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I Toparola
di Enzo Mazzini
Oggi, lunedì 29 Luglio,
viviamo una giornata ricca di avvenimenti davvero significativi per noi
cattolici ortonovesi.
Questa mattina abbiamo vissuto dei momenti commoventi ed intensi durante la
celebrazione della S.Messa Solenne presso il Santuario del Mirteto, in
occasione dell'anniversario del fatto miracoloso della lacrimazione di Maria
Santissima e questa sera possiamo assistere ad una commedia dialettale davvero
meravigliosa, nella Terrazza della Chiesa di S. Giuseppe in Casano.
La commedia, in perfetto dialetto locale, aggiunge un'altra preziosa perla alla
già nutrita collezione di successi di Paolo Devoti. Come non ricordare il
Presepe Vivente e le recite a S.Martino, in occasione dei Venerdì Santi?
Questa sera Paolo si è davvero superato! Lo conoscevo come valente ideatore e
scrittore, ma non lo avevo mai visto nelle vesti di attore protagonista e devo
dire che sono rimasto davvero stupito per le capacità in tal senso dimostrate.
Non gli manca proprio nulla!
La commedia andata in scena questa sera è: "Va a finir chi pigl'
mogl'era" ed è interpretata da "I TOPAROLA", un gruppo teatrale
locale di recente formazione, ideato e diretto da Paolo Devoti medesimo. La
commedia dialettale è scritta e diretta da lui stesso che ne è anche
l'interprete protagonista insieme a Marcella Gherardi.
Davvero meravigliosi anche tutti gli altri interpreti che di seguito elenco:
Marco Gherardi (Arì); Lucilla Gherardi (Clò); Manuel Maio (Francè); Francesca
Casani (Sig.na Bianchi); Giovanni Torri (Umbè) e Lucia Sebastiani (Iole d'
Plegro) oltre, ovviamente, i due protagonisti, già citati: Paolo Devoti (Robè)
e Marcella Gherardi (Argia).
Grazie a questi bravissimi attori in erba, abbiamo rivissuto alcuni spaccati
della vita contadina locale del recente passato, tant'è che io ho conosciuto
molti dei personaggi riprodotti e qualche volta ho avuto l'impressione di
ritrovarmeli davanti. Bravi, davvero bravi!! Non parliamo poi di Paolo Devoti e
di Marcella Gherardi veramente fenomenali!
Conoscevo già le elevate doti naturali di Paolo e quindi la più grande sorpresa
me l'ha riservata Marcella in veste di attrice. Conoscevo perfettamente le sue
eccezionali doti canore (era solita esibirsi con mia figlia Manuela che la
accompagnava all'organo o al pianoforte ed anche in occasione del matrimonio di
Manuela al Santuario della Madonna del Mirteto ci ha incantati e commossi con
la sua "Ave Maria"), ma non immaginavo che fosse parimenti
eccezionale anche nella recitazione. A questo punto nasce spontaneo un ringraziamento
a buon Dio per averla munita di tante doti. Purtroppo sono molti i giovani
muniti di doti naturali eccezionali nei vari campi, ma che svaniscono nel nulla
perché non vengono scoperte e valorizzate. Peccato! Anche per questo dobbiamo
ringraziare Paolo Devoti che mette a disposizione tutte le sue doti naturali
anche per valorizzare e farcì apprezzare tanti validi attori in erba.
Bravo Paolo, continui a
donarci dei regali davvero indimenticabili!
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Maria Santissima Regina del si
di Paola G.Vitale
In questi mesi estivi fatti,
per molti, di giorni lunghi e solitari, predomina davvero il "SÌ " dell’affrontare
con sereno cuore, tutto il passare delle ore. Mi viene naturale il pensare
alla grande catena di santi ed alle varie festività in onore di Maria
Santissima, fino all' 8 Settembre per la di Lui nascita. E altrettanto vicino
avverto il lungo, silenzioso “Sì" di Maria Santissima, un sì coraggioso
che, oltre al Calvario, all'affidamento a Giovanni Apostolo, alla Risurrezione
di Suo Figlio Gesù, è proseguito nel Cenacolo, nella vita nascosta di cui
sappiamo ben poco e così, ogni giorno, fino alla chiamata in Cielo per Lei, con
tutto il corpo. Allora Maria avrà rivissuto le parole dell'Angelo: "Avrai
un figlio, lo chiamerai Gesù. Sarà chiamato Figlio dell'Altissimo, sederà sul
trono di Davide…" Quanta fedele attesa! Grande sopra la disubbidienza di
Eva, sopra la lunga prova di fiducia in Dio. "Eccomi, sono la serva del
Signore..." ed è per sempre il Suo "Sì"!
