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Carissimi
di Paola G.Vitale
Carissimi, oggi vorrei
ringraziare tutti, tutti voi che ho conosciuto, frequentato, incontrato, da cui
ho ricevuto gesti di amicizia e solidale conforto.
Vorrei anche dire grazie a nostro Signore, che mi ha posto in cuore la gioia di
godere del creato.
Nell'elenco delle mie piccole gioie, c'è una gamma molto estesa di meraviglia e
di incontro versa l'intera natura.
Vorrei ringraziare anche per i miei solitari pianti e le situazioni
difficoltose, da affrontare a viso aperto e fiducioso cuore. A questo punto mi
accorgo che non ho mai perduto la fiducia in Dio Padre, sempre affidandomi alla
preghiera cara a Maria Madre di Dio.
Sta venendo fuori una specie di testamento, ma va bene così!
Ringrazio anche per l'epoca che il Signore mi ha dato di vivere: un'epoca a
misura d'uomo, non ancora giunta all'informatica totale, sempre più completa,
per coloro che riescono ad inserirsi in quella dimensione troppo digitale e
geniale e sempre meno libera e umana. Troppe le occasioni che in essa portano a
disguidi ed immoralità di ogni genere, fino a produrre totale morte. Possa
vivere, a questo punto, la pace dell'anima, quella che ci viene da Cristo Morto
e Risorto il quale, senza satelliti e razzi, è andato a prepararci un posto in
cui restare felici assieme a Lui!
Facendo i dovuti complimenti ai vari "geni" che ci forniscono scoperte su scoperte,
strumenti su strumenti, possa emergere felice la cittadinanza dei figli di Dio,
che i grandi Santi anche della nostra epoca hanno contribuito a formare e
confortare. E possa essere serena gioia, quella di due anziani infermi, seduti
nella terrazza di casa a respirare un po' d'aria al tramontar del sole!
Vi abbraccio tutte e ciascuno,
con vivo affetto e riconoscenza.
Paola G.Vitale
( a
Luni Mare dal 24.2.1974)
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Dal Diario di un PELLEGRINO
di Gualtiero Sollazzi
CHE CI FACCIO NEL MONDO?
E’ una domanda questa colma di
tristezza, con dentro la certificazione di inutilità. Molti se lo chiedono,
aspettando, forse, smentite compassionevoli. Pensare però che la propria vita
non serve a nessuno, è il massimo dello sperdimento. Siamo storditi dall’idea
condizionante che vali se fai; il non poter operare crea il panico morale e ci
sentiamo perduti. Inutili, appunto. Il credente sa che il Maestro la pensa ben
diversamente: “Gli ultimi saranno i primi” e al banchetto di Dio entreranno “gli
storpi, i ciechi, e gli zoppi…” Come dire, quelli che non contano nulla agli
occhi degli stolti. Federico Fellini nel suo film “La Strada”, si fa
catechista. Un matto mostra un sassetto alla disperata Gelsomina, “testa di
carciofo”. Vuol convincerla che lei pure ha un posto nel mondo. “A cosa serve
il sassetto? Se lo sapessi sarei il Padre Eterno. Ma a qualcosa deve pur
servire questo sasso, se no, tutto è inutile, anche le stelle!” La tessera di un mosaico, da sola, appare
inutile; eppure serve per creare splendenti opere d’arte.
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IL PRINCIPE TESSITORE
di Millene Lazzoni Puglia.
Questa favola, di autore
ignoto come spesso accade, è antica, ma ancora attuale ed è nei miei ricordi da
sempre, tanto da decidere di scriverla per i piccoli, e non, lettori de “Il sentiero”.
C’era una volta ….. un principe che si
era innamorato profondamente di una fanciulla di umili origini, bellissima e molto dolce. Innamoratissimo le
chiese di sposarlo. Con grande sorpresa lei non accettò il suo amore, poiché,
essendo ricco, non lavorava e non conosceva alcun mestiere.
Allora il principe decise di mettersi a lavorare imparando a tessere tappeti:
lavoro molto impegnativo dove necessità una buona dose di creatività e
manualità. In breve tempo seppe
diventare bravissimo.
