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In ricordo di Don Lavaggi
di Enzo Mazzini
Enzo per Don Lavaggi
Lunedì 1 marzo io, mia moglie
e l'amica Mariella siamo andati a far visita a Don Domenico Lavaggi. Le sue
condizioni negli ultimi giorni si erano aggravate, ma noi non potevamo andare a
trovarlo causa quel dannato Covid. Finalmente, lunedì la nostra è diventata
"zona gialla" e quindi abbiamo potuto coronare il desiderio di andare
a far visita al nostro cugino Don Domenico.
Debbo dire che abbiamo vissuto un'esperienza davvero eccezionale che
ci ha riempito di dolore ma, nello stesso tempo, anche di profonda emozione.
Don Domenico non poteva parlare ma, con i gesti della mano e del viso, riusciva
a trasmetterci i suoi sconfinati sentimenti di affetto, la sua profonda
commozione ed altri messaggi ancora. Lascio immaginare il nostro stato d'animo
quando lui continuava ad inviarci la sua benedizione ed a stringere le nostre
mani. Avremmo voluto gridare per invocare l'aiuto di Gesù e Maria che Lui ha
sempre amato e servito ed ai quali ha dedicato la vita! Chiederlo con tutte le
nostre forze. Capivamo che gli sarebbe restato poco tempo e quindi non
riuscivamo a staccarci da lui. Infatti è volato in cielo poche ore dopo il
nostro commiato. Neanche ci stesse aspettando! Caro Don Domenico, quanto ci
manchi! Sarai sempre il nostro custode e protettore e dal Paradiso veglierai su
di noi. Tu che ci hai sempre voluto un mondo di bene, sentimento che abbiamo
sempre ricambiato. Non eri un cugino: eri un fratello, eri il nostro angelo
protettore! Quanti sono i momenti commoventi che riaffiorano alla memoria e che
riviviamo come se stessero accadendo ora! Come non ricordare la meravigliosa
giornata vissuta insieme allorché con noi e Piergiuseppe sei venuto a Roma per
battezzare la nostra nipotina Giulietta! Si, perché tu sei stato sempre
presente nelle tristi e nelle liete vicende della nostra famiglia. Ebbene
durante il lungo viaggio ci hai arricchiti col racconto di molti episodi e
momenti davvero commoventi della tua vita sacerdotale, come quello dell'ex
partigiano di Levanto che durante la guerra di Liberazione ha fatto sempre da
collegamento fra Levanto ed i partigiani che stazionavano sulle colline,
rischiando ogni giorno la vita. Ebbene, ai suoi funerali non c'era nessuno:
solo tu ed alcuni parenti. Allora, tu non hai avuto esitazione alcuna: dopo la
cerimonia funebre sei corso, come una furia, nel bar che era pieno di tuoi
parrocchiani e ti sei scagliato contro di loro per la loro irriconoscenza.
Loro, in un primo momento, hanno pensato che tu fossi uscito di senno ma poi,
una volta chiarita la motivazione del tuo comportamento, hanno capito e
convenuto che tu avevi perfettamente ragione e che loro si erano comportati
male, tanto da chiedere pubblica ammenda. Ma tutta la tua vita sacerdotale è
stata un susseguirsi di episodi toccanti e noi, lettori del
"Sentiero" abbiamo avuto l'opportunità e la fortuna di leggerne
parecchi. Tu ce li raccontavi firmandoti come "Domenico Lavaggi, prete,
vostro conterraneo" e sono davvero tanti gli insegnamenti che tu hai
voluto trasmetterci e che noi portiamo nel nostro cuore e di cui ti saremo
sempre grati. Quale arricchimento! Voglio ricordarne soltanto due, per carenza
di spazio a disposizione: 1° - "Ero cappellano alla OTO Melata quando,
visitando lo stabilimento come facevo ogni settimana, un sindacalista mi ha detto:
"Dobbiamo fare un'assemblea per tutti gli operai della fabbrica per le
condizioni sanitarie; abbiamo chiesto alla direzione l'uso del salone e ce lo
ha negato". Io ho risposto al sindacalista: "Perché ti
preoccupi? La chiesa di Santa Teresa è a
meno di 100 metri da qui e vi può accogliere tutti. Io la apro e vi aspetto ". Secondo le regole ecclesiastiche avrei dovuto
togliere il Santissimo Sacramento ma non l'ho fatto. Quando tutti gli operai si
sono accomodati in chiesa ho detto loro: "Avrei dovuto togliere Gesù
dall'altare, ma non l'ho fatto perché volevo che partecipasse all'assemblea un
'Lavoratore speciale' di nome Gesù ". Alle mie parole è seguito un
applauso generale: non a me ma a Gesù presente in mezzo a loro".