Paola G. Vitale
Luni Mare 2 agosto 2019
Desidero ringraziare P.
Domingo Daniel Patix Gomez, fmm. per la storia riguardante il Santuario, del
quale sono affezionata. E poi complimenti a tutti! A Marta ed Antonio Thellung,
al Sig. Ratti, ad Enzo. Mi fate davvero compagnia!
Il Sentiero e la sua valorosa
Redazione sono degni servitori delle origini dell'amore iniziale.
Paola G. Vitale
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Saudade
di Mila
Anni fa andai con i miei figli a trovare i miei cognati che
vivevano in Brasile, a San Paolo. Una sera mio cognato decise di portarci a
cena in un ristorante tipico dove facevano la famosa feijoada. Purtroppo mia
cognata fu colpita da una delle sue consuete emicranie e preferì rimanere a
casa, suggerì però al marito di invitare al suo posto un'amica. Quest'ultima
era la vedova di un vecchio amico, nonché collaboratore, di mio cognato, morto
anni prima in un incidente aereo mentre si recava a portare dei medicinali ad
alcune tribù del Mato Grosso.
Era una signora carina, vivace, brillante, con la parlantina sciolta, educata e
con una buona cultura, brasiliana “autentica”. Ma nonostante fosse
caratterialmente portata verso il sorriso aveva sempre negli occhi un nonché di
malinconia.
Lei e mio cognato discutevano sempre sul Brasile: Gli usi, i costumi, il modo
di fare dei brasiliani, la storia del Brasile e così via.
Lei:” Ma vuoi saperne più di me che sono brasiliana?”
Lui “tuttologo”: “Ma vuoi mettere tutti i libri che io ho letto sul Brasile e
l'esperienza che ho fatto sul campo nel mio lavoro?”
Conclusione, anche quella sera ebbe inizio una discussione che convergeva sul significato
della parola saudade, leggi saudagi, un vocabolo abbastanza comune nel
linguaggio dei brasiliani.
Mio cognato diceva che significa semplicemente rimpianto. Lei diceva invece che
è una parola più complessa, un amalgama di sensazioni in cui c'è il rimpianto
struggente per qualcosa o per qualcuno che avevi avuto e ora non hai più, ma
almeno lo hai avuto e questo attenua il dolore, e il ricordo di quei giorni
felici ti porta gioia anche se intrisa di melanconia che ti rimarrà sempre nel
cuore. C'è la paura di non essere stata capace di trattenere quei momenti per
sempre, ma anche la consapevolezza che non ci si poteva fare niente, era andata
così. Gioia, dolore, nostalgia, rimpianto e altro ancora esprimevano gli occhi
di quella giovane donna mentre parlava.
Io quella sera non capii gran che, poi, giorni fa, ho visto alla televisione un
signore giapponese che vive in Italia da molti anni, annunciava la morte di suo
figlio, cerebro leso da più di quaranta anni a causa di un incidente dal quale
non si era più ripreso. Il padre aveva abbandonato il lavoro per poterlo curare
e lo aveva fatto con tanto amore. Ora il figlio era morto.
Mentre raccontava tutto questo i suoi occhi erano pieni di lacrime ma
sorridevano. Occhi buoni, miti, tristi e felici allo stesso tempo, tristi
perché aveva perso un figlio, felici perché finalmente suo figlio aveva
raggiunto la pace e aveva un letto nel quale riposare per sempre. In tutti
quegli anni aveva sempre pensato: “Chi si occuperà di lui quando io non ci sarò
più?” Ed ecco che era intervenuto l'aiuto di Dio a dare a tutti e due la pace.
