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Preghiera per Tiziana
di Marino Bertocci
L'ho scritta nel 2012...ma è ancora attuale
Cosa è che le mancava? Cosa è che voleva? Tutto
sommato voleva semplicemente una casa..un marito, dei figli, una tranquillità
economica giusto per pagare le bollette senza problemi..magari riuscire a
mettere da parte qualcosa in fondo al mese..la gioia di qualche amicizia…la
serenità semplice che solo la famiglia ti riesce a dare..un lavoro..nulla di
più..proprio nulla di più… Invece che cosa ha avuto..una casa? Mah, se quella può
essere definita casa..ma lei era contenta di quella casa..un marito..e quello
era un marito? Sempre acidamente pronto alla polemica ed alla lite. I figli?
Niente figli..niente da fare..tu non hai voluto darle nemmeno quella gioia! Le
preoccupazioni per le bollette, per le rate della macchina ,troppo vicine l’una
alle altre, le aveva..eccome se le aveva..e quelle le sono rimaste ma..non si è
mai lamentata. Mai! Non ha mai detto “sono senza soldi” o mi manca questo, mi
manca quello..mai! Nella sua semplicità, nella sua bontà, nella sua tenerezza e
debolezza non ha mai recriminato..ha sempre data la sua disponibilità per
chiunque. Una disponibilità che però a volte era considerata quasi appiccicosa,
eppure era una disponibilità gratuita, che veniva dal cuore, da “quel” cuore
così grande che l’ha tradita, proprio quello che mai avrebbe pensato potesse
tradirla, un cuore così grande! Eppure proprio quel cuore l’ha tradita , l’ha
lasciata lì, in mezzo alla strada..per terra! Non sappiamo se era in un momento
di felicità o di serenità, vogliamo credere probabilmente si, perché aveva
scelto di andarsene in giro in bicicletta col marito. Probabilmente era un
momento di grazia anche fra loro, in un rapporto così burrascoso, così
nuvoloso, sempre così minaccioso di temporali che lei, però, con caparbietà,
con tenacia, con fede,con dignità ha sempre cercato di tenere unito, anche
quando sembrava che non ci fosse nulla da fare e fosse solo perdita di
tempo..la sua..invece non è così, così non è stato Tu Signore..non hai voluto!
. Improvvisamente Signore te la sei portata via! Noi non capiamo perché, non
riusciamo a capire il perché! Dio mio, Dio mio: quando saremo di fronte a te ne
avremo davvero tante di cose da chiederti, lo sai? Ora..dobbiamo subire,
dobbiamo solo accettare, ma non possiamo accettare! Perché la nostra forza
umana, il nostro limite carnale, si rifiuta di accettare quello che solo tu
riesci a capire e solo tu riuscirai a farci comprendere, quando sarà il
momento, lo so che dobbiamo aspettare, è la nostra speranza. Per te la nostra
vita non è che un soffio..lo diciamo anche nella liturgia. Siamo un filo d’erba
pronto a seccare. E’ vero Dio mio, ma un filo d’erba è comunque e pur sempre
una vita che tu hai voluta dalla tua eternità, unica ed irripetibile. Hai
voluto prenderti Tiziana, va bene… no, invece, non va bene! Per noi che non
capiamo il significato di tutto questo non può andare bene!ma va bene lo
stesso, paradossalmente, perché l’hai voluto tu e allora noi accettiamo questa
prova. Questa prova, difficile, che forse tutto sommato è anche prova di
grazia, perché se questo che oggi noi piangiamo fosse successo a qualcuno di
noi che lei amava forse Tiziana non avrebbe retto il peso del dolore. Invece
adesso, lo stiamo sperimentando ogni giorno, ci stai dando la forza per
sopportare questo dolore, che è immenso, è pesantissimo, distruttivo per noi
che siamo i suoi cognati, i suoi nipoti, per suo fratello, le sue sorelle!
Diventa un peso insostenibile per le zie, gli zii i cugini..eppure tutti lo
condividiamo nella quotidianità che è rimasta priva della sua fisica presenza.