I tappeti che creava erano meravigliosi, sia per i disegni che per gli
accostamenti dei colori. Ovviamente la fanciulla, conquistata dalla
determinazione nell’imparare un mestiere così difficile per amor suo, fu
felicissima di sposarlo.
Un giorno il principe fu rapito dai banditi, i quali, credendolo un incapace,
gli dissero che l’avrebbero liberato solo se fosse stato in grado di costruire
con le sue mani qualcosa d’importante da lasciare a loro come riscatto. Il principe non si scoraggiò, anzi chiese che
gli fosse dato un telaio con dei fili a più colori, che lui in breve tempo
trasformò in uno splendido tappeto. I banditi mantennero la promessa: ottenne
la libertà, salva la vita e il ritorno a casa dal suo grande amore.
Questa favola insegna che saper fare e costruire qualcosa che metta in evidenza
il proprio talento è una grande ricchezza quando si è poveri ……. Ma può esserlo
anche quando si è già ricchi, perché è la dimostrazione che il benessere non è
una fortuna capitata per caso, ma che deve essere supportato dalle proprie
capacità.
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IL RICCIO E LA LEPRE
di Lorenzo Rossi Centori
L RICIO
E LA LEORA
N dì nt la Vaghja la leora la
ncontr l ricio e la gh dish: “ O ndrest meio, ricio, so n’es i pé storti.” L ricio i s’arsent d cola
parola: “ Gh’è pogo da ridr, i me pé storti dhj’en pù svelti dì vostri chi
dhj’en driti. Fian la corsa e miran chi arìo primo. Fem ndar a kà a metr la
scarpa e a son fito da vò.” La leora la
ris a cola sbruffonata, ma l ricio serio e mptito i va a kà e i dish ala moghja:
“ Moghja, prparev k’andhjan al campo, a dhj’ò scumiso con la leora k’arìo primo
ala corsa.” A cola noèda la moghja la s’arabiest ka n’v digh. La dis chi dhj’er mato a voler far la corsa
con la leora, che tut’i san che la leora d’à la gamba bona e nveci lor dhj’an i
pé storti, dhj’en lofi a mors e quand’ì deon ndar da carchev parta i deon
partir k d’enk nota pr’ ariar l dì k ven, e sì ns’avrgogneo d quedo k d’arest
dito la genta. Ma l ricio, chi dhi’ao scì i
pé storti, ma dhj’er d c’rvedo fin, i n sntìo rashon: “ Me a digh ko v
sbaghié.D’è vera che la leora d’è pù svelta d gamba, ma me a son pù svelto d
testa. Fe com’à digh e mushinev nveci d thjathjrar, k’andhjan.” La moghja la
s’amanish e dhj’ arìon al campo che la leora d’ao ngià vangato. L ricio i dish ala moghja: “
Apiatev ntl sorco senza farv scorshr che me e la leora a ndhjan là n fondo a
prparars ala corsa. Dopo ka san pertiti a m’argir ndreto, e quand la leora
d’ariorà aond’ò sen mo, vò nsciré dal sorco e o gh diré : “ D’è da col dì ka v
spet. Quela la nv’ arconoshrà e la pnrà ka son me. Eh ben capito?” “Va ben, a dhj’o capito” la dish la moghja e la s’apiat ntl sorco nt
col mentr ch’i do i van n cò al campo e far la corsa. Ma lì la gh’er la moghja dl ricio: “Ekv
ariata, finalmente. D’è da col dì ka v spet.” La leora, k la nd’ao arconoshuta
e gh pareo chi fùs l ricio, la pens: “ Com’ì dhj’arà fato a pasarm avanti senza
ka mn’acorges?” “ Dai - la
fa - fian n’altra corsa.” “ Fianl – la dish la moghja dl ricio. – La leora la s’argir e via,
pareo che la voles, e nt’n lampo d’arìo d’aond dhj’ern partiti. E lì i gh’er l
ricio a sptarla: “ Ah!! O sen ariata dop tanto. D’è da col dì ka v spet.” “ Kì la gh’è carcò k n và - la
pens la leora - lukì dhj’è n furbon e
d’è thjara ch’imbroghj. Però a n’acapish aond’ì stio d’mroghjo.” “ Fian n’altra corsa, so né
voghja” la dish. “ Fianla” - i dish d’acordhjo l ricio. La leora nt’n balzo d’er
ariata, ma la moghja dl ricio d’er là a sptarla. E cuscì i continuestn, nsina a che la leora
la n’n podest pù, e stranata ntl campo straca da non dir, coi pé kì n’s voleon
pù mòr, la dish: “ Basta!! O dhj’è vinto vò. Però carcò m dish k la n’è tuta
farina dl vostro saco.” I dish’n che da cod’olta la
leora la ns’avshin’n pù ai rici pr paura d perdr n’altra scumisa.