Io, non so perché, nel vedere quel signore che dava questa notizia mi sono
ricordata di quella discussione in Brasile. Quella giovane donna aveva cercato
di dissuadere il marito dal sorvolare il Mato Grosso con un piccolo aereo da
turismo, ma lui doveva andare a portare dei medicinali agli indigeni che ne
avevano assolutamente bisogno e allora lei lo aveva lasciato andare pur
presagendo quello che sarebbe accaduto.
Questo padre che ha curato per tanti anni con amore e fatica un figlio per il
quale non c'era speranza e quando lui se n'era andato soffriva tanto e avrebbe
voluto trattenerlo ancora, ma allo stesso tempo era contento perché finalmente
suo figlio era in pace, e i suoi occhi piangevano e sorridevano.
Adesso io cosa dovrei dire? Che ho capito il significato della parola
brasiliana? Non ha nessuna importanza, mi è venuta in mente così, chissà
perché? Forse perché mi tormenta da giorni quella terribile parola che è
l'eutanasia e della quale si sente parlare sempre più spesso. Non voglio
pontificare su questo o dare giudizi, non ne sono in grado e non ho la
competenza necessaria. Vorrei soltanto dire:” Ascoltiamo la Parola di Dio e
seguiamo gli insegnamenti della Chiesa e non il canto di certe sirene che è si
melodioso ma rischia di trascinarci negli abissi più profondi del male.
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In ricordo di un amico - Cinzio Marchi
di Romano Parodi
In ricordo di un amico: Cinzio
Marchi
Era un pessimista cronico come
me. L’ho conosciuto nei primi anni novanta e non l’ho più lasciato. Era geniale,
sferzante, sagace. Pubblicava in proprio i suoi libretti, in numero di
cinquanta, tutti rigorosamente numerati a mano. L’ultimo che mi ha portato a
casa con il suo motorino è il 35-mo di 50.
Nella mia biblioteca, i suoi: Hermana Soledad, La sintesi dell’eremita,
Il Viaggiatore Immobile, Finché il cervello pensa e il cuore batte, Canto
Final, sono i più ri-letti.
Romano
LA BALLATA DELLE ILLUSIONI E
DEI DISINCANTI – ovvero -
L’ALLEGORIA DEL LUNGO CHIODO
Nella vita d’ognuno esiste un
chiodo: chiodo lungo e tetragono, d’acciaio,
da configgere in uno
scantinato per appendervi tutti i disincanti…
Da ragazzo sognai la grande
atletica e tentai di svettare in tale agone,
ma inutilmente: anche questi
conati finirono attaccati al lungo chiodo.
Poi da studente amai la
poesia, ma la stessa non ricambiò l’amore…
Quando m’accorsi
dell’indifferenza, anche la poesia attaccai a quel chiodo.
Nei generosi caldi anni
sessanta mi parve la politica un valore…
Ma poi la stessa espanse il
suo marciume e l’attaccai allora al lungo chiodo
Una notte d’inverno sognai un
grande romanzo in tutta la sua eccelsa trama
e quando mi svegliai ne
scrissi il titolo, poi anche il titolo attaccai a quel chiodo.
In seguito mi prese il
desiderio d’una famiglia serena e amorosa,
ma il destino non volle e, mio
malgrado, anche la famiglia attaccai a quel chiodo.
Poi che la vita è quasi giunta
al termine, sento che non è stata altro che un pugno
di mosche, ma oramai più non
m’importa e, con ghigno,
anch’essa attacco al chiodo.
Cinzio Marchi
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Il ciambellone della Lina
di MARTA
Sette settembre sera!
Come tutti gli anni, anche quest’anno mi
sono recata al Santuario del Mirteto in pellegrinaggio per la nostra Madonna.
Questa ricorrenza si svolge in notturna richiamando una moltitudine di fedeli
giunti da ogni dove. C’è molta partecipazione con canti e preghiere durante la
processione, durante la messa solenne con la corale di Ortonovo, la banda ed infine
lo spettacolo pirotecnico.
