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Festa di San Pio da Pietrelcina
di Enzo Mazzini
Il 23 Settembre ricorreva la
festa di S. Pio da Pietrelcina e Don Carlo ha fatto un grande regalo ai suoi
parrocchiani di Caffaggiola, Isola e Nicola e non solo a loro. Infatti, lunedì
23 u.s., nella Chiesa di Caffaggiola, ha esposto e donato al bacio dei fedeli
una reliquia di S. Pio molto significativa: il sangue di S. Pio, dono
preziosissimo che lo stesso Don Carlo ha ricevuto dai parenti della dottoressa
che aveva a lungo assistito il Santo. Che ricchezza inestimabile per la nostra
comunità cristiana!
Ebbene, lunedì la sacra Reliquia è stata prezioso oggetto di culto per la
comunità di Caffaggiola ed analoghi
festeggiamenti solenni si sono svolti il martedì successivo nella Chiesa di
Isola e mercoledì nella Chiesa di Nicola.
Io ho partecipato alla cerimonia presso la Chiesa di Isola dove la
"corale" diretta da Nicoletta, e di cui anch'io faccio parte, ha
fatto da cornice ad una cerimonia a dir poco commovente che ha strappato anche
qualche lacrima al sottoscritto ed ai numerosi fedeli presenti, La cerimonia è
stata aperta da Angela che ha dato lettura di una ricca ed articolata biografia
del Santo.
Quindi hanno fatto seguito la recita del S. Rosario e la celebrazione della S.
Messa solenne. Molto profonda e ricca di riferimenti, l'omelia di Don Carlo
che, come sempre, riesce a rapirci con le sue forbite e commoventi
argomentazioni che di seguito riporto: "La nostra comunità cristiana oggi
vive un momento particolare, un momento che ha una storia profonda nella nostra
vita.
Molti anni fa, il 25 maggio 1887, nasce a Pietrelcina Padre Pio, Francesco
Forgione, e questa storia inizia proprio con una famiglia, una mamma e qui ci
sono tante mamme! Grazie, siete voi il miracolo della vita, anche dei papà: voi
siete il miracolo della vita, della famiglia, come lo è stata anche Maria
Giuseppa Di Nunzio, la mamma di Padre Pio, che ha sofferto tanto ed ha dato
tanto, come il padre, certo, che ha dovuto andare lontano (America) per portare
a casa il pane per sfamare la famiglia. Eppure, ecco, questo piccolo bambino
sente il desiderio di diventare frate perché aveva visto, nel suo paesino, un
frate con la barba e questo frate ha un nome: Fra Camillo da Sant'Elia. Io me li ricordo ancora i frati
questuanti: a Spezia c'era Padre Dionisio che era questuante, ve lo ricordate?
Andava in giro a cercare da mangiare per i suoi ragazzi ma questo tanti anni
fa. Anche qui, forse, c'erano i frati questuanti: erano i frati che cercavano
l'elemosina.
Ecco, Padre Pio è rimasto affascinato dalla figura, dalla barba di questo frate
e poi è rimasto affascinato, certamente, dall'amore di questo frate che ha
messo in evidenza, testimoniandolo, Gesù Cristo. Lo sappiamo bene. E sono tante
le vicissitudini della vita di Padre Pio! Lo sappiamo e non sta a noi ricordarle
in questa Eucaristia, ma sappiamo che Lui ha avuto, in modo particolare, tre
spine, così possiamo chiamarle, ostacoli, momenti dolorosissimi. Ne ha avuti
tanti ma tre sono quelli che ci possono aiutare, questa sera, davanti alla Sua
Reliquia, a riflettere sul dono grande della fede e la certezza che non siamo
soli. Ecco, questa è la prima cosa, quella che ci deve dare forza, a me prima
di tutti, e a voi. E il PRIMO OSTACOLO che Padre Pio ha incontrato è la
pressione di colui che è il male. Oggi molti mettono in discussione la sua
presenza. Parlo chiaramente di Satana, l'avversario, Lucifero.
Oggi molti mettono in discussione la sua presenza e forse anche noi, qualche
volta, come Chiesa abbiamo mantenuto un pochettino il silenzio. Se vi
ricordate, io ero piccolo, forse nel 1974/75, Paolo VI uscì fuori con quella
frase potentissima e tremenda e disse: "Il diavolo vive in Vaticano".
Il Vaticano è la casa del Papa: come dire che un Papa ammette, ma lo sappiamo,
non c'è bisogno del Papa, sappiamo che c'è la presenza di un ostacolante, uno
che ci mette degli ostacoli davanti: non vuole che tu cammini nella fede. Vuole
che tu ti accontenti della vita e fai quello che vuoi, quello che ti piace. Noi
lo sappiamo, ci cadiamo tutti, in questo ostacolo e perciò siamo chiamati, e
Padre Pio ce lo ha ricordato, alla Confessione. Ed è in tutti i modi, in tutte
le sembianze, anche quelle più brutte che non vi sto ad elencare, che si è
presentato a Padre Pio: Lo ha picchiato, Gli ha presentato figure abbastanza
particolari e Padre Pio ha sempre resistito, con la preghiera e con la fede.
Altro OSTACOLO: il peccato. Io ho letto molto su Padre Pio, tanto. Penso anche
voi. Quante volte siamo andati a S. Giovanni Rotondo! Ed ho conosciuto molte
persone, forse anche voi, che Lo hanno visto, incontrato. E molti hanno detto:
"Faceva paura, aveva uno sguardo burbero". È vero, era severo, non
cattivo, ma c'è una motivazione profonda, spirituale: Lui riusciva a vedere
ogni peccato mortale di ogni persona ed allora si irrigidiva se quella persona
non era ancora aperta, preparata a confessare tutti i suoi peccati e Lui allora
era come se avesse visto il demonio, anzi lo vedeva ed allora si inalberava. Ha
mandato via tante persone che poi sono tornate: hanno capito. Questo ostacolo è
il peccato mortale che è quella catena che lega in schiavitù la vita degli
uomini e Lui voleva spezzarla perché, si dice ed è vero, l'avversario, colui
che è Satana, sorride, ride, di fronte all'uomo che piange.
