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A PROPOSITO DI PAROLE
di Olimpio Galimberti ( da Strada facendo )
Qualche anno fa, un professore
mi diceva, in risposta ad alcune mie lagnanze circa il linguaggio dei media, ( di taluni media, non generalizziamo ), che
l’italiano è una lingua viva,sempre in movimento, una lingua che si evolve, che
si aggiorna. Dev’essere proprio così, perché pensare che il congiuntivo sia
stato relegato nel dimenticatoio solo perché certi giornalisti non lo sanno
usare, mi mette tristezza. Però avete notato quanti nuovi termini sono venuti
avanti negli ultimi tempi tanto da essere divenuti ormai “familiari”? Due esempi per tutti: sanificare e
resilienza. Sanificare è venuto alla ribalta con il corona virus; una volta si
sarebbero probabilmente usati altri termini per indicare misure atte a
prevenire la trasmissione del contagio; forse igienizzazione, disinfestazione,
magari anche sterilizzazione. Adesso abbiamo imparato una nuova parola, appunto
sanificazione (l’italiano è proprio “inesauribile”, sempre in movimento, aveva
ragione il professore), che, tutto sommato, non è male, rende bene l’idea; c’è
andata bene, poteva saltar fuori qualche termine straniero ( inglese,
naturalmente ; ormai siamo tutti cittadini del mondo, perché insistere con il
vecchio italiano,perché occuparsi delle tradizioni, dei dialetti? ) E poi resilienza ( ho dovuto ricorrere alla
telematica perché nel mio vecchio vocabolario non c’era traccia di “resilienza”
), che vuol dire capacità di assorbire gli urti e di saper reagire
positivamente; in pratica, rapportato alla nostra vita, è saper affrontare le
difficoltà e superarle al meglio ( secondo la definizione degli psicologi - guida antistress -, la resilienza è la
capacità di far fronte in maniera positiva ad eventi negativi, e può essere
potenziata da ciascuno di noi, soprattutto quando siamo motivati a farlo da
circostanze particolari). E’ un termine,
resilienza, che sa di lotta, d’impegno, di libertà. Già, di libertà, uguaglianza, fraternità,
democrazia, civiltà ( industriale ? ), progresso ( scientifico, morale,
culturale ? ) e tanti altri bei termini
che però spesso restano solo sulla carta, sostituiti da altre parole come
oppressione, sopraffazione, disuguaglianza, rivalità, totalitarismo, inciviltà,
regresso, sofferenza abbandono, mancanza di rispetto, egoismo, scorrettezza,
disprezzo. Potrei andare avanti chissà per quanto, con termini negativi, ma
qualcuno, qualcuno di quelli che si riempiono la bocca di “democrazia”,
probabilmente me lo impedirebbe. E allora, io che ho sempre cercato di vivere
“liberamente”, per andare avanti per la mia strada, che termine devo usare,
resistenza o resilienza?
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I Beggi S’gondin
di Romano Parodi
I
Beggi S’gondin
Nell’ultimo numero del Sentiero, il prof. Banti parla di
Frontelmo Beggi, ortonovese, parroco della Chiesa del Carmine a Sarzana.
Frontelmo, ha lasciato molti scritti, compreso la storia della chiesa del
Carmine, che conservo e che ha un’incipit bellissimo: I ricordi sono le
reliquie della patria…. e molte poesie donatemi dai suoi nipoti, che io ho
donato al Seminario.
Era discendente di una delle famiglie più antiche e distinte di Ortonovo (già
presenti nel 1500), imparentata con tutti i notabile del paese: i Ceccardi, i
Bianchi, i Raganti, ecc. Una Beggi era anche la madre del sindaco avv. Antonio
Bianchi, una Beggi era anche la moglie del sindaco dott. Luciani, e un’altra
anche la moglie di Vittorio Piola. Hanno avuto molti personaggi illustri: un
Giulio Beggi segretario dei Cybo Malaspina racconta gli sfarzosi sponsali di
Veronica* con un Medici già nel ‘600. Un Silverio avvocato vinse una causa
contro i monaci di san Frediano padroni del duomo di Carrara.