Però ...anche quest’anno un tuffo dentro al cuore... se ripenso alla Lina!!!
La Lina non mancava mai di invitarmi a mangiare una fetta di torta di riso per
la festa d’ortno’; fatta come da tradizione paesana con tutti i requisiti e che
a lei riusciva ottimamente! Ma il suo cavallo di battaglia, come si suol dire,
era il ciambellone; non ne conosco la procedura ma so che lo impastava duro,
lavorato piano piano a mano, colmo di noci, mandorle e uvetta sultanina, però
tanti particolari mi sfuggono! Quando era pronta si presentava agli occhi degli
astanti un capolavoro, una opera d’arte. Il ciambellone era enorme, copriva le
nostre braccia congiunte a cerchio, doveva bastare per tutta la famiglia e
anche per tutti gli invitati della Lina.
Inutile descrivere il sapore! Io ci sentivo un sapore antico, fatto di
pazienza, d’amore, di sacrifici, era come riveder la scena di un vecchio film.
Rivedo la Lina bimbetta che osserva sua nonna mentre impasta il ciambellone; e
poi la Lina giovinetta che guarda sua mamma mentre lo impasta e infine lei
sposata con la sua famiglia. Ora era lei a portare avanti la tradizione. Questo
dolce ha percorso molte strade superando la centenaria mestizia di queste
donne, operose e lavoratrici. Ma non termina qui, credo che la Lina abbia
lasciato questa ricetta alla nuora Gianna; quando le ho accennato “il sapore antico
“che scaturiva dal suo profumo mi rispose “... sì vecchio perché le sue mani
erano ormai vecchie, come pure la Lina con la sua età!” Cara Gianna so che la
ricetta è nelle tue mani, non perderla e lasciala in eredità alle tue figlie
così che si possa tramandare! Il ciambellone un antico e onorevole dolce, nel
centro di una tavolata ha il potere di avvicinare i commensali e sentirci
ognuno a suo modo come un re! Cara Lina sei stata una donna mite e dolce
proprio come il tuo ciambellone. Lina, so che li vedi, allora salutami Walter e
Dore’.
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IN RICORDO DELLA MARTA.
di P. Mario Villafuerte.
La maggior parte di voi è a conoscenza di quanto la Marta
volesse bene il Santuario e a noi sacerdoti che abbiamo il privilegio di vivere
nel convento: si può dire che lei abbia dato parte della sua vita al bene di
noi, sacerdoti missionari. Quando sono arrivato a Ortonovo nel 2012, non è nata subito un'intesa con la
Marta: il mio carattere, diverso a quello di p. Vittorio (il suo preferito: “il
bel mi gnocco” come diceva lei) e, forse, per il fatto che allora ero io il
provinciale della nostra Comunità, incuteva in lei un certo timore che
preferiva tenermi a distanza. Poi però, il tempo fa il suo lavoro e abbiamo
imparato a volerci bene, e per questo dico grazie al Signore per averci donato
questa donna con un cuore così grande e pieno di gioia nonostante la vita non
le abbia riservato il meglio: lei era felice nel suo Santuario, con la sua
Madonna e i suoi preti! Ogni mattina arrivava al Santuario e noi sapevamo che era lei perché la
sentivamo recitare le Ave Maria della Coroncina che iniziava uscendo da casa
sua e concludeva all’ arrivo da noi; ma se per caso aveva trovato qualcheduno
lungo la strada e mancava qualche Ave Maria, allora si fermava nel soglio della
porta a finire, perché, diceva, devo pregare per i miei preti! Aneddoti su di lei ne posso raccontare tanti, ma mi piace ricordar la sua
furbizia, quasi come quella di una bambina: a lei piacevano tanto i cachi ma a
motivo del suo diabete non doveva mangiarli, quindi a casa nostra i cachi erano
vietati, lei però li portava e li nascondeva nella lavanderia per poi mangiarli
quando rimaneva sola. Quando poi le ho detto che mi dispiaceva per la rinuncia
che aveva dovuto fare, mi ha guardato con quegli occhi vivaci che aveva e ha
confessato il suo “peccato” ma ridendo soddisfatta, come a dire: “ti ho fregato
lo stesso” !!! e cosa dire? Lei era così e, anzi, voglio ricordarla così! Ora che per lei sono finiti i giorni della sua vita terrena, voglio immaginarla
a contemplare il volto della sua cara Madonna felice di aver, per tanto tempo,
custodito la sua casa qui in terra. Riposi in pace cara Marta e continui a pregare per i suoi preti presso l'altare
del Cielo che noi pregheremo per lei qui davanti alla Madonna del Mirteto!