Un giorno nella Vaglia la
lepre incontra il riccio e gli dice: “Camminereste meglio, riccio, se non
aveste i piedi storti.” Il riccio si
risente di quelle parole: “C’è poco da ridere, i miei piedi storti sono più
veloci dei vostri che sono dritti. Facciamo la corsa e vediamo chi arriva
primo. Vado a casa a mettere le scarpe e sono subito da voi.” La lepre rise a quella sbruffonata, ma il
riccio serio e impettito va a casa e dice alla moglie: “Moglie, preparatevi che
andiamo al campo, ho scommesso con la lepre che arrivo primo alla corsa. A quella novità la moglie si
arrabbiò molto. Disse che era matto a voler far la corsa con la lepre, che
tutti sanno che la lepre ha gambe buone e invece loro hanno i piedi storti,
sono lenti a muoversi e quando devono andare da qualche parte devono partire
all’alba per arrivare il giorno dopo, e se non si vergognava di quello che
avrebbe detto la gente. Ma il riccio, che aveva sì i piedi storti, era di
cervello fino, non sentiva ragioni: “Io dico che vi sbagliate. E’ vero che la
lepre è più svelta di gambe ma io sono più svelto di testa. Fate come vi dico e
spicciatevi che andiamo.” La moglie si
prepara e arrivano al campo che la lepre aveva già vangato. Il riccio dice alla moglie: “Nascondetevi nel
solco senza farvi vedere che io e la lepre andiamo là in fondo a prepararci
alla corsa. Dopo che siamo partiti mi rigiro indietro, e, quando arriverà dove
siete ora, uscirete e direte: è da quel dì che vi aspetto. Quella non vi
riconoscerà e penserà che sono io: Avete capito bene?” “Va bene, ho capito”, dice la moglie e si
nasconde veloce nel solco, mentre i due vanno in fondo al campo per la corsa.
Come la lepre balza avanti il riccio si rigira e si nasconde veloce nel solco,
mentre la lepre in un soffio arriva alla fine della corsa. Ma lì c’era la
moglie del riccio ad aspettarla. Dice la
moglie del riccio: “Eccovi arrivata, finalmente. E’ da quel dì che vi
aspettavo.” La lepre, che non l’aveva
riconosciuta e le sembrava che fosse il riccio, pensa: “Come avrà fatto quello
lì a passarmi avanti senza che me ne accorgessi?” “ Dai
- dice - facciamo un’altra corsa.” “Facciamola”, dice la moglie del riccio. La lepre si rigira e via,
pareva che volasse, ed in un lampo arriva da dove erano partiti. E lì c’era il
riccio ad aspettarla: “Ah!! Siete arrivata dopo tanto. E’ da quel dì che vi
aspettavo.” “Qui c’è qualcosa che non va - pensa la lepre - costui è un furbone ed è chiaro che
imbroglia. Però non capisco dove sia l’imbroglio.” “Facciamo un’altra corsa se ne avete voglia”,
dice. “Facciamola” dice d’accordo il riccio.
La lepre in un balzo arriva a destinazione, ma lì c’era già la moglie
del riccio ad aspettarla. E così
continuarono la gara fino a che la lepre non ne poté più e sdraiata nel campo
stanca morta e con i piedi che non volevano più muoversi, dice: “Basta!! Avete
vinto voi. Però qualcosa mi dice che non è tutta farina del vostro sacco.” Dicono che da quella volta la
lepre non s’avvicina più ai ricci per paura di perdere un’altra scommessa.