Un Bonifacio medico ebbe grande notorietà per la cura della peste (c’è anche
una maestà col suo nome in paese), ecc. Vendettero tutta la vastissima
proprietà terriera e lasciarono il paese durante la Prima Guerra Mondiale, e si
trasferirono a Serravezza, in lucchesia. Conservarono però un amore profondo
verso il loro Ort’onò, mi dice Pietro Beggi del Forte. Sull’entrata della loro
casa di Serravezza (Oggi c’è un cartello vendesi) c’è una Maestà: la nostra
Madonna del Mirteto. Nel cimitero sulla strada che dall’Aurelia porta a Forte dei Marmi, c’è
una cappella mortuaria che desta la curiosità di tutti per l’orgogliosa
rivendicazione: I BEGGI DI ORTONOVO, si vede anche dal cancello d’entrata.
Quando si trasferirono, uno dei figli, il
professore, sposò una nobile di Lucca,
proprietaria di ville e castelli, nonché il palazzo avito in città. Ebbero due figli: Marino, disperso in Russia
(mistero: non figura nella lapide di Lucca perché ortonovese…; i suoi cugini
avrebbero voluto leggerne il nome, ma a Ortonovo niente lapide per i dispersi
in Russia); l’altro, Alberto, fu deportato in Germania, e quando rientrò
diventò frate domenicano (con questa tonaca veniva spesso a Ortonovo, specie il
giorno della Madonna a trovare i suoi parenti Repiccioli, casato della nonna).
E così hanno fatto sino ad alcuni anni fa, molti altri suoi cugini: da Milano,
da Roma e persino, una signora, da Città del Capo, dove ha una concessionaria
Fiat. Padre
Alberto, dopo la morte del padre, lasciò l’ordine dei Domenicani, e passò al
Clero secolare per stare accanto alla madre malata. A Lucca era una figura
carismatica. E’ morto nel 1998, assistito da tutta la sua numerosa parentela
che a turno, tutti i giorni, prendevano il treno e correvano al suo capezzale.
I suoi cugini credevano di ereditare qualcosa, ma Padre Alberto, lasciò tutto
all’Università del Sacro Cuore di Milano gestita dai Domenicani, alla Curia di
Lucca e alcuni beni all’ordine religioso della Divina Provvidenza di don
Orione, in memoria di don Pesce (come don Maberini al Seminario di Sarzana). Una
ventina d’anni orsono mi giunge una telefonata dal nostro don Lucio Felici
(quanto mi manchi Lucio), allora ministro delle Finanze della provincia toscana
dell’Ordine Orionino: “Romano, ma chi era don Alberto Beggi? Sai, ci ha
lasciato dei beni e il palazzo di Lucca che non riesco a vendere perché le
Belle Arti mi stanno mettendo molte difficoltà”. Ma chi
era don Alberto Beggi, nipote di don Frontelmo? Intellettualmente dotato e con
una profonda passione per tutto lo scibile umano amava l’arte e,
soprattutto, la poesia. I
suoi amici le hanno raccolte in una prima edizione e poi in una seconda e
presto in una terza. Il titolo: “Spine di rose”. In questa poesia si
presenta da sola.
Apua
Versilia Mater,
mia terra di Luni, Ortonovo….
Vita di cenere soffiata (lui)
per la cattedrale dell’essere (Dio)...
fanciullo indifeso
sulla tavolozza del mondo,
con poesia ed arte
affina la mano
che dà con amore…
(le sue poesie non sono
semplici, per questo ne abbiamo pubblicate poche sul Sentiero)
* Veronica Cybo Malaspina
Spinola è un personaggio “famoso”. Su di lei film e libri (“La Contessa di
san Giuliano” di D. Guerrazzi). Fece uccidere l’amante del marito al quale
inviò la testa mozzata, ma poi pentita fece vita monastica e fu santificata. La
giustizia decapitò solo i due sicari massesi. Le sue spoglie nel duomo di
Massa, il suo fantasma nel castello di san Giuliano.