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Suor Clotilde
di Marino Bertocci
Solo da quell’angolo di
cortile, recintato da altissima rete, si riusciva a vedere il golfo di Genova,
coperto da una pesantissima coltre di nuvole nere. L’anno prima, l’ottobre del
1962, ci aveva già visti a sbucciarci le ginocchia sulle panche di legno della
piccola cappella del collegio a recitare rosari , in una lingua che a me era
sconosciutissima, per la pace nel mondo
(i temutissimi razzi bolscevichi da cuba erano puntati sul “mondo”) e per il Concilio
Ecumenico indetto da quel Papa “così vecchio” che, come diceva la Superiora “
voleva togliere l’abito alle suore per renderle irriconoscibili nel mondo” “Loro”, le Suore, pregavano, e facevano
pregare, ma noi non lo sapevamo…nella , per loro ovvia, speranza che tutto rimanesse immutato, così
come se il tempo fosse rimasto fermo all’epoca eroica della Fondatrice, quasi
un secolo prima. Le nostre preghiere , così ne erano convinte le Suore, avevano
fermato i razzi russi, ma non il vento del Concilio, anche se noi non sapevamo
nemmeno di cosa si trattasse. Troppo piccoli. Era così passato il 1962, ma con quel
1963 ci si era veramente avvicinati alla fine del mondo: a giugno era morto il
Papa, quello che sarebbe poi diventato il “Papa buono”. Ma non troppo. Per la sua
rivoluzione che stava scuotendo secolari incrostazioni clericali; un nuovo Papa,
troppo minuto e non “pastor angelicus”, quale
invece era stato Pio XII, sedeva sul trono di Pietro, che, con grande sgomento per la tradizione, stava
per essere soppiantato da una semplice poltrona., così come, nelle celebrazioni
liturgiche, il latino era ormai destinato ad essere sostituito dall’italiano .e
adesso…era il 22 novembre…il padrone del mondo, l’americano Kennedy, veniva ucciso,
“forse dai nemici di Cristo” . Con queste parole Suor Clotilde, addetta alla
nostra vigilanza, donna seconda sola alla Madonna per bontà e di un ingenuo
candore virginale, disarmante e abitudinario, ci aveva - ahinoi - nuovamente
tutti come agnellini convocati per un’altra interminabile serie di rosari… in
quella cappella, troppo piccola per contenere quel numero di bambini, ma, l’ho
capito solo molto tempo dopo, resa così grande dalla forza della loro preghiera.
Finalmente terminate le preghiere, tutti noi “piccoli” eravamo come tanti
pulcini pigolanti radunati nell’angolo del cortile attorno ad un bambino di
poco più grande di noi – Luciano, mi pare si chiamasse – che, con aria molto
grave ci istruiva sul fatto che “la guerra sarebbe scoppiata da un momento
all’altro, ma certamente , quando il grande cannone della lanterna di Genova
avrebbe sparato quel suo unico, grande, colpo in mezzo al Golfo: quello sarebbe stato l’inizio” . Allora
avremmo dovuto fuggire…dove? Nessuno di noi lo sapeva. Suor Clotilde, nel
frattempo giunta in mezzo a noi, invece, lo sapeva e lo sapeva benissimo:
saremmo fuggiti tutti in cappella…! Lì, lei ne era convinta, Gesù ci avrebbe
tutti protetti… la preghiera tutto risolve, tutto medica, tutti conforta, tutti
salva.. Nella mia mente di bimbo questo è stato allora impresso indelebile
nella mente e, cresciuto, nonostante tutti i disincanti della vita, quando
riesco a sfrondare l’inutile che la
patina del tempo deposita nel mio
quotidiano, sono grato nel ricordo a Suor Clotilde per quel suo insegnamento
sulla preghiera , forse anche troppo ingenuo, ma mi auguro che ancora tanti
bambini possano ugualmente avere la grazia di incontrare “qualcuno” che , come
quella Suora semplice, gli insegni che “Cuore a Dio e mani al lavoro” è una semplice
ma efficace vitamina per l’anima di ognuno di noi. Grazie Suor Clotilde!