Ma la persona che più di tutti ha bisogno del tuo aiuto, Signore, è la mamma,
la sua mamma. E’ vero..dovrebbero essere i figli a seppellire le mamme, mai il
contrario e tu sai a quante mamme , dall’inizio della creazione tu hai mandato
questa prova terribile! Una mamma che deve seppellire il figlio, il frutto del
suo amore! Una prova attraverso la quale nessuno mai, mai, mai vorrebbe passare
e mai dovere affrontare. Eppure tu Signore gliela hai mandata!, ce la hai
mandata..il dolore è troppo! Si, forse, il tempo che scorre darà anche a noi il
coraggio ed alla mamma un poco di rassegnazione..un poco…ma come si fa a
rassegnarsi a vedere la propria figlia distesa là, dentro a quella cassa. E’
vero che è solo un involucro, l’importante è quello che contiene, ma la cassa ,
che contiene qualcosa, è come il nostro corpo e anche noi conteniamo qualcosa,
conteniamo l’anima. L’anima che tu ci hai donato, lo cantiamo anche nell’ultimo
saluto funebre. Accoglila quest’anima che tu ci hai donata, perché è preziosa
ai tuoi occhi, come tutte le anime. Ma così come tutte e anime sono preziose,
così sono preziose anche le anime della mamme e dei cari che sono rimaste qui
nel dolore della quotidianità. Noi quest’ anima non possiamo dire che te la
offriamo. Perché non volevamo offrirtela Signore! Te la sei voluta prendere tu!
Tu l’hai voluta e tu l’hai presa! Non voglio pensare che tu abbia voluto
compiere un gesto cattivo, perché questo non è possibile. Tu sei l’eterna misericordia,
l’eterna bontà, l’immenso. In te c’è tutto..però, Signore, è difficile da
capire..noi non resistiamo. Siamo piegati in due da questo peso.. un peso
pesante. Lo so che se tu ci mandi un peso ci dai la forza per sopportarlo..ma è
veramente difficile riuscire a portarlo questo peso. Lei era mia cognata, mi
telefonava nei momenti meno indicati, mi chiamava nei momenti meno opportuni,
però mi ha sempre perdonato tutto , tutte le volte che le ho risposto male. Non
ha mai avuto un gesto di stizza o di ira nei miei confronti quando le
rispondevo male..e lo facevo! Mai! Io non glielo dicevo ,perché tu non mi hai
data questa capacità,…ma lei me lo diceva sempre:”marino ti voglio bene” ed io
gliene volevo, come ad una sorella più piccola, come ad una sorella, Signore! E
ho provato lo stesso dolore, lo stesso smarrimento che ho provato quando ti sei
preso mio fratello, quando ti sei preso mio babbo, quando ti sei preso mio
suocero. Li hai voluti tutti prendere Signore..e tieniteli! Li hai voluti?
Tieniteli! Io non posso dirti altro che grazie per averceli donati, per poco,
per troppo poco tempo.. Anche Giobbe, che di prove ne ha dovute affrontare, ti
ha detto grazie di tutto, il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia
benedetto il nome del Signore e noi oggi ti benediciamo Signore ma tu aiutaci a
capire, aiutaci a sopportare questo peso, altrimenti insopportabile, senza il
tuo aiuto non possiamo farcela.Che dire ora? Ormai Tiziana è con te, l’hai
sicuramente accolta assieme a te, hai aperto le tue braccia misericordiose e
ora lei può permettersi di non avere più preoccupazioni, ora queste sono le
nostre.
Ora capisco quanto è scritto : “voi non piangete per
chi è morto..ma per voi che siete vivi”.
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SPEZIA: PISCIATOIO D’Italia
di Anna Maria Tarolla
Sembrava caduto in disuso
l’antico detto: “Spezia, pisciatoio d’Italia”. Invece no! Le precipitazioni
abbondanti dei giorni scorsi l’hanno reso più attuale che mai. “Piove, Madonna, quanto piove, ma guarda
quanta pioggia viene giù …” Parafrasando
la canzone di Jovanotti, verrebbe da chiedersi se mai l’autore abbia fatto una
capatina da queste parti ed abbia colto l’ispirazione. Piove. Millimetri più o
meno. Camminare per la città diventa
impresa difficile. La testa si ripara con l’ombrello d’accordo. Ma i piedi si
inzaccherano nelle buche piene d’acqua e negli avvallamenti di lastricato dove
cimentarsi nello slalom parrebbe l’unica via d’uscita. Occorre pertanto essere
agili e allenati nel “salto in lungo”. Qualcuno ci prova. Ma non sempre è
facile valutare la distanza. Col risultato di finire nel bel mezzo della pozza.