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ACQUA A CATINELLE
di Anna Maria Tarolla
< Accidentaccio
– imprecava Rosanna, correndo sotto una pioggia torrenziale, con i libri sotto
il braccio e la borsa a tracolla – proprio adesso doveva piovere...questa è
sfiga!> Il suo orologio segnava le tredici. Raggiungere la fermata del bus
le parve impossibile. Fortunatamente inforcò l'autobus al volo. E si sistemò in
fondo al corridoio. Notò gli sguardi dei passeggeri appuntarsi su lei. E se ne
compiacque. C'era abituata. Era talmente bella! Questa volta però la scrutavano
in modo insolito; parevano spilli che volessero infilzarla. Solo allora Rosanna
si rese conto del vestito leggero che indossava. L'acqua l'aveva reso
trasparente con le forme del suo corpo ben visibili. Come dettava la moda,
anche lei non risparmiava slip ridottissimi e reggiseni a balconcino. Quel
giorno poi aveva scelto un kit di colore rosa. Figurarsi lo spettacolo!
Tentando di coprirsi in qualche modo, incrociò le braccia sul petto e appoggiò
i libri all'altezza del pube. Si vergognava da morire, tra quei viaggiatori che
conosceva bene, e con i quali condivideva il tragitto ogni giorno. Così alla
prima fermata scese. Dove poteva andare in quello stato? E sua mamma, non
vedendola, si sarebbe preoccupata? Doveva togliersi dalla strada. Si rifugiò nel
primo portone che trovò aperto. Nel palazzo nessuno transitava. In quell'ora
prandiale, dai pianerottoli giungevano soltanto rumori di piatti e voci di
commensali. Rosanna si sistemò sopra uno scalino. I gomiti posati sulle
ginocchia e il mento tra le mani. Per studiare come uscire dalla situazione. Di
lì a poco una arzilla vecchietta varcò il portone. < Cosa ci fai qui? -
domandò alla ragazza – ti senti male?> Rosanna, frastornata, non ebbe la
forza di rispondere ma si limitò a fare cenno di no col capo. < Cosa ti è
successo- le chiese con aria preoccupata la donna – qualcuno ti ha fatto del
male? Fammi vedere, ti hanno schiaffeggiata? Hai la faccia rossa, il vestito
sgualcito e i capelli arruffati e fradici. Vuoi che telefoni a tua mamma o
chiamo il 118? Ma dimmi intanto come ti chiami.> < Non è niente – la
rassicurò Rosanna – mi sono soltanto bagnata. Stia tranquilla.> < Ti
hanno violentata? In una villa? E chi ti ci ha portato?> Accidenti alla
nonnina sorda! < Ma no- aggiunse la ragazza, alzando la voce al massimo –
sono uscita da scuola e non avevo l'ombrello. Non vede com'è bagnato il
vestito?> < Ti hanno tramortito? Oh mio Dio!> esclamò la donna,
terrorizzata. < Ma non è successo niente. Appena il vestito si asciuga me ne
vado. Perciò mi sono rifugiata nell'androne.> < Ti hanno scaricato sul
portone? Ma allora stai proprio male.> urlò Rosanna. La
nonnina si diresse all'ascensore. < Che liberazione! - sospirò Rosanna -ci
mancava solo la vecchietta sorda come una campana.>La pausa durò pochi
minuti. Arrivò, a sirene spiegate, un'ambulanza. La ragazza fu caricata sulla
lettiga e da lì all'ospedale. E poi tutte quelle domande sulla presunta
aggressione, sulla villa, e così via. La vecchietta, fin troppo premurosa,
aveva combinato un bel pasticcio. Ridimensionato soltanto quando si
presentarono al Pronto soccorso i genitori di Rosanna, avvisati da alcuni
passeggeri testimoni della breve comparsa della ragazza sul bus. Malgrado
l'episodio increscioso, Rosanna non ha mai odiato l'acqua. Tutt’altro, lei con
l'acqua ha un feeling del tutto speciale. E’ istruttrice di nuoto. E va sovente
in crociera con suo marito che fa lo skipper.
Però non dimentica di portarsi dietro un ombrellino. Non vorrebbe
trovarsi impreparata. Anche perché le sue forme, a cinquant'anni suonati, non
sono più tanto perfette... come quelle di una volta.