Luni, 20 luglio 2019
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Viaggio nei tetri romani d’Italia
di Giorgio Bottiglioni
I
Piceni a Teatro
Seconda parte
Il teatro romano di Ascoli
venne edificato addossandolo al Colle dell’Annunziata, un tempo detto Colle
Pelasgico, secondo l’antica tipologia del teatro greco. Presenta l’emiciclo
delle gradinate esposto verso nord, in modo da preservare gli spettatori
dall’esposizione del sole durante le ore diurne. La sua costruzione risalirebbe
al I secolo a.C. con successivi restauri ed ampliamenti nella prima metà del I
e II secolo d.C.; i settori che si distinguono nel corpo di fabbrica sono:
l’orchestra, la praecinctio e la cavea, destinata ad accogliere il pubblico, che si compone di 32 radiali visibili, dal
diametro massimo di 95 metri, realizzati in opera quasi reticolata con tessere
di travertino. L’edificio scenico giace per la maggior parte al di sotto della
Chiesa di Santa Croce. Nelle vicinanze dell’ingresso occidentale una bella
esedra semicircolare, del I secolo d.C., parzialmente interrata, mostra mura in
opus reticulatum. Questo spazio era
probabilmente utilizzato come sala d’aspetto.
Dopo Ascoli, lungo l’antica via Salaria Gallica, si incontrava Falerio
Picenus, oggi area archeologica del Comune di Falerone (Fermo), all’interno
della quale spicca, oltre alle tre grandi vasche del serbatoio dell’acquedotto,
il teatro romano, uno dei meglio conservati delle Marche: di questo si possono
tuttora ammirare il primo e il secondo ordine delle gradinate, parte
dell’edificio scenico e il prospetto del proscenio a nicchie circolari e
rettangolari alla base del muro del frontescena. Urbs
Salvia (Urbisaglia, Macerata) nacque come colonia nel II secolo a.C. in
corrispondenza dell’incrocio di due importanti strade: la prima, che fungeva da
decumanus maximus, univa Firmum (Fermo) a Septempeda (San Severino Marche); l’altra, che nel suo tratto
urbano costituiva il cardo maximus
della città, era la via Salaria Gallica.
Il parco archeologico della città si estende per circa 40 ettari ed è il più
spettacolare della Marche: sono visitabili il serbatoio dell’acquedotto romano,
il teatro, l’edificio a nicchioni, una struttura di contenimento che fungeva da
scenografico raccordo dei vari livelli della città, il complesso costituito da
un tempio dedicato alla Salus Augusta
e un criptoportico, e l’anfiteatro realizzato
in opera cementizia al di fuori della cinta muraria . Il teatro è senza
dubbio l’emergenza archeologica più monumentale, situato in posizione dominante
su uno dei terrazzamenti più elevati della città. la sua peculiarità è quella
di essere l’unico teatro romano ad aver conservato tracce di intonaco dipinto. Venne
costruito in opera cementizia con nucleo laterizio nei primi anni del I secolo
d.C. dal console Gaio Fuvio Gemino. Il corridoio anulare che circonda la cavea
era utilizzato dagli spettatori per distribuirsi nei tre ordini di gradinate,
ma aveva anche lo scopo di reggere la spinta esercitata dalla collina
retrostante e di drenare le infiltrazioni d’acqua. Alla sommità delle
gradinate, ripartite in sei cunei, è stata identificata la pianta di un
tempietto che sovrastava il teatro. La scena del teatro, della quale rimangono
le fondazioni, presenta al centro l’esedra semicircolare con la Porta regia (cioè l’entrata in scena
riservata agli attori protagonisti) e le Portae
hospitales ai lati; si notano inoltre le complesse canalizzazioni e gli
alloggiamenti per i macchinari di servizio. L’ampio terrazzo retrostante il palcoscenico,
sostenuto su tre lati da un poderoso muraglione, ospitava un ampio porticato
quadrangolare, la cosiddetta porticus
post scaenam. Lasciando per un attimo
la via Salaria Gallica, da Urbs
Salvia si poteva giungere a Firmum
(Fermo), colonia romana fondata nel 264 a.C. con la funzione principale di
tenere a bada gli spiriti insurrezionali dei Piceni di Ausculum. Oltre a tre grandi
necropoli di epoca villanoviana, Fermo vanta le “Grandi Cisterne”, dette anche
“Piscine Epuratorie”, grandi serbatoi d’acqua costruiti fra il 40 e il 60 d.C.