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RIFLESSIONI E… NON SOLO
di Antonio Ratti
Avevo preparato questo scritto
nel mese di marzo per la quaresima, poi ho ritenuto “Alfa ed Omega” più pertinente al periodo pasquale; del resto ciò che
segue è attuale e attinente “366” giorni l’anno.
E’ un po’ di tempo che mi ronzano in testa alcune considerazioni, forse troppo
semplici per essere scritte e proposte alla lettura, ma in una società globale,
che, a causa delle abbaglianti suggestioni suggerite dalla tecnologia, è in
pieno regresso e imbarbarimento culturale, morale, sociale ed economico, anche
elementari osservazioni possono trovare il loro dignitoso spazio. Lungi da me
l’idea dell’uso di un linguaggio da ritiri spirituali quaresimali per
carmelitane scalze di clausura, vorrei affrontare l’assoluta importanza della
famiglia e del clan familiare (nonni, zii, consanguinei e parenti stretti) come
istituti educativi e sociali che dall’antichità, addirittura preistorica, hanno
avuto sempre somma considerazione, sebbene accompagnati da forti limiti e gravi
incongruenze. Basta ricordare come per l’Antico Testamento e per i Vangeli
Giuseppe appartenga alla casa e stirpe di Davide, vissuto 900 anni prima (Betlemme
1040 a.C. – Gerusalemme 970 a.C.), mentre oggi si fa fatica ad andare a ritroso,
quando va bene, oltre il bisnonno. Perché tanta attenzione all’istituto
familiare? Perché quei nostri lontanissimi antenati avevano compreso come il
suo buon funzionamento fosse essenziale per un armonico equilibrio interno e
per la nascita di una struttura sociale più ampia. A questo punto mi diventa
opportuna la domanda: Perché esiste la procreazione? Il creato, fino a che Dio
vorrà, per conservarsi nel tempo deve essere un sistema in equilibrio dinamico,
non statico, quindi anche la flora vegetale e la fauna animale, cui
apparteniamo, per esserne partecipi devono riprodursi: ecco spiegato il
concetto di maschio e di femmina, sia per le piante che per gli esseri viventi.
Forse è impossibile immaginare appieno lo stupore shoccante di quando l’homo erectus e la femina hanno avuto la certezza che un rapporto fisico non è fine a
se stesso e all’immediato piacere, ma è finalizzato alla nascita di una nuova
vita che, fragilissima e non autosufficiente, ha la necessità di essere
accudita con premura in tutto per un periodo discretamente lungo. E’ molto probabile
che sia nata così la prima rudimentale famiglia. Già l’antichissima letteratura
epica sumerica e poi omerica, ci mostrano quanto sia radicato il concetto di
famiglia e di clan familiare: è sufficiente ricordare la numerosa famiglia,
formata da figli (n.50), figlie (n.50), nuore, generi e nipoti il cui capo carismatico
è Priamo, re di Troia. Analoga situazione è testimoniata dall’Antico Testamento,
quando Abramo è sollecitato da Dio a prendere il suo ristretto nucleo familiare
e lasciare il clan di appartenenza in quel di Ur (Mesopotamia) per seguire il
proposto progetto divino della terra promessa e del popolo eletto. E’ evidente
quanto la famiglia fosse ritenuta un’istituzione determinante quale base della
società civile, ma ha palesi imperfezioni, per esempio, è maschilista, perché
l’uomo è capo assoluto con ogni licenza, potere e diritto, anche di vita e di
morte (Le famiglie allargate con concubine e il femminicidio hanno origini
remote. Il Vangelo ci ricorda l’adultera condannata alla lapidazione e Gesù che
la salva dicendo: “Chi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei”
). Solo l’insegnamento di Gesù ha indicato il significato preciso e chiaro
dell’unione tra l’uomo e la donna fino ad elevare tale unione a sacramento
indissolubile: siamo passati dall’attrazione e dal piacere fisico dell’homo erectus all’unione che coinvolge la
mente e il cuore nella totale condivisione di un progetto di vita comune e di