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Le perle di saggezza di zia Edmea
di Marta
Le perle di saggezza di zia
Edmea
La ricordo la zia Edmea,
sempre intenta a lavorare all’uncinetto, pizzi ricami e cucito, sempre in
movimento, la casa, i miei cugini, Claudio e Sandra, la scuola e poi la
chiamavano spesso a tutte le ore, a fare le iniezioni a domicilio, per chi ne
aveva bisogno. Sempre disponibile con tutti,
generosa, aveva sempre un regalino per noi nipoti, ed eravamo abbastanza un bel
gruppetto; regalava mantelline, guantini e calzettoni; berretti scialpine e
maglioncini, sempre belli e con lane dai colori brillanti, sempre azzeccati per
ognuno di noi. Le volevamo tutti un mondo di
bene, via via una caramella per addolcirci la bocca e qualche racconto, che lei
aveva sempre da raccontare, facevamo a gara chi arrivava prima ad ascoltarla. Dotata di buon senso che non le veniva dalla cultura,
perché non aveva studiato, ma da una saggezza contadina che affondava le sue
radici nella campagna dove lei era cresciuta. Di lei, mi rimangono frasi
semplici, ma cariche di profondità sulla quale riflettere. Quando ad esempio il
cugino Luigi faceva dei discorsi sull’esistenza di Dio lei alzava le spalle e
senza staccare gli occhi dal cucito rispondeva “io sono convinta che Dio esista
e se mi dicono che non c’è continuerò a crederci, perché mi fa stare bene,
punto”. Ricordo durante alcuni e lunghi pomeriggi invernali mentre mi insegnava
a lavorare all’uncinetto, preparava la merenda con fette di pane casereccio,
olio e sale oppure olio e zucchero ed a volte con la marmellata fatta da lei
(che buona che era!), poi rivolta a Luigi che nel frattempo con Claudio erano
intenti alla costruzione di una piccola barchetta, la loro passione, commentava
che affermare che l’anima esiste non deve mica esserci un professore ad insegnarmelo!
lo so da me ! Ti ricordi quando ti sei rotto il braccio cadendo dalla
bicicletta l’anno scorso?, il dolore che hai provato? Non ricordo bene rispose
Luigi. Eppure piangevi come un disperato. Ti ricordi quando ti ho offeso
davanti a tutti, che andavi alle elementari? Eccome se me lo ricordo “è una
ferita ancora aperta ", rispose la zia. "Le ferite dell’anima sono
eterne; quelle del corpo non lasciano traccia perché il corpo passa, ma l’anima
resta ed è eterna”. Quelle parole mi sono rimaste impresse nella memoria ed
ancora le cito in qualche discorso; come pure quando la zia parlava
dell’invidia. “Non ti devi preoccupare quando qualcuno ti parla alle spalle
perché vuol dire che tu gli stai davanti”. Zia Edmea era una donna alta
florida, una bella faccia, sorridente, una bella voce sonora, scandiva bene le
parole anche se dette in dialetto, si capiva bene quello che dicevano. I suoi
vestiti preferiti, a fiori grandi che non appassivano mai, sempre odorosi di
bucato. La zia Edmea è stata una zia
speciale per noi, una fonte da cui imparare la vita arricchendoci tutti con le
sue preziose perle di saggezza. Purtroppo la modernità ne ha fatto una stirpe
in via di estinzione e forse i giovani non saprebbero coglierne il grande valore e capire la saggezza che si
celava ( ma non troppo ) dietro quelle semplici espressioni.
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LA MIA PRIMA E GLORIOSA ESIBIZIONE SUL PALCO
di Patrizia Giacchè
Abitavo a La Spezia, con
precisione a La Chiappa, una delle tante periferie della Città. Correva il 1964
ed io, all’età di 9 anni, iniziai con la prima lezione di canto in centro
città. Dove una bravissima maestra sig.ra Nelly Corbellini, anche maestra di pianoforte,
impartiva lezioni a grandi e piccini in uno dei locali di un palazzo. Ero molto appassionata al canto e, a detta
dei miei famigliari, ero dotata di innate capacità canore. La mia maestra
instaurò con me, da subito, un rapporto di benevolenza e di grande stima. A tal
punto dà spronarmi a perfezionare sempre più la mia vocalità. Tanto da
diventare molto fiera di me. Ero
felicissima nei giorni in cui si svolgevano le lezioni, e tutto mi appariva un
sogno; tanto da comprendere che il canto regalava la possibilità di esprimere
al meglio le proprie emozioni. Le cantanti del momento, che piacevano a me,
erano sicuramente Rita Pavone, Caterina Caselli e Mina. E mi impratichivo con i
loro repertori. Ero talmente
appassionata che ovunque andassi cantavo. Persino dai nonni paterni che
abitavano in una delle case popolari della Città, nei pressi di Piazza Brin.