e rinvenuti sotto la Piazza del Popolo. Del
teatro romano è visibile solo un piccolo tratto di muro, mentre la cavea
attende gli studiosi sotto il vecchio palazzo Matteucci. Proseguendo verso nord
da Urbs Salvia, la via Salarias
Gallica conduceva a Helvia Recina nei
pressi dell’odierna Macerata. La prima notizia certa dell’esistenza di questa
città è tratta da Plinio il Vecchio, ma sicuramente esisteva in quest’area un
abitato italico fin dal III secolo a.C.; i monumenti visibili più importanti
risalgono all’Alto impero: una strada lastricata, il ponte romano sul fiume
Potenza, resti di ville decorate con mosaici pavimentali e il teatro
romano. Quest’ultimo aveva un diametro
di 72 metri, era a tre ordini di gradinate e poteva ospitare circa 2000
spettatori, probabilmente era ricoperto di marmi con capitelli dorici corinzi.
Sono ancora ben riconoscibili la cavea, l’orchestra e il fronte-scena in
laterizio. Uscendo dal territorio dei Piceni la via Salaria Gallica giungeva ad
Ostra nell’Agro Gallico, area abitata
fin dal IV secolo a.C. dai Galli Senoni. La città fu costituita municipium secondo la politica di
distribuzione di terre ai veterani di Giulio Cesare all’indomani della Guerra
Civile. In funzioni delle necessità di questa nuova situazione politica e
amministrativa, vi furono costruiti gli impianti urbanistici necessari: la
cinta muraria, il foro (fonti epigrafi che menzionano un Collegium fabrum ed un collegium
centonarionum come testimonianza della presenza di corporazioni artigiane),
un tempio (è attestato il culto della Bonadea),
un notevole complesso termale, ed eccezionalmente un teatro, la cui presenza
denota la vivacità dell’insediamento. Gli scavi recentissimi, dopo quelli d’inizio
‘900, hanno messo in evidenza un edificio scenico di 45 metri di diametro con
annesso porticato sul lato settentrionale.
Il nostro percorso archeologico nelle Marche si conclude a Fanum Fortunae (Fano), punto d’arrivo
sulla costa adriatica della via Flaminia. Pare che il nome della città derivi
da un tempio della Fortuna che sarebbe stato eretto a ricordo della battaglia
del Metauro (207 a.C.), nella quale i Romani sbaragliarono le truppe del
cartaginese Asdrubale. Il monumento antico più famoso è senza dubbio l’Arco di
Augusto, di fatto una porta monumentale d’ingresso alla città, dalla cui
iscrizione onoraria si apprende che il primo imperatore di Roma lo fece
costruire nel 9 d.C.; scavi recenti, condotti nell’area di via De Amicis, hanno
portato alla luce i resti di una cavea teatrale aperta verso oriente. I saggi
della prima campagna di scavo hanno intercettato una serie continua di 7
gradini in opera laterizia di sesquipedali in parte asportati in antico. Lo
scavo del 2002 ha restituito maggiore continuità visiva alla cavea, dove si
sono trovate alcune tombe medioevali, nonché una sola di servizio. (scalarium)
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Le nostre parrocchie
di Savio
È da tanto tempo che volevo
fare una riflessione sulla scarsa frequentazione dei fedeli nelle nostre
parrocchie. Mi piange il cuore nel vedere le nostre chiese sempre più vuote,
con pochissimi giovani che, dopo la Cresima, chi la fa ancora, spariscono e non
frequentano più.