Il TERZO OSTACOLO, forse quello che moralmente gli ha fatto più male: certi
cristiani, non tutti, qualche Suo confratello frate, qualche Vescovo e qualche
volta anche il Papa, non Lo hanno capito. La storia dice che Lo hanno segregato
per alcuni anni. Segregare vuol dire che è come se Lo avessero messo in
prigione nella Sua cameretta. Gli hanno perfino impedito di celebrare
pubblicamente la Messa ed hanno detto che approfittava delle persone, del
denaro.
Io mi ricordo un episodio, come è scritto, e sono rimasto profondamente colpito
e l'ho chiesto a Padre Pio, nella mia preghiera: quando il padre Gli chiese dei
soldi per comperare il biglietto per tornare al suo paese e non glieli ha dati.
Pensate: non ha dato i soldi a Suo padre! Ma perché? Perché sapeva che Suo
padre sarebbe morto durante il viaggio ed infatti è morto subito dopo. Però
questo significava negare una cosa importante per cui ci chiediamo: "Ma
come hai fatto? Cosa hai fatto?" La risposta c'è: Lui sapeva ciò che poi
sarebbe successo. Inoltre non si è mai tenuto una lira per Sé ma cosa hanno detto?
Che si teneva i soldi destinati alla costruzione della Casa Sollievo della
Sofferenza! E pensare che erano i Suoi perché i fedeli li mandavano a Lui. Non
solo, se vi ricordate, quando Gli hanno mandato uno dei grandi dottori e non
soltanto i medici, ma anche sacerdoti inviati dal Papa, come commissari, per
verificare quello che succedeva, nelle prime visite hanno sostenuto che quelle
piaghe venivano fatte da Lui stesso con l'acido muriatico! Ecco, voi capite che
chissà quanto avrà sofferto per queste accuse infondate. Pensiamo a noi, quando
nelle nostre famiglie, persone vicine non ci capiscono. Lui senz'altro avrà
provato l'inferno! Eppure ha sempre detto: "Io sono obbediente alla mia
Chiesa". Ed ecco perché è arrivato ad avere quello che noi sappiamo:
questa santità eroica, questa capacità di essere in due posti diversi, questa
capacità di amare la gente, di perdonare, di leggere il futuro, di sorridere a
chi era in grazia di Dio, insomma una cosa immensamente grande!
Ecco, io ho avuto la fortuna, se così si può definire, una grande gioia, di
tenere per circa 30 anni, privatamente, queste tre pezzettine col sangue di
Padre Pio che mi sono state date privatamente, giù a San Giovanni Rotondo, dai
nipoti della dottoressa che Lo seguiva nelle vicende della Sua vita ed anche
nell'Ospedale "Casa Sollievo della Sofferenza" e non l'ho mai reso
ufficiale perché non si poteva, non avendo ricevuto nessun tipo di ufficialità.
Era una cosa data a me in regalo, che però l'ho sempre custodita, non so perché,
nella mia intimità ed ho notato che quella Reliquia era importante per me, per
la mia famiglia, ma anche per le persone che avvicinavo e poi, ad un certo
punto, proprio in questi giorni prima della festa, ho deciso di comunicarlo a
tutti e quindi portarLa alla venerazione di tutti perché si porta non a noi
stessi, ma si porta a Gesù, ci fa conoscere l'amore di Dio, ci irrobustisce, ci
dà forza, specialmente di fronte al dolore innocente che continua a bussare
alle porte delle nostre case, delle case dei nostri amici, quel dolore che
continua nelle malattie, continua nelle situazioni difficili, a rendere schiava
la vita dell'uomo, a investirla. Si sente quella frase: "Non so se neanche
Padre Pio può fare qualcosa alla mia vita". Ecco, ho detto: “Proviamo".
Sarà una cosa difficile: senz'altro, perché anch'io ho dovuto tribolare sia per
la difficoltà di rintracciare sanitari giusti, sia per le condizioni spirituali
procurale dal male che provoca imprevedibili ostacoli. Ecco, quello è il sangue
di Padre Pio, autentico, c'è l'autentica della Santa Sede e può essere venerato
da noi, venerato come un aiuto per la nostra vita. Ed in modo particolare quel
sangue, sappiamo l'importanza del nostro sangue, ci chiede di aprire il nostro
cuore e di offrire la testimonianza suprema della nostra vita.
Voi siete mamme, voi siete nonne, voi siete nonni, dei papà, forse molti
bambini anche del nostro territorio non lo sanno, o lo sanno ma non ci sono,
non importa, ma ne hanno bisogno, però siamo noi che, attraverso la
testimonianza della volontà di Padre Pio, attraverso la vita semplice, possiamo
offrire questo sguardo, questo sguardo bello sulla persona, ma anche lo sguardo
giusto sul peccato. Ecco, essere capaci proprio di dire che il peccato
distrugge l'uomo, ma già prima della morte, già nella nostra vita. Allora
chiediamo aiuto a S. Pio da Pietrelcina che ha voluto abitare qui, nella nostra
Casa, che rimarrà sempre qui con noi, perché è una reliquia che non va da
nessuna parte: rimane preziosa nelle nostre case. Io La porterò infatti accanto
ai malati e dirò con loro una preghiera perché loro versano il sangue ogni
giorno della malattia, della vita e
tutti insieme chiedere a Dio di proteggerci, di proteggere tutti quei
bambini che sono toccati dal dolore.