Ero solita recarmi sul terrazzino del loro appartamento all’ultimo piano, che
si affacciava come del resto le altre case vicine, nel cortile comune. Spronata naturalmente anche dalla nonna, che
era orgogliosissima. Dopo la mia espressione, partiva uno scroscio di applausi.
Ed era gratificante vedere tutte le persone sui terrazzini, ed ascoltarne i
commenti. Devo dire che i miei genitori nutrivano dell’interesse affinché
continuassi questo percorso. Anche se papà era molto geloso, che io mi
affacciassi in questo mondo. I mesi si susseguirono e giunse Maggio, il mese in
cui avrei ricevuto la mia Prima Comunione. Durante questa circostanza di
preparativi, la mia maestra mi comunicò la sua intenzione che io partecipassi
al primo Concorso canoro. E ciò sarebbe avvenuto nel mese di Giugno. Non stavo nella pelle. Ed anche la mamma, che
solitamente mi accompagnava, apprese ciò con felicità ed approvazione. Ricordo
benissimo che fui invasa da un’emozione straordinaria e da tanto stupore.
Decidemmo assolutamente per il sì. In famiglia, vi erano dei canoni precisi, in
cui non era permesso lo sfarzo. Per cui anche il vestito per l’esibizione
comportava disagi. La mamma decise di rivisitare il vestito della Comunione ed
annesse scarpe. Dovevo comunque essere all’altezza della situazione. Dovevo salire sul Palco del Gran Caffè
Concerto Margherita di Viareggio …. Non dovevo essere criticata! Diciamo che le
modifiche al vestito tornarono a pennello. Giunse il giorno stabilito e
l’emozione da tagliare a spicchi. Assieme alla nonna materna, che in parte mi
aveva allevata, partimmo in treno alla volta di Viareggio, dalla stazione di La
Spezia. Praticamente già pronta come se avessi dovuto gareggiare su di una
carrozza dello stesso. Arrivammo a Viareggio nelle prime ore del pomeriggio e
ci incamminammo lungo mare verso il Concerto Margherita. All’improvviso fummo
invase da un acquazzone che in un attimo ridusse il vestito in uno straccio. Visto
poi il tessuto che era di voile. Cercammo un po’ di riparo, ma oramai il
misfatto era avvenuto. I miei capelli tutti a boccoli, risultavano come dopo un
tuffo in mare, il vestito incollato al corpo, le scarpe bianche cambiarono
colore. I sogni in un attimo svanirono e tutto apparve irrimediabile. Le nostre gambe, ci avevano intanto portate,
in prossimità del lussuoso locale. Magnifica la struttura. Due guglie laterali,
svettavano nel cielo ed impreziosivano il fabbricato. Tutto da sogno. Da subito
la nonna chiese informazioni anche per decidere il da farsi, ad una incaricata
la quale ci tranquillizzò. Si rivolse a me, dicendomi che mi avrebbe
accompagnata, in uno dei camerini degli artisti affinché mi asciugassi i
capelli. La lavanderia mi avrebbe asciugato il vestito e le scarpe. Rimasi in
mutandine anche quelle bagnate. Ma non ricordo come andò. E tutta per
sprovvedutezza di mamma e nonna. In men che non si dica mi ritrovai come ero
partita. Solo i boccoli non c’erano più. Potei così fare la prova con
l’orchestra. Passati i momenti di impaccio constatai con piacere quanto le
circostanze avverse possano essere risolte, se l’ambiente in cui ti trovi, è
dotato dei giusti confort. Bellissimo questo Caffè Gran Concerto! Bambina della
periferia, mai avevo visto tanto brillio
e tanto lusso. Intanto si faceva sera e gli organizzatori iniziarono a
disporre tutti i parenti dei cantanti nella sala. Noi esordienti nelle prime
file. Il salone di lato era aperto e dava sulla passeggiata del lungo mare. Io,
portai come brano “Perdono” di Caterina Caselli e non nascondo di essere stata
in apprensione per questo debutto …. Erano le 21 ed era ormai tutto pronto.
