomo che non aveva fatto di Dio la sua fortezza, ma confidava nella sua grande ricchezza e si faceva forte della sua perversità.” (Sal 52,7).E’ esattamente questo l’atteggiamento che provoca la frattura e genera il male. Il peccato si produce quando volontariamente la creatura uomo pretende di divenire l’artefice del suo destino, cioè, quando coscientemente rifiuta il suo ruolo di esecutore della volontà divina per farsi promotore di una tutta sua. Il pentimento chiaro e netto, come il riconoscimento leale di un ingiusto gesto di orgoglio, sono le sole condizioni che consentono di ristabilire l’alleanza e la salvezza Il pentimento sincero induce la modifica delle decisioni di Dio, un ammorbidimento della sua ira, il mutarsi della giustizia in misericordia, fondamento del perdono. L’uomo biblico avverte fortemente la certezza del perdono, perché è profondamente radicata la convinzione che Dio conosce bene i limiti e le debolezze della natura umana, da Lui creata, cui è connessa l’inclinazione alla trasgressione e al peccato.
15) La morale L’atteggiamento etico dell’uomo biblico è racchiuso in questi due passi : “Tu amerai dunque Jhwh, il tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze” (Dt 6, 25).“E questa sarà la nostra giustizia: l’aver cura di mettere in pratica tutti questi comandamenti al cospetto di Jhwh, del Dio nostro, come egli ci ha ordinato” (Dt 6, 25). Ne consegue che il rispetto della Toràh, cioè della Legge, è il dovere fondamentale della creatura. La Legge ha una importanza grandissima, unica per l’ebraismo: è il valore supremo, in essa si sfiora Jhwh. Dio, non solo crea l’uomo e lo rende signore dell’intero creato visibile, ma gli stabilisce anche delle norme comportamentali rappresentate dalle prescrizioni dei singoli comandamenti. L’uomo ha la facoltà di optare fra due proposte: la via del bene, apportatrice di felicità, di abbondanza, di benedizioni divine che procurano numerosa discendenza, fecondità, ricchezza, vittoria sui nemici, successo; e la via del male, causa di dolore, di morte, di infelicità e di sterilità. Si estrinseca così la dottrina della “Retribuzione”, secondo la quale Dio “rende all’uomo secondo le sue opere e fa trovare a ciascuno il salario della sua condotta” (Gb 34,11). Saggio e giusto è colui che pratica i doveri religiosi e morali. L’uomo biblico è fiducioso della misericordia di Dio che, conoscendo la inclinazione al male del cuore umano, interviene con abbondanza di aiuti là dove più grave è la debolezza: “Come un padre è pietoso con i figli, così Jhwh è pietoso con quelli che lo temono. Poiché sa di che cosa siamo fatti, ricorda che noi siamo polvere” (Sal 103,13-14). Antonio Ratti
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