Ecco, non vedere mai più quella sofferenza, ma vedere la speranza, il dono
della salute.
Lui può farlo, può intercedere presso la bontà di Dio e dare, a noi tutti, la
forza di poter superare, quando proprio le cose non possono essere aggiustate
neanche da Lui, di darci la serenità, la forza di capire quel dono grande e
meraviglioso che Padre Pio, prima di morire, ci ha indicato: "Il Paradiso.
Ecco io voglio diventare vittima perché tutti possano sperimentare - Lui lo
aveva già capito - su questa terra la gioia del Paradiso". Il Paradiso
c'è: non è un'invenzione. Anche il nostro cuore lo cerca.
Allora, questa sera, questa Reliquia illumina anche tutte quelle persone che
sono custodite nei nostri cuori. Penso che siano tante quelle persone,
tantissime. Ecco, Padre Pio illumina i loro volti e li rende raggianti. Loro
forse non possono dirci nulla ora con le parole, ma certamente ce lo diranno
con quell'amore, con quella benedizione che ancora potrà toccare il nostro
cuore".
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A U T U N N O
di Lorenzo Rossi Centori
N’olta, nti dì d festa, useo
chi òmi i s’artroesn nt la pià dla thjesa arcontars dl pù e dl meno a s’condo
dla stashon. A Re, gran caciadoro, piaghe arcontar la so storia d cacia, ei
d’arconteo cuscì ben chi feo voghja stardo a sntir. Cod’olta d’er d stembra, n
dì ne bedo ne bruto dla stàda k la mòr. N vntaredo l’gero i fruscineo giù dala
Bandita e d’aria d’odoreo d pomi e castagna. La nebia fina dla matina la monteo
su dal Canal dla Cò, e Re i ncomncest: “ Quand la vo ndar pr l so verso gnank l
Padrterno i s po’ aidar. Figurev che tempo fa and est a cacia col me òmo: a
pasestndal Canalo, su prl Curthjon e la Gabdacia nsina n Nacosparta, ma a
n’estn fortuna. Ma ariati ka san n Pozi a t ved n’à gosheta bela grasa su nt’n
pé d niciola k lafeo voghja mirarla. A digh al me òmo: -Fe l giro d lì che me
al fac’d kì, k la n’s scapes. A gh girestala tonda pian,
pian k n’s moeo n’à foghja, e quand’à gh fust a tiro, pam! A gh tirest n’à
sthjptata. A d’ao pidhja, ma ntl col framento k la caskeo a n fest n tempo a
morm che n farco i grinfiest lesto com l fulmno e i la portest via. -Maladeto ushedo! – a digh, e
a carighest d sthjopo, ma scèa! Prima k’ al puntes l merlo dhj’er ngià
luntan. A dhj’ er rabiato ka n’v digh;
dhj’er dstin k la does ndar cuscì e bashta.
Ntanto l dì s’er fato curto, e l sòlo i chineo ngià dret’ai Codeti ka ern ank a d’Armontana; nìo ndar, ma
s gireo i badòti arndar a kà a man vota.
AQ digh al me òmo: - Fian cusc’, ndhjan giù pr’l violo dl Cardeto nsina
n Bolignan, da lì a thjapan paro nvers Caterthja, po’ al Prado dla Luciona e
ariati ntì Campaci a thjapan agiù pr l violo d Fan driti a kà, s’à fusn pù
afortunati. E dfati cuscì a fian. Dop n po’ ka camino a shoshthjan al
Bcadoro a magnar n’à bocata. - -Ma nt col
framento k’adnteo n toco d pan con la coa d d’othjo a t ved mors carcò tra i
mathjon.-st’olta n’t m scap – a pnsest
tra me. Quato, quato! A brank d sthjopo e a fac’ segno al me òmo d no mors
d’aond i s troeo. Po’ a vagh sot vento, e scanshata senza far rumoro d’ulic’ka
k la cuprio l mathjon, a tb ved n’à leora k la magneo d’erba, grasa com n bò,
luntan quant da kì e nt d’Arco dla Porta.
La merla la n m’ao sntito. A vens pù vshin, a puntest d sthjopo e
sicuramenta a d’arest pighja, ma l dhjaolo i gh’ao miso la coa, prchè nt col
framento ka spareo n groto i rutolest giù dala Tora, e ntl farm da parta pr
scanshardo a scapucest e a m’artroest stranato paro, paro ntl prado. Ma la leora la n’s salvast prchè l me òmo i
d’ao ngià puntata e i d’amazest con n’à sthjoptata prima ka m’aralzes. Cola sera a n magnest volntera. Dacod’olta,
però, a n’ò pù arsbaghjato mira, e leora e gosheta a n’ò armagnata tanta.” Fnito d’arcontar tuti
dhj’anuestn pr dir chi dhj’ern d’acordhjo con lu. E Re i continuest: - Però tant’olta dhj’
animai srvatchi dhj’en pù furbi d noialtri. Amarcord n dì d fbroaro ka ndeo a
cacia su pr Botra con la nea ‘nsin’ al culo, …… E giù con n’altra d la so storia d cacia. Ma ntl col framento chi d’arconteo
d’aria la s’er fata scura e l tempo i
s’er miso a tronar. I dish un d quei chi
steon a sntir: - O Re! Mtans a shoshthjo nt d’Arco dla Porta che l tempo dhj’ arugnol. Tra n po’ la
ven giù tanta d cola salagra che Dio la mand. Re ì mir pr’ aria, n po’ nvers
la Bantita e n po’ nvers l Punton, e i dish:
Gh’è dubio ko gh’ei rashon,
s’arsent d luntan i tròn.