L’orchestra era posizionata, le persone sedute nella grande sala; ed
all’esterno, già si erano accalcate tantissime persone che, in piedi, avrebbero
assistito alla serata. Tutto era illuminato ed il palco era addobbato da
un’infinità di fiori. Mancava il presentatore ed avrebbero dato il via alla
serata. Rullo di tamburo, sul palco apparve Giovanna, la cantante di Viareggio,
ai suoi primi esordi. Quella sera però fu la presentatrice. Da subito si è dimostrata simpatica e
spigliata nel presentare i concorrenti. Mettendo tutti a proprio agio. In quel
modo rompemmo il ghiaccio e tutto diventò più naturale. All’esterno oramai, vi
era una muraglia di persone. A noi piccoli cantanti, non fu dato il numero per
la nostra performance. Ma ricordo benissimo che fui la quarta, dando il meglio
di me stessa. Ricevetti tanti applausi e tanti brava, bravissima. Non vi era
una giuria. Era il pubblico che decretava vincitore, il più meritevole. Ad ogni
persona veniva consegnato un cartoncino dove veniva scritto il nome del
prescelto. Tutt’intorno vigeva una commozione straordinaria. Erano momenti in
cui la gente aveva voglia di elogiare, di complimentarsi, di sorridere, di
esternare al meglio la felicità del momento. Assistetti così all’esibizione di
ancora 13 bambini. Devo dire che il sonno mi attanagliava la mente, ma cercai
di resistere. Il Concorso finì alle 24,30 ed a quel punto ci fu l’attesa della
premiazione., Tra la folla riuscii ad individuare con tanto amore, mio papà,
che dalla spezia era arrivato con la “500” della Ditta, per prelevarci. Ecco,
era giunto il momento della proclamazione del vincitore. Il cuore batteva
all’impazzata e tutti fremevano per
l’apprensione. Giovanna aveva tutti i riflettori puntati su di lei, stava per
svelare il vincitore. Il concorso “Margherita d’Argento” è stato vinto da
Giacchè Patrizia!!!!! Vinsi così, come
trofeo, una margherita d’argento spettacolare! Gioia, commozione, applausi e
tanta, tanta felicità. Tutto idilliaco, quasi irreale. La giornata che aveva
avuto un risvolto disastroso, è terminata esultando per il grande trionfo.
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Il Traguardo
di Nuccio Bottiglioni
Mi sono
gettato la vita sulle spalle
come
giacchetta leggera
e ora
scendo a valle
sul far
della sera.
Come sarà
la notte?
Un sogno,
una follia,
illusioni
interrotte,
o dolce
melodia?
A lungo
ho camminato
ma il
traguardo
non l’ho
ancora incontrato.
E’ al di
là del mio sguardo.
Con questa poesia volevo
ricordare una persona della quale abbiamo più volte ospitato sul Sentiero le
sue poesie, si tratta di Antonio Thellung conosciuto a Roma perché proprietario
della casa dove per alcuni anni ha abitato mio figlio Giorgio.
Purtroppo Antonio e sua Moglie Giulia a causa del Coronavirus un mese fa ci
hanno lasciato dopo 70 anni passati insieme. Antonio Thellung nella vita ha
svolto numerose attività, fu 2 volte campione italiani di rally, pilota
d’aereo, fondatore di comunità familiari, assistente di malati terminali,
scultore, pittore e poeta. Ha scritto 25 libri tra cui alcuni saggi di
teologia. E’ stato un cattolico
autentico ma anche un figlio genuino del rinnovamento aperto del Vaticano II,
che non si è mai accontentato di norme separate dalla realtà.
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