E che dire di quando si rasenta il marciapiedi e sotto il cordolo s’è formato
un fiume? Le macchine in transito schizzano acqua addosso. Una doccia a cielo
aperto. Per Spezia la pioggia è stata da sempre una spina nel fianco. Qualche
anziano di sicuro se lo ricorda quando nel primo dopo guerra, la nostra città
venne battezzata “Pisciatoio d’Italia”. Appellativo per nulla fuori luogo. Dal
momento che la pioggia “a quei tempi” abbondava in tutte le stagioni. Senza
scampo. Un primato che ci ha resi famosi. Perché la nomea sconfinò oltre le
mura attraversando l’intero stivale. E si completò a divenire “Spezia
pisciatoio d’Italia”. Imputabile ai
marinai asserviti alla Marina Militare, che, quando facevano ritorno alle loro
case, parlando della città che li ospitava, erano soliti ripetere: “A Spezia
piove.” “Il primo ombrello - rammenta
Enzo, ex sottufficiale di Marina stabilitosi in città con la famiglia - l’ho comprato qui.
Al mio paese, in provincia di Avellino,
pioveva talmente di rado che non sarebbe servito.” Sull’antico detto un vecchio marò racconta un
aneddoto che circolava allora. Del tutto
singolare, che fa riferimento al busto del generale Domenico Chiodo, collocato
nella piazza omonima. Ed al quale, la cittadinanza riconoscente per la
costruzione dell’Arsenale, affibbiò la dedica: “La Spezia a Domenico
Chiodo”. Alcuni marinai d’origine
pugliese, parlando con i loro cari al paese ed usando il loro dialetto (dove la
sillaba finale della parola viene omessa) dicevano della città: “A Spezia a
DomenicChiov” (Alla Spezia domenica piove). E dunque gli spezzini si sono
portati dietro, per oltre mezzo secolo, questo “fardello” un po’ scomodo. Ma la
pioggia, considerata una prerogativa spezzina, forse del tutto scontata non lo
era. I mezzi d’informazione allora scarseggiavano e nessuno veniva a dirci se
altrove piovesse di più. Da un pezzo l’epiteto era caduto in disuso. I giovani
neppure lo conoscevano. Il fenomeno delle precipitazioni è cambiato. Piove, come si sa, un po’ dappertutto. I
media ci informano di nubifragi (spesso dannosi) che si riversano su tutta la
penisola. Sarebbe il caso di sfatare il mito, dal momento che non siamo gli
unici. I Comuni e le Istituzioni si prodigano a tutela dell’incolumità dei
cittadini. Diramano comunicati di allerta meteo colorati di giallo, rosso e
arancione. Con buona pace di tutti. Nell’eventualità di sventure potranno dire:
“Ti abbiamo avvertito!” Ma noi spezzini, a questo punto, una domanda
vorremmo porla, magari sottovoce: “Ad eccezione della pausa estiva, col caldo e
la siccità, come si spiega una recrudescenza da due mesi a questa parte?”
La risposta la affidiamo agli
esperti meteorologi.
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IL MIO PASSATO REMOTO
di Romano Parodi
La
vita non è altro che una lunga perdita di tutto ciò che si ama. Ho appreso proprio ora, con immenso dolore, la notizia della morte di Giannino Cervia, nostro affezionato lettore e cugino. Sempre più
dolenti, assistiamo alla scomparsa di tanti amici e parenti. Non dovete
stupirvi quindi se i vecchi si ripetono (come me); è la disperazione che rimbecillisce.