St’anno i n’ank fato d ben,
e dhj’en marciti nk’l gran
e l fen.
Ma se col Lasù i voles far n pato
d no mandar la salagra
tut’an trato,
a gh’aren forshi l tempo d
vndmiar,
cuscì nk Lù i gh’arà l so
vin e i n’s farà biasima.
E col Lasù ì fust d’acordhjo,
prché nveci d la salagra vens la nebia e i pioshinest tut l dì. Un tempo nei giorni di festa usava che gli
uomini si ritrovassero nella piazza della chiesa a conversare del più e del
meno a seconda della stagione. A Re,gran cacciatore, piaceva raccontare le sue
storie di caccia, e le raccontava così bene che era un piacere starlo a
sentire. Quella volta era di settembre, un giorno né bello né brutto di fine
estate. Un venticello leggero faceva stormire le fronde giù dalla Bandita e
l’aria odorava di mele e castagne. La nebbia fine della mattina saliva su dal
canale della Costa, e Re cominciò: “ Quando le cose vogliono andare per il loro
verso neanche il Padreterno ci può aiutare. Figuratevi che tempo fa andai a
caccia con mio fratello; passammo dal Canale, su per Curtione e la Gabellaccia
fino in Nacosparta, ma senza fortuna. Ma giunti in Pozzi scorgo un ghiro bello
grasso posato su un nocciolo che era un piacere guardarlo. Dico a mio fratello:
-Fa il giro di lì che io lo faccio di qui, che non ci sfugga. Gli girai attorno piano piano che non si
muoveva una foglia, e quando fui a tiro, pam! Gli sparai. Lo avevo preso, ma
mentre cadeva non feci in tempo a muovermi che un falco l’agguantò veloce come il fulmine e se lo
portò via. – Maledetto uccello! – dissi, e caricai il fucile. Ma
inutilmente! Prima che lo puntassi il
merlo era già lontano. Ero arrabbiato
che non vi dico; era destino che dovesse andare così e basta. Intanto si era fatto tardi, e il sole si
nascondeva già dietro ai Colletti che eravamo ancora all’Armontana. Bisognava
andare, ma ci scocciava tornare a casa a mani vuote. Dico a mio fratello: - Facciamo così,
scendiamo per il sentiero del Cardeto e arrivati in Bolignano prendiamo per
Caterchia, il Prato della Luciona ed i Campanacci; da lì torniamo a casa per il
sentiero del fano, sperando di avere più fortuna. Infatti facciamo così. Dopo aver camminato un po’ ci fermiamo al
Beccatore a fare uno spuntino. Ma mentre addentavo un pezzo di pane, con la
coda dell’occhio vedo muoversi qualcosa tra i macchioni. -Questa volta non mi sfuggi –
pensai tra me. Lentamente prendo il fucile e faccio segno a mio fratello di non
muoversi da dove si trovava. Poi vado sottovento e dopo avere spostato il
fogliame senza fare rumore vedo nel prato una lepre che mangiava l’erba, grassa
come un bue, distante quanto da qui all’Arco della Porta. La merla non mi aveva
sentito. Mi avvicinai un po’ e puntai il fucile; sicuramente l’avrei presa, ma
il diavolo ci aveva messo la coda perché proprio mentre tiravo il grilletto un
grosso macigno si staccò dalla Torre di Monzone, e facendomi da parte per
scansarlo inciampai e mi ritrovai lungo disteso nel prato. Ma la lepre non si salvò perché prima che io
mi alzassi mio fratello l’aveva puntata e uccisa con una fucilata. Quella sera
non mangiai volentieri. Da quella volta però non ho più sbagliato un colpo, e
lepri e ghiri ne ho rimangiati tanti.”
Finito di raccontare tutti annuirono con la testa per dire che erano
d’accordo con lui. E Re continuò: “ Però spesso la selvaggina è più furba di
noi. Mi ricordo che un giorno di febbraio ero a caccia su per Botra con la neve
che mi arrivava al sedere, …… E giù con un’altra delle sue storie di
caccia. Ma mentre raccontava l’aria si
era fatta scura e si era messo a tuonare. Dice uno di quelli che stavano a sentire: “O Re! Mettiamoci al riparo
nell’Arco della Porta che il tempo
brontola. Tra un po’ viene giù tanta di quella grandine che Dio la manda.” Re guarda per aria, un po’ verso la Bandita
ed un po’ verso il Puntone e dice in rima:
C’è
dubbio che abbiate ragione,
si
sente da lontano il tuono.
Quest’anno
non ha fatto ancora bel tempo,
e
sono marciti anche il grano e il fieno.
Ma se
quello Lassù volesse fare un patto
Di non fare grandinare all’improvviso,
Forse
avremo il tempo di vendemmiare,
così anche Lui avrà il suo vino e non ci
farà bestemmiare.
Quello Lassù fu d’accordo
perché invece della grandine venne la nebbia e pioviginò tutto il giorno.
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La Cilena
di Marino Bertocci
Probabilmente era una
mattina di inizio ottobre (1962? non ricordo). La luce al neon della cucina
brillava bianca e lucida, illuminando quel bianco lavandino di marmo sul quale
pendevano sporgenti le piccole lastre, di marmo anch’esse, che fino a qualche
anno fa venivano utilizzate per sgocciolare i piatti appena lavati.
La pioggia batteva forte sugli sportelli delle verdi persiane di legno
dell’unica finestra della cucina , riflettendovi il giallo delle luci dei
lampioni agitati dal vento del temporale autunnale.