Piccole comunità religiose, sacerdoti in età avanzata, quasi nulle le vocazioni
e le nuove ordinazioni sacerdotali, tanto che si è dovuto procedere
all'accorpamento di parrocchie con un solo parroco e la collaborazione di
sacerdoti provenienti da terre straniere, con la formazione di unità pastorali
che i Vescovi, un po' ovunque stanno facendo sorgere, per garantire una
presenza cristiana nelle varie località.
Si tratta di un tentativo per fermare un fiume in piena, con una diga del tutto
inadeguata e, a mio avviso, il tempo ci indicherà i risultati raggiunti.
Prima della rivoluzione Pasoliniana c'era un popolo cristiano con delle
dimensioni religiose che non sono mai morte, ma sono rimaste sepolte. Ritrovare
nelle 27.000 parrocchie queste dimensioni è, a volte, impresa davvero ardua. A
mio avviso assistiamo ad una difficoltà a riformarci. È forse questa una delle
cause che producono un lento ma continuo abbandono della fede? O siamo noi che
siamo diventati egoisti e cinici? Forse pensiamo solo al benessere e alle
ricchezze materiali? Forse siamo diventati in po' anarchici ed aridi nella
fede, talmente arroganti da pensare di poter fare a meno di Cristo. Perché oggi
essere cristiani non è facile. La via che porta alla salvezza è una via a volte
dolorosa, piena di sacrifici.
Mi piacerebbe vivere in un mondo dove lottare per le nostre radici ed identità
quali priorità, dove poter mostrare simboli religiosi, senza per questo essere
giudicati male e non doversi mai vergognare di essere cristiani. Inoltre è
assurdo non andare in chiesa solo perché chi la frequenta mi è antipatico o
perché il sacerdote non è come si vorrebbe che fosse. Chi sono io per
giudicare? Forse io sono un po' fuori dal coro!
Mi piacerebbe, cari lettore, avere la vostra opinione su questo annoso problema
che riguarda le nostre parrocchie.
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I Santi della porta accanto
di Giuliana
Chissà quante persone vivono
vicino a noi, nel silenzio, sopportando dolori, malattie, fatiche e
ristrettezze nella serenità, senza lamento! Talvolta di loro non sappiamo
neppure che esistono, perché non fanno rumore; sono come dei parafulmini
per tutta la comunità e dispensatori di luce. Papa Francesco li chiama "I
Santi della porta accanto ". Io ne ho conosciuto uno, si chiamava Gian
Piero, Piero per gli amici. Era una persona dolce e tranquilla quando una
tremenda malattia giunge a sconvolgere la sua vita e quella dei suoi cari, la
sclerosi multipla. Pian piano viene privato della sua
autonomia, giorno dopo giorno vengono a mancargli le forze fisiche tanto
da essere costretto in una carrozzina. Lo incontravamo ogni domenica sul
sagrato della chiesa ed era un piacere per tutti: non si lamentava mai, anzi
sosteneva con convinzione di non essere stato mai così bene! Era sempre
sorridente, oserei dire raggiante e pronto alle battute di spirito.
Merito delle care persone che gli stavano a fianco, ma anche di una fede
profonda: era tutto abbandonato alla volontà di Dio e ciò lo riempiva di amore,
gioia e sapienza. Sapeva sopportare il dolore, che talvolta era
tremendo, con pazienza e coraggio. Certo Piero è stato un dono per tutti
noi, ci ha insegnato a vivere, a vedere il bello della vita, nonostante tutto,
a capire che, se ce l'aveva fatta lui, anche noi potevamo sopportare ogni
dolore e continuare a godere della bellezza dei fiori, del battere d'ali degli
uccelli e delle farfalle, delle albe e dei tramonti, ma soprattutto dell'amore
infinito di Dio che ci sostiene e non ci abbandona mai.
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