amore. La regressione etica di cui parlo all’inizio si concretizza anche nell’amarcord, cioè nel vizietto di voler
tornare alla violenza dell’uomo primordiale, ma con tutte le comodità di uomo
moderno. La famiglia nei secoli non ha mai avuto vita facile, sebbene, come
detto, fosse ritenuta il focus
centrale di ogni civiltà, tanto che, per esempio, Cesare Ottaviano Augusto, tra
i tanti nei secoli, per dare una base sociale e politica più stabile al suo Impero
che, giunto all’apice della potenza, mostrava palesi segni di involuzione
soprattutto morale, presta molta attenzione all’istituto familiare emanando
leggi e riforme atte a ripristinarne legittimità e sostanza. Bene…Oggi cos’è la
famiglia? Troppo spesso un appartamento in cui hanno residenza un gruppetto di
soggetti anagraficamente legati tra loro a vario titolo, che convivono
subendosi o prevaricandosi nei diritti, molto meno nei doveri, e quasi sempre
in totale libertà; difatti si convive finché fa comodo; si cambiano i partners
quando l’amore finisce ( pardòn, l’attrazione ); sono presenti minori magari provenienti da genitori diversi,
sottovalutando, peggio, non volendo vedere i loro disagi. Quanto sopra è tutto
definito con precisione: famiglia allargata dove i ruoli educativi sono fumosi,
se non inesistenti. Chi ha doveri, responsabilità educative e di guida alla
crescita? Bella domanda retorica. Tutto si esaurisce nel garantire il
sostentamento materiale. Se è vero che l’uomo non vive di solo pane, è
sufficiente? A volte il minore è utilizzato come arma di ricatto, altre volte
fa comodo ignorarlo: in entrambi i casi il legame genitore-figlio è stravolto e
si fa disvalore. Il contadino sa bene che una pianta cresce in salute e dà
frutti adeguati se potata e curata, altrimenti inselvatichisce, riducendosi ad
una sterile sopravvivenza (l’evangelico fico che non fa frutti ). In Italia
abbiamo quattro milioni di giovani tra i 16 e i 25 anni che non studiano, né
lavorano, né hanno un mestiere, cioè sono giovani senza sogni e obiettivi,
morti dentro. Perché? Andiamo ad analizzare l’habitat da cui provengono. Chi ha
negato e nega loro il diritto di apprendere i giusti stimoli esistenziali che
danno senso a concrete aspirazioni? Chi nega loro la possibilità di volare
verso méte sostenibili e diventare onesti protagonisti della società presente e
futura e non i nuovi paria, cioè un
peso fastidioso e pericoloso da ghettizzare nelle periferie, facili prede e
vittime, al tempo stesso, di ogni bruttura e illegalità? Se e quando si vuole
condividere con un altro qualcosa che si ritiene di fondamentale importanza è
necessario cancellare la prima persona singolare, quella dell’Io egoistico ( io
ho le mie esigenze e voglio vivere la mia vita ) ed usare solo la prima persona
plurale, il Noi della condivisione. Concetto semplice, se non banale, eppure il
solo in grado di dare fondamenta solide a ciò che si vuol costruire per dare
una giustificazione vera all’esistenza. Troppo spesso, però, questo concetto
finisce nella totale dimenticanza, come cosa demodé e superata, ma ne paghiamo
sempre più le conseguenze, specie i giovani disorientati e animalescamente
violenti, abulici e frustrati, tristi e depressi che cercano nel gruppo e nella
chimica una fugace e distruttiva energia.
“Non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere” sentenzia un vecchio proverbio.
Conclusione.
Se ha un valore importante la vocazione al servizio sacerdotale, pari
importanza ha la vocazione al matrimonio
e alla genitorialità - entrambe sono confermate da un sacramento e non esistono
sacramenti di serie A e di serie B - perché ambedue le vocazioni hanno il medesimo
obiettivo e traguardo: dare il proprio appassionato contributo al progetto di
salvezza di Dio Padre: progetto che ha un percorso terreno di preparazione
consapevole scandito dalla fede.