Il profumo del caffè , che gorgogliava nella caffettiera , sovrastava il
profumo del sapone di marsiglia dei panni in ammollo nella tinozza di alluminio
ed il latte nel bollitore iniziava a crescere sotto la spinta del fuoco, formando
quella patina di panna cotta, che così tanto mi piaceva.
Sul tavolo di legno, ricoperto da una bianca lastra di marmo, mamma aveva già
preparato le tazze di ceramica, i crostini di pane, la marmellata cotogna e,
per chissà quale evento fortunato, anche i “buondì motta”, fasciati nel loro
involucro di plastica trasparente e bianca ed azzurra, che facevano già
assaporare il dolce delle gocce di zucchero della glassa. Che bontà.
Nel lavandino c’erano già due tazze usate, voleva questo dire che Mauro. e Franco.
, miei fratelli più grandi, avevano già fatto colazione, ed erano usciti per
andare a scuola.
Nel corridoio antistante la cucina, infatti, mancavano le loro mantelline blu
da acqua.
Dal corridoio si vedeva un buco nero nel quale, una volta che l’occhio si
abituava nuovamente a quella oscurità divenuta penombra, bene poteva
distinguersi una serie di lettini, due già vuoti e rifatti con cura, altri due
, sfatti e vuoti, dai quali c’eravamo da pochissimo alzati, richiamati dal
profumo del “vero” latte in ebollizione, Cristina, la mia gemella, ed io.
La stanza, in quella casa di via della Repubblica a Camogli, non aveva
finestre, solo due porte. Una che immetteva nel corridoio e l’altra nella
grande camera matrimoniale di mamma e babbo, dove trovavano posto, oltre a loro
due, anche i “piccoli gemelli” Ulderico e Maria, gli ultimi arrivati ad
arricchire la nostra famiglia.
La pioggia cadeva ed io, in piedi su uno sgabello vicino al vetro della
finestra della cucina mi incantavo a vedere quei poveri tentativi di albero,
troppo piccoli e così fuori posto su quella strada di paese , piegarsi sotto la
violenza degli scrosci d’acqua , rafforzata dalle raffiche rabbiose del vento
di ottobre, illuminati dai fulmini e scassati dai tuoni.
Vedevo anche, sulla rossa scala del palazzo di fronte, più bassa rispetto alla
cucina, salire, carica di secchi di ferro zincato ,stracci e bastoni, avvolta
in un gonnellone monacale nero ed un impermeabile militare, una donna
bruttissima, senza età, con i capelli nero/grigi tutti arruffati sovrastanti un
volto tondo rosso fuoco tutto rughe in cui spiccavano due occhi , acquosi ma
neri come la notte, che sembravano sempre avere da poco pianto.
Ero felice di vederla da lontano.
Mi faceva paura. Povera donna… Chissà per quale scherzo del destino, lei,
nativa del Cile, si era trovata a Camogli, a condurre un’esistenza miseranda
nel lavare scale e biancheria al lavatoio pubblico, per qualche “signore” che
ancora si ostinava a non volere la lavatrice in casa.
Qualche anno dopo, sfumata la nebbia del ricordo infantile, è riemersa alla mia
memoria la figura della “cilena” , non ho mai saputo come si chiamasse, e ho
rivisto alla finestrella dirimpetto alla nostra cucina, affacciarsi quella
poveretta, che cercava solo la carità di un sorriso, una parola nella sua
disperata miseria e solitudine… eppure vedo ancora bene il candore delle sue
tendine, ricamate semplici su piccoli teli di lino bianco, spostarsi sotto il
leggero tocco di mani legnose sformate dal troppo lavoro.
Se le vedessi ora , quelle mani , gliele bacerei per ringraziarla di quella
prima grande lezione di vita che il suo silenzio ogni giorno mi dava: il
rispetto dovuto alla miseria dignitosa.
Luni, 15 ottobre 2019
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Le meraviglie della prima età imperiale
di Giorgio Bottiglioni
Prima parte
L’avvento della nuova forma di
governo del principato portò alla costruzione di un gran numero di opere
pubbliche, utili al princeps per
ingraziarsi il popolo. Sotto l’impero di Augusto venne edificato il primo
anfiteatro in muratura di Roma: l’anfiteatro di Statilio Tauro nel Campo
Marzio. Invero primi giochi gladiatorii si erano tenuti a Roma già nel 264
a.C., offerti dai figli di Brutus Pera in memoria del padre nell’area del Foro
Boario, nei pressi dell’odierna Piazza della Bocca della Verità.
Successivamente i giochi gladiatorii vennero organizzati nell’area del Foro o
nel Circo Massimo.