E gli anni continuano a passare
inesorabili. Pensare. Perché nell’età in cui i ricordi invadono la vita e
l’entusiasmo è sempre più vago, non resta altro da fare. Io
ho conosciuto nove nonni, e tutti abitavano in paese. “Un tempo” gli ortonovesi
si sposavano quasi tutti fra di loro: lo dice anche Ceccardo “…Essi che il breve cerchio della valle / non
tentarono mai / pago il desio d’umil donne e de l’avito calle.” Ho
già raccontato quando il mio bisnonno Cesare, “il nonno dalla polenta”, mi portava due fettine di polenta fritta,
ancora calda, all’asilo. Suor Giuliana mi chiamava: “Romano c’è tuo nonno.. ”. Povero nonno, gli avevano detto che
mangiavo poco…. Il mio bisnonno Cesare (Parodi), cavatore, anarchico, la moglie
invece l’aveva trovata in mezzo alle cave: era dura come il marmo, diceva. Si
chiamava Palmira Calchini, sopranominata “la Cap’dina”, ed era di Miseglia. L’altro
bisnonno, materno, si chiamava Adolfo Maberini, era mite e tollerante con la
mia bisnonna Antonia Bengo, che gli dava sempre del vecchio rimbambito; chissà
dove l’aveva trovata! Da noi questo cognome non esiste. Adesso a chi lo chiedo?
Un giorno andai a mangiare da loro; avevano una piccola cucina con un camino e
una scala che portava in soffitta. Io andavo a sedermi sugli scalini a fianco
del camino, passando sopra a un fascio di
stecchi. Mio nonno, al governo del fuoco, buttò i maccaronetti, ma uno, invece
di andare dentro, rimbalzò sul bordo del paiolo e cadde all’esterno. Cercammo
invano di recuperarlo, ma niente, non si trovava; rovistammo nella cenere;
dappertutto, niente. “Vecchio rimbambito
sarà bruciato”. “No, è andato di qui e fino a che non si trova non si mangia”.
Tutti a cercare. Lo trovai io, era finito in mezzo agli stecchi. Il vecchio lo
prese, aprì la finestra, era inverno, urla, e lo sfracellò contro la ca’ d Pistoda.
In paese tutti avevano un soprannome: c’erano i Pistoda, i Canon, i Baston, i
Batiston…; ce n’erano anche di simpatici: i Mat’rdei, i Mez’bei, i Badaben, i
Carmagnola, etc, etc,. Mia mamma era dei Tabachi. Nildo la chiamava Tabaca. “Ma
se non fuma”. “lei no ma suo nonno, Davidon, lo mangiava”. L’altra bisnonna paterna che ho conosciuto si
chiamava Cristina Pellistri, mamma della mia nonna Marì, però la ricordo solo
seduta nel seggiolo di vimini. I
quattro nonni invece mi hanno accompagnato per un lungo tratto di strada. La
casa di mio nonno Luì d Bozo (Parodi) e di mia nonna Marì d la Crì (dei
Ferrari) era la mia. A mio nonno piaceva raccontare storie strappalacrime.
Sapeva a memoria quelle, lunghissime, di Pia de Tolomei e di Margherita di
Brabante. Guai a disturbarlo mentre recitava. Finivano tutte così: “Se avete cuore in petto e sangue in cuore
perché non stramulite dal dolore?” Eravamo davanti al camino. Io stramulivo
nello scoso di mia nonna e lei stramuliva addosso a me. Che nostalgia cara nonna. Gli
altri due nonni materni erano Franciosi Gino - Zighin e Maberini Camidè - la
bot’gara. Quella volta che fermai un carrarmato americano, mio nonno Zighin mi
prese a calci. Per aggirare il muraglione salivano da Fontia. Io mi trovavo
alla Lama assieme a tanti altri. Arrivavano molto distanziati l’uno dall’altro.
Io mi trovavo con la schiena appoggiata alla chiesa, ma al sentire lo
sferragliante mostro decisi di portarmi dall’altra parte, dove c’era mio nonno.