2° - "Quando il Vescovo mi chiese se ero disponibile per andare parroco a S.
Andrea di Levanto, mi sembrò di essere finito in un mondo irreale, diverso dal
mondo dei quartieri popolari e delle fabbriche. Ma poi, un sabato sera, dopo
aver celebrato la Messa, una giovane signora che conoscevo da quando ero curato
e che era innamorata di colui che ora è suo marito mi disse: "Domani vado
a Lourdes con il treno U.N.I.T.A.L.S.I. con i malati ed i pellegrini, cosa ne
diresti di venire con noi?". Io risposi: "Posso venire, ma non come
prete; vengo alla pari di voi che lavorate al servizio dei malati ". E
così ho fatto domanda a Genova esprimendo il mio desiderio di essere accettato
come barelliere e non come prete. Questo perché volevo essere prossimo,
diversamente da quanto avevo fatto fino ad allora. Sapevano che ero prete
soltanto quelli di Levanto, pellegrini e personale di servizio, ma non gli
altri. Tutto ha funzionato bene fino al servizio successivo quando era in programma la
celebrazione della Messa alla grotta. Come al solito avevo portato nella
valigia il camice e la stola per le celebrazioni eucaristiche e anche quel
venerdì mi ero nascosto tra i sacerdoti che concelebravano, perché non mi
vedessero. Quel giorno il mio turno per andare a pranzo era il secondo e, aspettando
l'ora, mi misi nella sala da pranzo degli ammalati per servire loro acqua e
vino. Fui avvicinato da un giovane tetraplegico in carrozzella che mi
disse: "Lei ci ha fregati tutti". Io risposi: "Fino a ieri mi
davi del tu ed ora perché mi dai del lei?". Mi rispose: "Perché lei è
un prete. L'ho vista concelebrare la Messa insieme agli altri sacerdoti".
Io gli chiesi che cosa cambiava e lui mi rispose che erano quasi vent'anni che
non si confessava e aggiunse: "Se sei un prete portami fuori e
confessami”. Questa è stata un'esperienza che mi ha fatto dire che bisogna
servire amando Gesù e che bisogna amare il prossimo come Lui ha amato noi. Naturalmente sono tornato a Lourdes con la stessa organizzazione per 15 anni di
seguito, ma tutti ormai sapevano che ero un prete ma facevo anche il barelliere
come il primo anno. Sono così diventato il confessore di tutti: medici,
personale e malati si confessavano da me. Ero un prete mascherato ma sono stato smascherato e questo mi ha fatto piacere
e capire che si può servire il prossimo in mille modi diversi: pregando,
ascoltando e lavorando". Questo era
Don Domenico! Caro Don Domenico, tu hai dedicato l'intera tua vita al Signore,
amando il prossimo come fratello ed essendo sempre al suo servizio. Quante
volte hai chiamato tua mamma, la cara zia Leonì, per chiederle di aggiungere un
posto a tavola perché c’era qualcuno che non sapeva cosa mangiare: un
mendicante incontrato per strada: un povero per noi, un fratello per te! La tua
infatti è stata sempre una vita di servizio o, per meglio dire, al servizio. Tu
hai sempre avuto una parola buona per tutti, sempre pronto ad ascoltare i loro
problemi che poi facevi tuoi.
Non per niente hai impiegato tutte le tue energie per coronare un tuo sogno di
sempre: aiutare i malati, specialmente i giovani. Ecco perché hai dato vita ad
una grande struttura: Casa Santa Marta o, per essere più precisi,
all'associazione ONLUS Gi.S.A.L. - Centro Assistenza Disabili e Casa Famiglia S.
