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IL LUNGO CAMMINO DEI JEANS
di Millene Lazzoni Puglia
Nella scorsa estate neanche la
mia nipotina Giada, di quasi nove anni, è rimasta immune dalla moda, ormai
diffusissima tra i giovanissimi e i giovani, dei pantaloni jeans “strappati”
alle ginocchia; moda che attrae per emulazione anche tanti bambini senza
distinzione di sesso. Erano nati oltreoceano come robusto
abbigliamento da lavoro; infatti ricordo benissimo, per averlo visto fare in
famiglia, come 50 anni fa venissero rammendati con toppe di stoffa cucite a
mano per rimediare all’usura e nessuno poteva immaginare che questa necessità,
legata alle ristrettezze economiche di quegli anni, potesse diventare una moda
travolgente. Il tessuto jeans, proveniente dall’America, e, come mi risulta,
sviluppatosi a Genova nel dopoguerra per vestire i lavoratori del porto, ne ha
fatta di strada … prima di arrivare ad ostentare i “buchi” alle ginocchia, e non solo, com’è di gran moda oggi. Il pantalone jeans, molto
pratico e resistente, è stato vestito in tutte le salse: si va dal lavoro allo
sport e a mille altre occasioni di svago e di riposo, fino ad essere abbinato a
capi eleganti come giacche e pellicce. Spesso si vedono delle varianti
arricchite con ricami colorati e brillantini, offrendo ampio spazio alla
fantasia sia per i pantaloni lunghi che corti. E’ noto che l’impiego di questo
tessuto è passato dai pantaloni a molti altri capi d’abbigliamento come
giubbotti, abiti, gonne e altro, portati da maschi e femmine di ogni età. Gli ottantenni di oggi hanno
visto nascere, nei lontani anni ’50, il primo capo jeans sotto forma di
pantalone dal caratteristico colore blu. Tra costoro ci sono anch’io con il
mio, allora fidanzato, Silvano; anzi, era stato lui il primo ad averli adottati
ed io l’avevo seguito. Molti non li scoprirono subito o non vollero farlo, ma
in seguito pochissimi non li hanno mai indossati: direi, nessuno, perché quel
pantalone, che diventava sempre più bello man mano che l’uso lo scoloriva, aveva
conquistato tutti diffondendosi in modo inarrestabile. Personalmente conservo un
ricordo straordinario legato a quei primi pantaloni jeans, perché risalgono ad
un periodo magico della mia vita, quando iniziava la mia storia d’amore con
Silvano, compreso il viaggio di nozze in Spagna con il treno nel lontano 1962.
Quella indimenticabile vacanza a Barcellona per noi è stata anche l’occasione di
sfoggiare i nostri jeans e ci sentivamo così moderni da suscitare, forse, un
po’ d’invidia. A passeggio per le strade di quella bellissima città, alla
gente, con nostra piacevole sorpresa, destavamo attenzione e curiosità e ci
guardavano in modo quasi inquietante, ma c’era una giusta motivazione:
all’epoca la Spagna era ancora governata dalla dittatura del generalissimo
Franco che aveva frenato ed ostacolato il percorso verso la modernità che è anche
sinonimo di libertà. I segnali in
questo senso si notavano anche in altre
situazioni; per esempio, nell’albergo dove alloggiavamo ( Calle Sant’Anna) le addette
alle pulizie lavavano i pavimenti con le mani e inginocchiate per terra, mentre
in Italia ormai era un ricordo risalente alla servitù degli antichi nobili del
passato. Una sorpresa, per noi molto positiva, che ci aveva permesso di fare quella meravigliosa vacanza a prezzi
molto bassi, era il costo della vita decisamente più economico del nostro. Tornando agli amati jeans, che hanno accompagnato e
accompagnano le varie stagioni delle nostre vite, sembrano non subire il
logoramento del tempo come accade per la costosa moda. Credo che le nuove generazioni
di giovani sapranno trovare nuove e interessanti versioni e soluzioni
stilistiche per questo magico tessuto e indumento, ma che non siano quelle
della voluta distruzione con strappi e sfilacciamenti, riscoprendo un impiego
più razionale e meno appariscente.