Nessun pericolo, ma il carrista si arrestò di colpo e si affacciò sorridente
dalla torretta: tutto ok - fece con la mano; ma mio nonno si era spaventato e
mi tirò un paio di calci: “a tò ito d non moscinarta!”. Povero nonno, aveva quattro fratelli
ciechi e desiderava che volessimo loro bene, così mi rammentava la straziante
cantilena di quel cieco che il giorno della Madonna mendicava ai piedi della
scalinata: “poveretto, povero cieco, / vi
sento e non vi vedo: / è una croce fino alla morte…”; poi, non contento, continuava ad infierire: “Povero cieco / nella tua notte eterna, /
chi si cura di te, chi ti governa? / Ci son le stelle in ciel, tu non lo sai: /
e la tua mamma l’hai veduta mai? / Con l’occhio spento poverino e solo / chi
guiderà il tuo triste volo?” Li
ricordo tutti con angoscia; G’ièpe era il mio referente campanaro. Diventarono
ciechi verso in dieci anni per colpa della sifilide, presa nella Legione
Straniera dal mio bisnonno, Davide Franciosi. La moglie e mamma, Clotilde
Gianoli, era sorella del mitico sagrestano di R. Ceccardi: Garibà. Non li ho
conosciuti nessuno dei tre. Garibà è morto si nel 42, ma gli ultimi anni, don
Pesce l’aveva ricoverato al Paverano. Lo ricordo per i molti detti su di lui e
per gli scritti di Ceccardo e Don Pesce : “I
strusc i pe’ chi par Garibà”, “…i
piccoli cani gli pisciavano negli stinchi”. Aveva camminato così tanto, come
Fraticello Questuante, “con la tonaca
color caffè”- dice Ceccardo, che in vecchiaia non riusciva più a
muovere le gambe”. Che
crudele destino i quattro Franciosi, “poveretti,
poveri ciechi”, oggi li guarirebbero. Erano in dieci fratelli, quattro maschi
e sei femmine. (Apieto: Paminò, Bak’iè, G’ièpe,
Gino, Algè, Parmì, Corì, Diana, Ugè, Carò). Le parole di una canzone di
Jim Morrison me li ricordano:
“Un
giorno incontrai un bimbo cieco;/ mi chiese di descrivergli il mondo, e io piangendo glielo inventai”.
p.s.
Gli americani, per passare coi carrarmati avevano buttato giù l’angolo della
chiesa e l’altare dei Pellistri. I marmi dell’altare sono finiti in fondo al
campanile e, lì ammassati, morto l’avv. Bianchi, resteranno per centinaia di
anni. Niente danni di guerra per l’Abbazia di San Lorenzo.
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UN PEZZO D’ARREDAMENTO CHE PARLA
di Marta
Penso che sia capitato a tutti
di aver visto una “Vetrinetta”,
magari della nonna o della mamma o notata in qualche casa durante una visita.
La vetrinetta occupava sempre un posto di riguardo e in bella vista in sala o
in tinello. Quella della mia mamma non era di legno pregiato, né di noce, né di
rovere, né di ciliegio, era di castagno.
Apparteneva a quello stile contadino che oggi si chiama “Arte Povera”. Ma era diventata il mobile più rappresentativo
della famiglia. Si!!!
Perché ne raccontava la storia attraverso gli oggetti messi in bella mostra
sopra i centrini di pizzo fatti con l’uncinetto. Vi trovavano posto damine di
ceramica o di porcellana, qualche pezzo di Limoges, in questo caso si trattava
di un portacenere o di un piattino. Non potevano mancare la ballerina con il
tutù, la contadinella con il paniere e con la pecorella che tornava dalla
campagna. Sempre presente era la Torre di Pisa, colorata di rosa o di azzurro,
che serviva da barometro, poiché, quando cambiava il tempo, mutava di colore. E
ancora erano presenti i ricordi delle gite turistiche ai santuari, come la
sfera di vetro con dentro l’immagine del Santo del luogo che, se agitata con la
mano, la neve si spargeva tutt’attorno con un effetto molto suggestivo, ancor
oggi bello da vedere.
Potevano essere assenti i ricordi delle prime Comunioni di tutti i componenti
della famiglia? Certamente no! Così le
bomboniere dei vari matrimoni e i sacchettini dei confetti avvolti nel tulle
con fiori di varie forme dei Battesimi. L’argenteria si riduceva a qualche
cornice portafotografie con l’immancabile foto dei miei genitori in bianco e
nero, poi ritoccata anni dopo, quando venne di moda il colore. Il ritocco di
colore la faceva sembrare dipinta a mano.