Marta per disabili con disagio psico-fisico. Ma quanti sacrifici! Ti ricordi
quando avresti dovuto corrispondere alla ditta costruttrice una forte somma e
non avevi il becco di un quattrino? Hai bussato a molte porte ma nessuno ti ha
aperto. Allora sei andato in chiesa a chiedere aiuto alla nostra Madre Celeste
e ti sei messo a pregare, piangendo. Proprio in quel momento è squillato il tuo
telefonino: eri stato esaudito! Una signora, credo di Genova, ti comunicava che
era pronta ad aiutarti. E poi dicono che non esistono i miracoli! Ma tu eri anche
un grande musicista: come non ricordare la commovente Messa che tu stesso hai
musicato ispirandosi agli spiritual americani? Piuttosto, dove è finita?
Qualcuno può rintracciarla? Era semplicemente meravigliosa! Anche il coro da te
formato e diretto era stupendo. Quando
io venivo a farti visita ed assistevo alla S. Messa ne rimanevo sempre
estasiato. Insomma tutto quello che tu facevi riusciva sempre alla perfezione!
E riuscivi a fare veramente tutto: anche a seguire i giovani, a giocare al
pallone con loro e con loro andavi anche a vedere le partite. Fu proprio in
queste occasioni che io conobbi il caro amico Italo Lunghi che era uno dei tuoi
giovani ed ora è direttore di Tele Liguria Sud ed al quale spesso mi
rivolgo ed è per me provvidenziale nel trasmettermi le omelie del Vescovo da
inserire sul Sentiero. Come vedi, Domenico caro, hai seminato davvero tanto e
la tua esistenza è stata una luce per tutti quelli che hanno avuto la fortuna
di conoscerti, frequentarti e di cogliere un'infinità di tesori che tu
possedevi e ridistribuivi a piene mani. La Madonna del Mirteto, di cui sei
stato sempre grande devoto, ti è stata sempre vicina, a te che sei stato un
grande operaio nella vigna del Signore e non ti sei mai stancato di spargere
seme buono con le tue opere di bene.
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Don Lavaggi
di Mariella
Un pensiero per una persona
speciale.
Il mio ricordo di don Domenico Lavaggi, ancora troppo recente per non essere
doloroso, posso trasmetterlo così: ti guardava dritto negli occhi cercando di
liberare il meglio che l'altro aveva dentro di sé, senza altro pensiero che non
fosse quello di capirti.
Vorrei dunque ricordarlo come un albero : dritto, svettante verso il cielo,
forte e con radici solide; poteva essere scosso da intemperie ma restava saldo
e dai suoi rami potevi cogliere frutti dolci e nutrienti: erano consigli,
conforto, presenza, consolazione, generosità, comprensione, perdono. Ne abbiamo
colto tutti, noi che lo abbiamo amato. Ed ora, che l'albero è abbattuto,
possiamo vederne e misurarne la grandezza.
Abbiamo fatto la nostra corsa, caro don, con le regole che ci hanno mantenuti
in gara; è stata una strana corsa, senza provare il percorso. Quanta strada!
Grazie di aver corso con me.
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Relazione storica sui Vincenziani. (prima parte)
di Egidio Banti
Proseguendo
la pubblicazione degli atti del convegno svoltosi a Sarzana nell’ottobre scorso
e dedicato a padre Vincenzo Damarco, riportiamo la prima parte della relazione
storica di Egidio Banti sulla presenza in Val di Magra dei religiosi
Vincenziani, ai quali apparteneva il padre Damarco.
La Casa della Missione di
Sarzana è stata una delle prime istituzioni vincenziane nell’Italia settentrionale.