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Viareggio
di Romano Parodi
Viareggio
Nel salotto di Salomea Kruceniski, la Callas del suo tempo -
Una madame Butterfly famosa in tutto il mondo, che, venuta da Puccini, conobbe
e sposò il sindaco di Viareggio, Cesare Riccioni -. Nel suddetto salotto, sulle
pareti, vive un po' della vecchia «bohème» torrelaghese di Salomea: morti e
vivi. Sopra una fotografia piratesca dell’amico Plinio Nomellini, ce n’é una di
Ceccardo con due dediche: “A donna
Salomea Kruceniski canora anima di lodola pel deserto del mondo: Salomea, una goccia del tuo profumo basta a
riempire la mia stanza, un po’ della tua amicizia basta a colmare la mia vita”. - “Ceccardo, il più compito cavaliere
che io abbia conosciuto». Ceccardo, conobbe anche la Duse e la
danzatrice americana Isadora Duncan, la più grande ballerina del suo tempo, e
ammirò così estasiato la sua danza: “l’onda del mare e della luce”,
che quella notte, a Torre del Lago, non riuscì a dormire: “Oh Isadora, questa notte ho pianto, ed ora il
vento del mattino ascolto”. La Duncan, vita dissoluta e
tragica (ebbe una relazione anche con D’Annunzio, e, dicevano, anche con la
Duse), aveva appena perso i due figlioletti, tre e sette anni, ed Eleonora Duse
la invitò a Viareggio per aiutarla a riprendersi dalla disperazione in cui era sprofondata.
I bimbi annegarono nella Senna assieme alla bambinaia, perché l’autista scese
senza mettere il freno a mano. In seguito ebbe un altro figlio da un italiano
ed anche quello mori presto. Tutti da uomini diversi. Nel ‘22 sposò il grande
poeta russo Esenin, giovanissimo, che dopo solo due anni di convivenza in giro
per il mondo “come accompagnatore frustrato”, tornò in patria e s’impiccò:
aveva trent’anni. Quella di Isadora fu una vita a tutta velocità (Emy..). Terminò
nel ‘27, strozzata dalla lunga sciarpa che sempre portava: Lanciata a tutta
velocità lungo le strade di Nizza, la sciarpa, s’impigliò nella ruota
posteriore della Bugatti del suo nuovo amante e la strangolò. Le ruppe
addirittura l’osso del collo. Giorni
prima, dopo l’ultimo suo ballo all’Etoile de Paris, intervistata disse: “E’ strano, avevo l’impressione
di camminare verso la mia tomba, sentii come un vento ghiacciato, e dopo, nella
melodia della resurrezione, una specie d’estasi, che non mi sembrava di questo
mondo”. “DOPO ISADORA IL MONDO NON E’ PIU LO STESSO” è scritto sulla sua
tomba, a Parigi. Su di lei film, fumetti e centinaia di pubblicazioni. Per
molti pastori americani, avrebbe dovuto bruciare all'inferno. Ma lei rispondeva
sprezzante: "non è nel vostro Paradiso che io rivedrò i miei
figli". (Una curiosità: la sua tomba e quella della Callas, sono un
rito per tutti i parigini: curate e fiori freschi, sempre). Ceccardo conobbe bene anche Puccini, frequentò anche la sua
casa. Assieme a lui e a Viani, andò a vedere il Rigoletto al Politeama di
Viareggio. Con il compositore Lorenzo Parodi : “il caro maestro”
(che in seguito musicò una sua poesia), andò a vedere il Werter di Messenet al
Carlo Felice, e da qui prese spunto per scrivere la poesia “Werter”; poesia che
racconta il suo tentato suicidio, nella totale indifferenza di Emilia. Vi
ricordate? “Non ricambi il mio amore? E allora dammi gli inneschi che vado
ad ammazzarmi”. “Lei li contò ad
uno ad uno..., senza tremare..., indifferente, ti dico...” - dice Ceccardo
a Viani - Viandante, è il tuo destino! Mi portai nel mezzo di un
oliveto...salutai le stelle...e sparai contro il mio povero cuore”. (Lorenzo
Parodi e Ceccardo erano colleghi
giornalisti al “Caffaro”: uno critico musicale e l’altro critico d’arte)
Werter
E il dolce sognator disse
tremando / a l’adorata: E’ invano? Oh le pistole / prestami, ch’io parto. Il
cuor mi duole / troppo, è vero; un sollievo andrò cercando -
Ed Ella: Così sia. Poi
dubitando / diede l’arme. E ai paesi ove il buon sole / mai luce, e non
s’aprono viole, / Egli scese quieto, ancor sognando -
Di pendul’oro ne la sala
brilla / il santo Lauro di Natale. Oblia / tra una gioia di bimbi Ella,
tranquilla -
Fuori cade la neve. Egli è
partito / per sempre, ed ombra pallida, una via / lontana batte in mezzo
all’infinito -
P.s. (In aperta campagna, a
Camaiore, Viani e Pea, avevano trovato una stanza per Ceccardo. Oggi quella
strada è, caso unico, via C. Ceccardi Roccatagliata e non Roccatagliata
Ceccardi).