Post Scriptum. Oggi si pensa furbescamente di aggirare le
responsabilità civili, religiose e morali del matrimonio attraverso la
convivenza che rappresenta il tanto praticato “lavoro in nero” di evasore dell’amore e della genitorialità veri. |
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VIAGGIO NEI TEATRI ROMANI D’ITALIA
di Giorgio Bottiglioni
I
PICENI A TEATRO
(PrimaParte)
Secondo la tradizione riportata da alcuni
storici romani i Piceni sarebbero una civiltà preromana originaria dell’Alta
Sabina giunta nel territorio del medio Adriatico in seguito ad un ver sacrum (primavera sacra), una specie
di migrazione rituale che sarebbe stata condotta da un picchio (picus in latino), da cui deriverebbe
l’etnonimo. Secondo alcuni studiosi moderni tale migrazione sarebbe partita da
un santuario dedicato ad Ares nei pressi di Amiternum
(San Vittorino, l’Aquila) dove un picchio prediceva il futuro e, passando
per Amatrice sarebbe giunta fino ad Ascoli. Di certo si sa che genti
tosco-umbre penetrarono in Italia intorno al XII secolo a.C., ma non è noto il
momento in cui tali genti si stabilirono nel Piceno dando origine alla civiltà
omonima. Nel I millennio a.C. i piceni erano stanziati nel territorio compreso
tra i fiumi Foglia e Aterno, delimitato ad ovest dall’Appennino e a est dalle
coste adriatiche. Gli insediamenti marittimi distavano dal mare mediamente 7-8
Km, per essere protetti dalle incursioni piratesche. Agglomerati urbani non
sono attestati né a fondovalle, per il pericolo della malaria, né in prossimità
degli estuari dei fiumi, generalmente paludosi. Prima dell’arrivo dei Romani i
Piceni erano circondati da altre popolazioni dai caratteri fortemente diversi:
a nord si erano stanziati dal IV secolo a.C. i Galli Senoni di origine celtica
che avevano il loro centro principale a Sena Gallica ( Senigallia ); a ovest,
oltre l’Appennino, si trovavano gli Umbri e i Sabini; a sud vivevano i Pretuzi,
un popolo italico di modeste dimensioni che aveva come capitale Intermana Pretuitiana (Teramo); sulla
costa i Greci di Siracusa avevano fondato la colonia di Ancona; a est, oltre il
Mar Adriatico, vivevano gli illiri balcanici che, secondo molti studiosi
moderni, ebbero notevole influenza sulla cultura picena. Quando, intorno al 280
a.C., i Romani ebbero assoggettato tutti i popoli confinanti coi Piceni,
questi, seppure dapprima fossero stati sempre alleati di Roma, si sentirono
circondati e organizzarono una rivolta sedata nel sangue in due campagne
combattutissime nel 269 e nel 268 a.C.; molti Piceni furono deportati nella
Marsica o in Campania, mentre nel 264 a.C. veniva dedotta la colonia latina di
Fermo, col compito specifico di tenere sotto controllo Ascoli. Durante le
Guerre Puniche i Piceni rimasero fedeli a Roma, ma nel 91 a.C. furono tra i
principali promotori della Guerra Sociale, con cui i popoli italici chiedevano
che fosse loro estesa la cittadinanza romana, poiché, pur avendo contribuito
all’espansione di Roma, continuavano ad essere discriminati legislativamente
rispetto ai Romani. Tale guerra si protrasse sino all’89 a.C. quando la città
di Ascoli cedette all’assedio dell’esercito romano, fu rasa al suolo e i suoi
cittadini privati di ogni proprietà. Al termine del conflitto, i Piceni furono
ascritti nella tribù Fabia, ottenendo la cittadinanza romana e completando il
processo di romanizzazione della popolazione Picena, iniziato bel III secolo
a.C. In età romana il Piceno era attraversati
da nord a sud da due strade, la Salaria Gallica e la Salaria Picena, entrambe
collegamento fra la via Flaminia e la via Salaria: la prima collegava Forum Sempronii
(Fossombrone-Pesaro-Urbino) ad Ascoli passando nell’interno, la seconda partiva
da Forum Fortunae