La sua storia si collega molto bene con quella dei tanti padri che vi hanno
prestato il loro servizio e in particolare con quella del padre Damarco. La
presenza dei preti della Missione iniziò in Piemonte e in Liguria già nel
Seicento, quando san Vincenzo de’ Paoli era ancora vivo. A Genova erano
presenti nel 1645. A Sarzana arrivarono invece nel 1735, un periodo nel quale
la Chiesa già stava puntando molto, per ragioni sia pastorali sia sociali, sul
ruolo dei “preti della missione”, ai quali molti vescovi affidavano le
“missioni al popolo”, con funzione di predicatori, ed anche la formazione del
clero. A tali obiettivi, che erano anche le richieste dei vescovi, preoccupati
per la scarsa efficacia formativa dei loro seminari, si deve però aggiungere l’impegno
di carattere sociale e caritativo, che, imperniato sul cosiddetto “quarto voto”
(“donare la vita nel servizio”),
uniformò presto le varie articolazioni vincenziane: dai preti della missione (chiamati
anche “lazzaristi, da quell’ospedale
di Saint-Lazare di Parigi che fu una delle loro prime sedi) alle diverse
diramazioni femminili (Figlie della Carità e, a Sarzana, anche Suore della
Carità di Santa Giovanna Antida Thouret), per arrivare poi al volontariato
vincenziano, rilanciato nell’Ottocento proprio a Parigi dal beato Federico
Ozanam. Sarzana era, sin dal medioevo,
sede vescovile immediatamente soggetta alla Santa Sede e residenza del vescovo
conte di Luni – Sarzana. La sua importanza era notevole, non solo come “erede” di
Luni ma anche per la posizione strategica lungo il tracciato della via
Francigena, motivo della considerazione in cui la tenne sempre Genova, quale
“testa di ponte” militare e commerciale oltre la Magra, quindi in terra
geograficamente non ligure. Sull’arrivo in città dei preti della missione, se è
certo l’anno, il 1735, altri aspetti lo sono di meno. Il padre Luigi Mezzadri,
nel secondo volume della Storia della
Congregazione scritta insieme a Francesca Onnis, collega la venuta a
Sarzana con quella in un’altra parte della Liguria, a Savona, dove sarebbero
stati chiamati da un religioso, fra Domenico Carafati. Da Savona, Mezzadri dice
che arrivarono a Sarzana nel mese di marzo 1735. L’ex alunno sarzanese Massimo
Bologna, nello scritto Conosci il tuo
collegio, indica invece la data del 26 luglio. A sua volta il Semeria
indica una data ancora diversa, l’11 agosto 1735, precisandola però come data
dell’erezione canonica dell’istituzione, ottenuta, scrive, “dopo non poche difficoltà”. Non è però
chiaro a quali difficoltà si riferisca l’autore, tanto più che in quel momento
era vescovo di Luni-Sarzana il genovese Giovanni Gerolamo Della Torre, alla cui
famiglia apparteneva un personaggio molto importante nella storia della
congregazione della missione: il padre Bernardo Della Torre, visitatore di Roma
e del Lazio ed inoltre valido e rinomato architetto. Inizia comunque tra la fine di luglio e i primi di agosto 1735 il
lungo cammino della presenza vincenziana a Sarzana. I primi arrivati furono sei
sacerdoti e tre fratelli coadiutori, guidati dal superiore Raimondo Rezasco.
Bologna riporta che il primo alloggio fu una casa, presa in affitto, “alle porte della città, verso la Magra”. L’edificio,
forse nell’attuale quartiere della Crociata, doveva essere abbastanza vasto, se
già la sera del 6 settembre 1735 un ufficiale spagnolo ne intimò lo sgombero per
usarlo quale alloggio delle sue truppe. Lo sgombero, di fronte alle reazioni
dei padri, sembra non ci sia stato, ma è verosimile la successiva richiesta al
vescovo di una sistemazione diversa, anche perché in quella posizione fuori le mura
non era conveniente allestire una casa per attività di formazione e per
esercizi spirituali. Così nel
1736 i missionari poterono trasferirsi in città, nel palazzo Casoni, lo stesso
dove pochi anni dopo, nel 1756, sarebbe nato il futuro cardinale Giuseppe
Spina. Nel 1742, grazie a un lascito dalla famiglia del cavalier
Carlo Geirola, i religiosi poterono però prendere in affitto la
Villa della_Monta’, cosiddetta dal luogo dove sorgeva la salita, o appunto
monta’, per il paese di Sarzanello, e
vi entrarono il 12 maggio. La villa era detta anche della Pavona, da un’immagine che vi era dipinta: nome questo poi passato,