Plinio il Vecchio riferisce che nel 52 o 53 a.C. Scribonius Curio diede giochi
e spettacoli a Roma, e per l’occasione inventò una macchina molto originale: si
componeva di due teatri in legno che potevano ruotare e formare un’arena
chiusa. Al mattino il pubblico sedeva nei teatri, e poi i semicerchi venivano
ruotati per chiudere uno spazio e assistere ai giochi dei gladiatori. Nel 29
a.C. il due volte console, generale e politico romano Statilio Tauro fece
erigere a proprie spese un anfiteatro in pietra in un’area non ben identificata
del Campo Marzio. Secondo il noto antiquario ottocentesco Luigi Canina tale
anfiteatro doveva trovarsi nei pressi di Via di Monte Giordano, alle spalle
della Chiesa Nuova di Corso Vittorio Emanuele II; il “monte” cui allude il
toponimo non sarebbe altro che il cumulo di detriti derivante dalla caduta
dell’antico maestoso edificio, alcuni studiosi moderni sono più cauti
nell’identificazione del sito e affermano che il grande edificio potesse
trovarsi anche nel Campo Marzio meridionale, nei pressi di Via Giulia, poco
distante dal Circo Flaminio. Di fatto questo primo anfiteatro ebbe una vita
piuttosto breve in quanto venne irrimediabilmente distrutto dal famoso incendio
del 64 d.C. durante l’impero di Nerone. L’imperatore Caligola (37-41) promosse
la progettazione di un circo per la corsa dei cavalli nel Vaticano. Questa zona
non fu mai una parte vera e propria della città antica, ma una zona suburbana,
traversata da strade,
con il loro corteo di tombe, e occupata da ville. Lo stesso circo, ultimato da
Nerone, fu eretto all’interno della villa di Agrippina Maggiore, madre di
Caligola. La posizione del circo sul fianco sinistro della basilica Vaticana è
sicuro: il lato settentrionale del circo corrispondeva alla navata sinistra
della chiesa. L’area dei carceres, da dove partivano le bighe, era situata nei
pressi dell’odierna Via del Sant’Ufficio, mentre il lato curvo va rintracciato
una decina di metri dopo l’abside della basilica di San Pietro. Sulla spina del
circo, intorno alla quale correvano i carri, venne eretto l’obelisco di provenienza
egiziana poi posto nel 1586 dal papa Sisto V al centro di Piazza S. Pietro,
dove si trova ancora oggi. In questo circo ebbero luogo, forse per la vicinanza
all’adiacente necropoli, alcune esecuzioni dei cristiani giudicati colpevoli di
aver causato il grande incendio di Roma del 64 d.C.. Il circo fu abbandonato
già verso la metà del III secolo e l’area fu suddivisa e assegnata in
concessione ai privati per la costruzione di tombe. Tuttavia pare che fino al 1450 ne
sopravvissero ancora molti resti, distrutti con la costruzione della nuova
basilica vaticana.
La devastazione dell’incendio del 64 fu di tale imponenza che la città venne in
gran parte ricostruita ex novo . in particolare tale incendio permise all’imperatore
Nerone di espropriare facilmente un’area di 2,5 Km quadrati fra Palatino, Oppio
e Celio e costruirvi la sua enorme villa la famosa Domus Aurea. Buona parte
della villa era costituita da splendidi giardini al centro dei quali vi era un
laghetto artificiale di grande impatto scenografico; in corrispondenza
dell’ingresso verso il Palatino Nerone fece erigere una statua “colossale” in bronzo
raffigurante se stesso. Morto Nerone, nel 69 riuscì a prendere il potere, dopo
aver sconfitto gli avversari, il generale Vespasiano, della famiglia dei Flavi.
Per ottenere il sostegno politico Vespasiano dovette innanzitutto preoccuparsi
che venisse cancellato il brutto ricordo di Nerone: non poteva certo far di
meglio che demolire la sua villa e costruirci sopra un monumento straordinario,
che avrebbe perpetuato il nome della sua dinastia nei secoli. Cominciarono così
nel 72 i lavori di costruzione dell’Anfiteatro Flavio nell’area dove Nerone
aveva fatto costruire il laghetto. Tale anfiteatro è più noto fin dal medio evo
come Colosseo per la vicinanza con la statua del Dio Sole, riadattamento di
quella di Nerone. Tuttavia la statua venne rimossa già in età imperiale e parve
strano che ne fosse rimasto il ricordo nel VI secolo. Il bolognese Amannino
Giudice nel XIV secolo sostenne quindi che il Colosseo fosse il principale
luogo pagano del mondo, chiamato così perché, divenuto sede di alcune sette di
maghi e adoratori del demonio, a chi si avvicinava veniva chiesto: “Colis eum?”
ossia “Adori lui?” (Intendendo il diavolo), a cui bisognava rispondere: “Ego
colo”, Una simile interpretazione sconvolse a tal punto che il papa Benedetto XIV fece esorcizzare il
Colosseo e lo consacrò alla memoria dei martiri cristiani, benché non si abbia
a tutt’oggi alcuna prova che qui siano stati uccisi cristiani.
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Ortonovo: “oramai un viaggio dell’anima, una terra di memorie”
di Romano Parodi
Ortonovo:
“oramai un viaggio dell’anima,
una terra di memorie”
Come tanti sapranno, Gianfranco Lorenzini, ha
scritto molti articoli su Ceccardo e la sua famiglia (spesso attingo a lui).
Anche cose che col tempo si sono rivelate inesatte. Oggi voglio parlarvi
soprattutto del “Libro dei Frammenti”, a lui caro. Già allora, quando lo prestò
a Urio Clades, lo considerava “il migliore” di tutta l’opera ceccardiana.
Questo libretto fu donato a suo padre, da Ceccardo stesso, nel 1896. Quando
Urio Clades scrisse il suo libro lo ebbe in prestito (mai prestare libri rari),
e purtroppo Gianfranco non lo vide più. Il suo cruccio. “Ho cercato in tutti i modi di riavere il prezioso volumetto, ma
purtroppo non lo aveva più, e non ricordava a chi lo aveva dato - forse a un amico
di Parma - mi aveva detto”. Gianfranco andò anche a Parma, invano.
Ipotizzammo che il Clades, che abbiamo conosciuto come persona correttissima,
l’abbia dato a don Pesce, con l’incarico di riconsegnarlo al proprietario; ma
nell’archivio del Santuario non c’era ed entrambi pensammo che, come gran parte
dell’archivio parrocchiale, fosse finito nella biblioteca del Seminario.
Progettammo di andare a controllare; ma come sapete, Gianfranco non c’è più...