(Fano-Pesaro-Urbino) e, passando lungo la strada adriatica, arrivava a Castrum Truentinum nei pressi di Porto
d’Ascoli. Percorrendo la via Salaria
Gallica da Ausolum verso nord si
incontravano numerosi centri che ancora oggi possono vantare i fasti di un
tempo. Le origini della città di Ascoli
sono avvolte nel mistero, ma è certo che vi fosse una presenza umana fin
dall’età della pietra. Della tradizione che verrebbe un gruppo di Sabini giunti
qui seguendo un picchio già s’è detto; sicuro è che Ascoli fu sempre il centro
principale della cultura e della politica picena sia prima che dopo l’arrivo
dei Romani. Sorgendo sulla via consolare
Salaria che da Roma giungeva all’Adriatico, Ascoli fu sempre considerato un
centro strategico, tanto che in epoca imperiale divenne una città molto
fiorente adornata di ville, templi, terme. Teatri, strade, ponti e
fortificazioni. Avendo goduto di
un’urbanizzazione pressochè continua non è facile oggi identificare l’antica
struttura romana: si riconoscono due ponti romani, uno sul torrente Castellano
ricostruito dopo il bombardamento del 1944 e l’altro sul fiume Tronto, due
templi pagani, poi trasformati nelle chiese di S. Gregorio Magno e S. Venanzio,
la Porta Gemina, con resti di mura in opus
reticulatum, l’anfiteatro, sotto l’attuale piazza S, Tommaso, e il teatro,
riportato alla luce tra il 1932 ed il 1959, ancora oggi oggetto di scavo. |
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IL PIFFERAIO MATTO
di Mila
Domenica scorsa è stata una
bella domenica, c'erano due bambini, fratello e sorella a, fare i chierichetti,
erano già due o tre domeniche che don Alessandro si trovava ad officiare da
solo. E' bello vedere i chierichetti che aiutano il parroco nell'officiare la
Santa Messa, quando il parroco è lì tutto solo a me fa tanta tristezza e penso
sempre: “Ma dove sono i bambini, i ragazzi, i giovani di Luni Mare? E' forse
passato questa notte il pifferaio matto e li ha tutti portati via? Lo hanno
tutti seguito ammaliati dal suono del suo piffero magico?” Veramente c'è un
ragazzo che viene tutte le domeniche ma non so il perché non se la sente di
fare il chierichetto, fino a qualche settimana fa veniva suo fratello e, dico
la verità, ci tenevo proprio a vederlo crescere all'ombra dalla nostra piccola
chiesa ma poi si è fatto ammaliare dal coro della chiesa di Isola e così, la
domenica, va a Isola. Mi dispiace un po' ma l'importante è che vada a Messa la
domenica. Ma gli altri dove vanno? Tutti gli anni è la stessa storia, come
arriva l'estate in chiesa non ci viene più nessuno a parte il solito piccolo
gruppetto di fedelissimi; per fortuna ci sono i villeggianti a riempire la
chiesa, ma anche fra di loro giovani pochi. Succede anche per i sacramenti, i
bambini vengono in chiesa fino alla Cresima, la domenica dopo la Cresima non li
vedi più, il pifferaio ha incominciato a suonare e allora...la domenica si
devono riposare perché durante la settimana ci sono troppi compiti e loro sono
stanchi, poi ci sono le partite di calcio, le gare di ballo, gli allenamenti di
judo, i genitori che vogliono stare un po' con i figli perché durante la
settimana devono lavorare e così la domenica vogliono divertirsi tutti assieme
e poi c'è il parroco che è così, il vescovo che è cosà, e figuriamoci le
beghine...e il pifferaio suona e suona. Mi dicono che nelle altre parrocchie è
più o meno la stessa storia, ci sono parroci sfiduciati che vorrebbero addirittura
abolire i sacramenti e altri che dicono Messa, almeno nei mesi estivi, anche
alle nove di sera. Questa mamma della nostra
parrocchia che manda i suoi due ragazzi alla messa tutte le domeniche mi diceva
che lo fa per fede ma anche perché, nonostante tutto, considera la Chiesa
ancora Mater et Magistra, e spera tanto che mettendo i suoi figli sotto la