insieme ad un rifacimento dell’immagine, al vicino edificio delle Suore della
Carità di Santa Giovanna Antida Thouret, oggi sede della scuola cattolica “Maria Immacolata” detta del Pavone. C’era
comunque bisogno di spazio, dal momento che le attività formative erano in fase
di crescita, e l’edificio non era sufficiente. Si pensò pertanto prima ad un restauro,
poi a un vero proprio ampliamento, il cui progetto venne affidato al già citato
Bernardo Della Torre. Il vescovo intanto affidava sempre nuovi
compiti ai missionari, in particolare per l’educazione dei giovani meno
abbienti. Non esistevano scuole pubbliche, i precettori privati avevano costi
proibitivi per il popolo e il seminario vescovile, esistente da tempo, non
poteva aprirsi più di tanto a giovani e giovanissimi interessati ad istruirsi
ma non ad abbracciare la vita ecclesiastica. Così venne aperto il convitto, poi
trasformato nella casa-collegio della Missione, carissima a tutti gli abitanti
della Val di Magra, e tale rimasta nella denominazione popolare anche oggi. Le
continue operazioni militari di quel periodo coinvolsero però sia Sarzana sia
Sarzanello, che si trovavano in posizione strategica. Dal 1740 era in corso la
guerra di successione austriaca – nella quale la Repubblica di Genova
combatteva a fianco della Francia contro le truppe imperiali austro-russe – e
lungo le strade attorno a Sarzana sfilavano le truppe delle opposte fazioni. Già nel 1745, quando i lavori di
ampliamento erano ancora in corso, circa trecento soldati presero alloggio
nella casa, e i religiosi furono costretti a trasferisi nel seminario vescovile.
Ma il pericolo maggiore fu negli anni finali della guerra, tra il 1747 e il
1748, quando il Levante ligure fu coinvolto in pesanti operazioni militari. Nel
1747 l’intera
collina di Sarzanello, dominata dal forte detto di Castruccio, fu circondata,
assediata e bombardata dalle truppe imperiali del generale Wocter. Cessata la
battaglia, il maresciallo Luis Armand Vigneron du Plessis duca di Richelieu,
pronipote del cardinale omonimo e comandante delle truppe alleate, pensò così
di trasferire più lontano l’intero villaggio: ricostruirlo dov’era avrebbe
comportato problemi per una migliore difesa della fortezza. Furono così rase al
suolo sia le case residue, sia la chiesa di San Martino, riedificata poi in
località Pianpaganella. La cappella dei missionari svolse pro tempore funzione di chiesa parrocchiale, accogliendo il SS.
Sacramento. Eppure non era
mancato il pericolo di una distruzione della casa stessa. Un ufficiale francese
disse una volta al padre che lo accompagnava: "Padre, io vi voglio bene, ma vorrei che la vostra Casa fosse più
lontana da Sarzanello, per vostro maggior riposo e mio“. Poi però il
pericolo venne scongiurato e così la pagina relativa al colle
di Sarzanello del celebre “Atlante
vinzoniano”, pochi anni dopo, riporta la primitiva ubicazione della chiesa
di San Martino con l’annotazione in legenda “chiesa parrocchiale distrutta” ma, sul versante sarzanese, sia la
casa di Paolo Gerolamo Ivani, tuttora esistente, sia la “casa religiosa dei RR. Missionari”. Tutto questo contribuì non poco
a far entrare sempre di più i Vincenziani nel cuore dei sarzanesi, ed a far
“decollare” il convitto ecclesiastico, rimasto per oltre due secoli un faro di
formazione scolastica civile e religiosa per i giovani di tutta la vallata. Non
solo. Intendendo il marchese abate Francesco
Imperiale Lercari istituire una scuola per l'educazione dei giovani chierici,
egli già nel 1746 aveva affidato questo incarico ai preti della missione.
Grazie al lascito ingente di 15.700 lire liguri venne così fatto costruire il
braccio lungo del collegio (lato cortile), onde poter ospitare tutti i chierici
frequentanti la scuola. Allo scopo di mantenere agli studi i giovani le cui
famiglie non avevano mezzi sufficienti, venne così istituita un’Opera Pia
Imperiale Lercari, poi allargata in Opera Pia Imperiale Lercari – Scarabelli.
Fu una scelta importante, che in seguito avrebbe salvato le strutture formative
della Casa dalle soppressioni tentate a più riprese dalle autorità civili.
Egidio
Banti
(1 – continua)
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