Non poteva mancare, certamente, il classico servizio di tazzine da caffè
decorate con rose antiche di mirabile disegno della famosa “Casa Ginori”, la
marca italiana migliore dell’epoca. Non si toccava mai, serviva solo quando
arrivava qualche ospite di riguardo.
A fare bella presenza c’era anche un servizio di piatti con l’orlatura d’oro
zecchino a fiorellini meravigliosi: una vera reliquia per la mamma, conservati
con la massima cura. Si potevano usare solo nelle grandi occasioni: era un
regalo che avevano fatto alla mamma. Il tutto faceva parte dell’eredità da
lasciare ai figli. Queste cose ormai
vanno scomparendo, ma… non so perché,
sento che mi mancano.
Le case moderne diventano sempre più impersonali, raccontano sempre meno la
storia e la vita della famiglia. Le vetrinette sopravvivono ancora in antiche case assieme a qualche madia o baule, oppure nell’abitazione dei pochi amanti di
questo stile di arredamento e niente più.
Non è banale affermare che la vetrinetta può ricordare ai posteri un
mondo dimenticato e “superato”, ma ricco di storia, di calore, di vita: un
mondo ovattato ed ormai ingiallito dal tempo, eppure ancora capace di
trasmettere emozioni vere.
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Un incontro
di Mila
Un paio di giorni fa, mentre
spadellavo in cucina “ora et labora”seguivo alla tv un programma sulla vita della Madonna. Erano al punto in cui
Maria incontra la cugina Elisabetta e il Cardinale che stava spiegando questo
episodio disse una cosa che non mi sarei mai aspettata, Disse che Elisabetta,
anche lei in attesa di un figlio nonostante la tarda età, ispirata dallo
Spirito Santo e sentendo muoversi nel grembo il suo bambino, capì subito che
anche Maria era incinta e che il bambino che sarebbe nato era il figlio di Dio.
Gioì per Lei e non la sfiorò neanche lontanamente l'idea di esserne gelosa. Ecco il punto. Essere gelosa o invidiosa del dono ricevuto da Maria. Per me e
per tutti voi, almeno credo, la Madonna è la Madonna, come si fa ad esserne
gelosi? Ma quando si incontrarono le due cugine quella meravigliosa storia, che
avrebbe rivoluzionato il mondo e avrebbe portato l'umanità a ricongiungersi con
Dio, era soltanto all'inizio. Una ragazzina incinta e una donna anziana che,
quando ormai aveva perso ogni speranza di poter diventare madre si era
ritrovata anche lei incinta. Che cosa ne sapeva Elisabetta di quanto grande
sarebbe diventata Maria! Una Creatura di così grande rispetto, amore, devozione
e anche umiltà, Regina del cielo e della terra. Nessun sentimento se non di
rispetto o amore può sfiorarla. Ma a quel tempo? Elisabetta avrebbe potuto
pensare:” Perché a Lei?” Ma quel pensiero non la sfiorò neanche, solo amore e
gratitudine per quella visita inaspettata, amore e gratitudine per Dio e per la
madre del suo Signore, per essere stata tra i primi a sapere che il Messia
stava per arrivare e anche per il figlio che aveva concepito in così tarda età
e, lei non lo sapeva ancora, anche lui con una grande missione: Precursore di
Cristo. San Giovanni Battista. Allora, io, tra un “ora “e un “labora” pensavo; ma perché il Cardinale avrà
tirato fuori questo accenno su di un sentimento del quale, purtroppo, soffriamo
un po' tutti! Non avevo seguito la trasmissione dall'inizio, poteva esserci
stata qualche domanda, qualche spiegazione, comunque, non è che stiamo proprio
seguendo quel comandamento che dice ….e ama il prossimo tuo come te stesso.
Probabilmente io per prima ma insomma, mi sembra proprio che stiamo peggiorando
e questo periodo di pandemia non ci aiuta certo. Io ho fatto il fioretto di almeno meditare su queste due parole: invidia e
gelosia, cercando di scagliarle lontano da me più che posso e per far questo
spero tanto nell'aiuto di Maria Santissima e perché no in quello di Santa
Elisabetta.
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