Questo libretto è rarissimo. Sembra che la prima edizione, sia stata pubblicata
in sole cinquanta copie. Nel 1987 la
Pistelli scrive (pag.33): “soltanto nella biblioteca Berio di Genova si trova
un secondo rarissimo
esemplare dell’antico volumetto”.
“Il primo quindi che aveva ridato alla luce
Il “Libro dei Frammenti”, e tutti hanno attinto ad esso era il mio –
scrive Gianfranco nel 1994. A me è rimasta solo, la consolazione di aver
salvato dall’oblio delle bellissime pagine di poesie del nostro tribolato
poeta, forse le più belle, sicuramente le più elegiache, fresche, spontanee.
Nelle poesie di questo libriccino, trovavo il mio paese natio e la sua casa
vicina alla mia. Aveva una dedica autografa scritta marcatamente con i pennini
ad inchiostro di una volta… Rivelava una forte personalità… Fu scritta a Genova
in una notte torbida del gennaio 1896”.
La critica, oramai condivisa da tutti,
è quella che Ceccardo abbia abbandonato, questa forma di poesia, tutto preso
dal classicismo carducciano, e ciò, per molti, ha fatto di lui, a volte, anche
“un penoso classicista” - (Montale). Non ha capito che se avresse proseguito su
quella strada oggi sarebbe un “grandissimo”. Già Pietro Pancrazi diceva:
“Uno dei pochi buoni testi del simbolismo italiano. Il primo in ordine
cronologico, fra i libri della poesia italiana contemporanea, cioè il meno
legato ai climi dell’ottocento, pur essendo ancora in quel secolo. Poi con il
nuovo secolo, vennero gli anni della poesia civile e del culto di Carducci.
Ceccardo stesso volle oscurare la sua poesia giovanile che, infatti, fu completamente
dimenticata a favore della successiva e deteriore immagine, pur con passione,
da lui inseguita”.
Ceccardo
lo considerava un: “Povero e caro volumetto! Poca cosa erano, è vero, quei
canti…. Si pavoneggiavan, come meglio sapean, ad un’eco di Pan, l’Eterno, cui,
a null’altro badando, allor tendevo l’orecchio, come tra un sogno” .
Ceccardo non comprese e non ascoltò nessuno. Gli scriveva l’amico Arturo
Salucci, nella sua commossa lettera: “...per esempio, sostenevo che quel tuo
giovanile Libro dei Frammenti, di aliprandina memoria (casa editrice), è
veramente un piccolo capolavoro, e tu t’ostini a rinnegarlo”.
In
questa direzione si muovono oramai tutti, dal Tito Rosina (1937) al Marcenario
di oggi. Il Libro dei Frammenti comprende 38 canti selezionati accuratamente da
Ceccardo stesso e comprende, “Il Poema della casa” e il Poema della Villa”. Le
poesie vanno dal 1891 al 1895. Ma prima del ‘95 le sue poesie sono molte di
più: mancano, per es. Nicola, San Martino del Ghiuolo (G’iolo – Ghinolo - Iliolo),
Valentina, etc. (continua)
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I NOSTRI CARI DEFUNTI
di Mila
Veramente volevo scrivere le mie impressioni sui preparativi per il catechismo che è appena iniziato e sullo
spirito annoiato, scocciato, e non mi viene un altro aggettivo, col quale
troppe mamme accolgono questo evento nella vita dei loro figli. C'è già la
scuola, lo sport, le relazioni mondane con gli amici e bisogna trovare anche
un'ora alla settimana per il catechismo?! Quasi quasi verrebbe voglia di dire:”
Mettiamoci una pietra sopra e non ne parliamo più.”
Basta catechismo, tanto cosa significa?
Ma c'è stato un Uomo che, se sbaglio correggetemi, è stato chiamato:
Verbo di Dio, cioè La Parola di Dio, perché Lui era venuto non solo per
riallacciare l'amicizia tra l'uomo e Dio ma anche per parlare in Suo nome e
spiegare agli uomini chi era Dio e come dovevano comportarsi nella loro
relazione con Lui. Lui Lo chiamava Padre e diceva che era anche Padre nostro e
raccontava anche del grande amore che ha per noi. Per questo suo parlare,
perlomeno anche per questo, il Verbo di Dio è stato messo in croce e dopo di
Lui tanti altri, uomini, donne e giovanetti, hanno affrontato e stanno ancora
adesso affrontando il martirio. E noi? Noi non troviamo mai il tempo per ascoltare
queste Parole che Lui ci ha lasciate eppure, al di là del credere o non
credere, quanto si andrebbe meglio se quelle parole fossero ascoltate e messe
in pratica. Pensiamo solo a quella disastrosa guerra che adesso insanguina la
Siria, ai nostri ragazzi che non hanno più ideali e si buttano via con l'alcool
e la droga…. Volevo parlare di questo, poi ho pensato che il due di novembre è
il giorno del ricordo, ricordo di coloro che ci hanno preceduto nel regno di
Dio e mi son detta: parliamo di loro. Ma poi la mia testa è andata per conto
suo, forse perché l'argomento catechismo mi preoccupa molto, ma visto che ormai
avevo messo il titolo vorrei ricordare almeno mia mamma.