protezione di Dio riusciranno a superare tutte le malvagie occasioni che la
vita ci presenta in continuazione. Ma in quanti oggi pensano ancora che noi
abbiamo bisogno dell'aiuto di Dio per andare avanti? L'antico peccato che ci fece
perdere il paradiso terrestre tanto tempo fa mi sembra sia tornato più forte
che mai: orgoglio, indifferenza, ignoranza e così via. Quando ero ragazza c'era una
donna al mio paese che diceva sempre: “Se Dio non esistesse bisognerebbe
inventarlo perché senza di Lui non si va avanti.” Ma non c'è bisogno di
inventarLo, Dio ce l'abbiamo, è venuto suo figlio Gesù a parlarci di Lui, è
stato messo in croce per i suoi insegnamenti. C'è la Chiesa che avrà anche
tante pecche ma ha anche tante virtù e tanti martiri e tanti sacerdoti che
lavorano senza risparmiarsi nella vigna di Nostro Signore e se noi invece di
guardare sempre le cose che non vanno ci ricordassimo un po' di più di quel
comandamento che dice:” ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con
tutta la tua anima e con tutta la tua mente, ama il Prossimo tuo come te
stesso.” Forse le cose al mondo andrebbero meglio, forse andrebbe bene anche il
clima, forse ci sarebbe un freno alla droga ma...noi preferiamo seguire il
pifferaio matto, è certamente più facile e divertente. |
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ESTATE STAGIONE AMATISSIMA
di MARTA
Per me, l’estate ha sempre rappresentato la stagione della gaiezza, delle vacanze, dei ricordi e dei
colori, soprattutto il colore del rosso, come quando da fanciulle mettevamo le
ciliegie alle orecchie, il fiore del melograno in testa oppure il
ghiacciolo alla fragola, che lasciava il rosso sulle labbra e l’anguria. Con il
cocomero in quelle estati vi era un rito: dopo cena i ragazzi di sedici anni
(con l’obbligo di rientro delle ore 22) che con la promozione scolastica, quei
genitori che potevano permetterselo, regalavano loro il motorino, il famoso
“ciao” della Piaggio, o la "vespetta primavera” o il “garelli”, si recavano
senza casco e in due sul litorale di Marinella dove vi erano punti di vendita
del cocomero (qualche tavolo, un ombrellone, qualche sedia di plastica). Qui il
cocomero veniva servite a fette belle fresche ed era la gioia di tutti, era la
libertà dei ragazzi che cominciavano così a sconfinare oltre il limite del
paese. Era anche il tempo dei primi batticuori! Le granite con tutto quel
ghiaccio tritato, la spuma e la gassosa, avevano un sapore di buono. Nelle
balere suonavano i dischi più in voga del momento; io ero una patita del rock
and roll, il mio mito è stato Elvis Presley, Little Richard, Billy Haley, Chubby
Checher! Le serate erano piene di profumi di tiglio, di gelsomino e di
ligustro; le lucciole illuminavano il buio con le loro luci intermittenti.
Tenevamo le finestre sempre aperte, aspettando la frescura della notte, la casa
si impregnava di profumi, e ci si addormentava respirandone a pieni polmoni
accompagnando così i nostri sogni. Il mare, i bagni, le scorribande, le
fotografie dopo averle scattate si trepidava per due o tre giorni, aspettando
che il fotografo sviluppasse il rullino, ma ahimè c’erano pure i compiti delle
vacanze da terminare prima del rientro…. e poi le cartoline da spedire ai
nonni, zii ed amici! Si guardava all’America come al nuovo, al moderno; nei
cinema andavamo a vedere i nostri attori preferiti come Vacanze Romane con
Audrey Hepburn e Gregory Peck, Il Sorpasso con Vittorio Gassman, La Dolce Vita
di Fellini e tanti altri…. Tutto questo ci portava a migliorare la nostra vita!
Oggi l’estate ha un sapore più maturo, più rassicurante, ma la gioia e la
spensieratezza di quei giorni sono tutti lì e so che mi accompagneranno per
tutte le estati che avrò la fortuna di vivere!
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