Mia mamma si chiamava Jela, in
italiano significa Elena, aveva ottant'anni ed era ammalata da tempo e a causa
di un ictus aveva perso anche l'uso della parola. Quella domenica, verso
mezzogiorno, era seduta su di una poltrona e ad un tratto è collassata. Quando
giunse la guardia medica con l'ambulanza, il medico disse che non c'era più
niente da fare, ma mio padre volle ugualmente farla portare in ospedale perché
sperava che là potessero fare ancora qualcosa per lei. I medici la visitarono
ma confermarono il responso del dottore precedente e la trasportarono in una
piccola stanza piena di strumenti. Io e i miei tre fratelli restammo ad
aspettare in anticamera ma dopo una mezzora ci chiamarono e ci lasciarono soli
con lei, non c'era più niente da fare. Io le tenevo le mani e avevo un dito sul
suo polso debolissimo, ad un tratto anche quel debole battito cessò. Entrò
subito un medico, posò lo stetoscopio sul suo cuore e disse:” E' morta! Non ci
furono subito lamenti o pianti, quelli sarebbero venuti dopo, ma si levò al
Cielo la voce di mio fratello Luigi che recitava l’Ave Maria e noialtri
fratelli lo seguimmo e continuammo con le altre preghiere che lei ci aveva
insegnato da piccoli. Con quelle preghiere salutammo la nostra cara mamma e lei
si sarà sicuramente presentata al trono di Dio con quelle preghiere in mano.
Il due novembre ricorderemo i nostri cari defunti, preghiamo per tutti, per i
morti e per i vivi, specialmente per quelle persone che hanno perso i loro cari
troppo presto, Preghiamo perché la Fede li aiuti e li sorregga nel difficile
cammino del ricordo e che dia loro la certezza che un giorno ci rivedremo tutti
attorno al trono di Dio.
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CATECHESI DI PAPA FRANCESCO
di Paola G. Vitale
Dalla Santa Casa di Loreto, la catechesi di Papa Francesco, aggiunta alla preghiera dell'Angelus, è stata ed è ancora una guida sicura per l'anima mia, ora racchiusa tra le mura di casa e un po' di chiesa. Ho gustato ed ancora tutto gusto, di quelle preziose immagini, dagli affreschi murali affioranti, fortemente spirituali e più ancora lo Spirito Santo che sovrasta la Vergine e il Bambino. C'è però una piccola, preziosa miniatura, al centro della tovaglia dell'altare della Madonna di Loreto, che ha conquistato il mio cuore, insieme con quella che raffigura l'Arcangelo Gabriele che porge l'annuncio a Maria ed entrambe le figure sono semplici e perfette, nella spiritualità semplice e naturale che esprimono. Ho detto tra me: "C'è, ci deve essere, il Paradiso per gli artisti che esprimono tanta spiritualità!". Non sempre c'è quella tovaglia a ricoprire l'altare, ma quelle figure miniate sono indimenticabili!
Paola Vitale - Luni Mare
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Il Logorio della vita moderna
di Giuliana
I miei coetanei e soprattutto
la generazione successiva, cioè i nostri figli, ricorderanno un simpatico spot
televisivo (erano i tempi mitici del Carosello!) in cui un compiaciuto Ernesto
Calindri, seduto comodamente in mezzo a un traffico insostenibile, invitava a
bere un amaro “contro il logorio della vita moderna”. Nessuno forse se ne sarà
accorto, ma con quello ed altri simili spot, incominciava il predominio
dell’era dell’avere su quella dell’essere.
Improvvisamente non contava più la tua intelligenza, sensibilità, bontà, la
capacità di affrontare le difficoltà con le sue forze, ma occorreva l’aiuto
degli oggetti esterni: valevi per quello che possedevi, dall’amaro fino agli
abiti, possibilmente firmati, alle automobili, case, ecc.. Anche i ragazzi
furono in parte vittime dello stesso modo di pensare: negli anni ottanta
dettavano legge i giovani paninari della Milano bene bardati di chiodo (la
giacca di pelle), scarponcini Timberland o tennis costosissime e jeans di famose
case di moda…Interveniva, per molti giovani, la necessità di essere omologati,
uguali agli altri, proprio perché veniva accantonata l’interiorità, cioè quello
che ciascuno era nella sua anima e lo rendeva unico. La cosa è andata avanti
sempre più e oggi siamo letteralmente bombardati giornalmente da una miriade di
voci suadenti che ci invitano a comprare questo e quel prodotto.
E’ vero, si dice che la pubblicità sia l’anima del commercio e quindi del
progresso(?) ed io non intendo contrastarlo; quello che mi preme sottolineare è
l’imprescindibile necessità di recuperare la nostra interiorità, la capacità di
andare dentro noi stessi, di esaminarci, magari mettendo a fuoco quello che non
va; di ascoltare la voce che ci fa capire ciò che è buono da ciò che non lo è e
ci suggerisce la strada giusta da percorrere. Credo che la nostra generazione,
abbagliata da tanti meravigliosi messaggi, si sia, in parte, dimenticata di
insegnare ai bambini e poi ai giovani ciò che era necessario fare, l’ascolto
appunto di questa voce. I giovani sono migliori di noi avendo una capacità di
sognare (e, se glielo permettiamo, di attuare i loro sogni) che noi abbiamo
completamente perduto, ma…anche loro, talvolta, sono vittime del progresso.
Intendo dire che spesso preferiscono ascoltare flauti magici, anziché
accogliere i consigli dei buoni maestri. Che fare allora? Occorre ricominciare
da capo, riscoprendo insieme i veri valori. Già molti ragazzi sono su questa
strada e si occupano, ad esempio, di volontariato con uno sguardo aperto sulle
necessità degli altri e compiono azioni meravigliose, ma tanti, troppi
rimangono al di fuori di tutto ciò e vivono ai margini della società talvolta
nell’abbandono e nella solitudine. Bisogna riscoprire la bellezza di essere una
comunità aperta che costruisce ponti e abbatte i muri, dove ciascuno è accolto
per quello che è, cioè un dono prezioso per gli altri, una creatura figlia di
Dio, fatta a Sua immagine e somiglianza e pertanto un essere meraviglioso e
unico, in grado di fare grandi cose.
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