“L’eroica cravache”
La cravache è un frustino. “A
tutta cravache” è un termine ippico, e significa: correre a tutta frusta.
Quella di Ceccardo aveva il manico d’argento (si vede in mano al figlio
Tristano, nella foto che lo ritrae con la mamma, sull’uscio di casa). Al caffè Margherita di
Viareggio, tutti si alzano in piedi ad ascoltare la marcia reale. Ceccardo e
gli apuani non si alzarono, anzi: Ungaretti si mise ostentatamente a leggere un
giornale e come se non bastasse, di nascosto, emise una grande pernacchia. Un ufficiale
lo individuò e lo colpi violentemente
con uno schiaffo. Ma, sulla guancia del sottotenente Vittorio Martini, calò
all’istante la scudisciata vendicatrice della “cravache eroica” di Ceccardo,
cioè del frustino col manico d’argento donatogli dal Presidente della gran
Loggia genovese “Cenacolo di Sturla”, mag. Adolfo Podestà, che il poeta, mai si
dimenticava di portare con sé. (Il cenacolo era frequentato da grandi pittori e
letterati famosi, fra i quali Giampietro Lucini, che vedremo in seguito. E’ a
Sturla che conobbe e poi sposò Francesca Giovannetti, che faceva la serva in
una ricca famiglia). Alla frustata di Ceccardo, gli altri militari e alcuni
spettatori “realisti”, indignati, intervennero a difesa dell’ufficiale e del
re, ma furono energicamente respinti dal manipoletto degli amici di Ceccardo:
colui che si voleva arrestare. La rissa fu gigantesca, crollarono anche le
vetrate, ma Ceccardo la passò liscia perché prudentemente, il commissario,
vista la tensione, pensò di minimizzare. Tornata la calma, mentre li portavano
in caserma, dietro di loro si riunì una gran folla al grido: “liberate gli
apuani”. Il solito commissario si rivolse a C.: “Lei che è il più saggio, veda
di calmarli”. - “Ella sappia che il poeta Ceccardo Roccatagliata
Ceccardi non fu mai un uomo equilibrato, egli è solo un’anima eroica”. Il
commissario, visto la mala parata, “agì per il meglio” e li lasciò andare.
Denunciarono solo Ungaretti per oltraggio al Re, ma poi per aver egli
combattuto sul Carso, tutto fu amnistiato.
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SCHIZOCATECHESI
di Gualtiero Sollazzi
SCHIZOCATECHESI
Una parola che sembra una
bestemmia. Non lo sarà, visto che l’ha detta un vescovo, mons. Giusti,
all’incontro degli Uffici catechistici toscani. L’accusa è grave. Eccola in
quattro punti. “ 1°: Nella catechesi non si fa Iniziazione cristiana, ma
sacramentalizzazione. 2°: Il cammino
catechistico dei bambini è scorporato da un programma educativo comunitario che
sia anche liturgico e caritativo. 3° :
Occorre lavorare intorno alla persona mettendo insieme le dimensioni educative
in un progetto diocesano. 4° : C’è la necessità di un primo annuncio che
conduca a un’esperienza personale col Signore attraverso l’educazione alla
preghiera, alla liturgia, alla Parola, alla carità.” Se è così, occorre aprire alla svelta
un’agenda di lavoro che preveda l’aggiornamento dei catechisti, un confronto
costante, la guida di esperti in contenuti e metodi. Una catechesi improvvisata
è perdente , tipo: “Tema di oggi: Gesù cammina sulle acque. Tema di domani: In
cerca di Gesù.” Solo una catechesi che risponde a un vero atto educativo con al
centro l’Eucarestia domenicale celebrata dalla comunità, potrà dare frutti
sicuri e non partorire schizocatechesi.Siamo a uno snodo pastorale
non da poco: proibito imitare le tre scimmiette “ non vedo, non sento, non
parlo.” Se è così, occorre aprire alla svelta
un’agenda di lavoro che preveda l’aggiornamento dei catechisti, un confronto
costante, la guida di esperti in contenuti e metodi. Una catechesi improvvisata
è perdente , tipo: “Tema di oggi: Gesù cammina sulle acque. Tema di domani: In
cerca di Gesù.” Solo una catechesi che risponde a un vero atto educativo con al
centro l’Eucarestia domenicale celebrata dalla comunità, potrà dare frutti
sicuri e non partorire schizocatechesi. Siamo a uno snodo pastorale
non da poco: proibito imitare le tre scimmiette “ non vedo, non sento, non
parlo.”
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LA CONFIDENZA
di Lorenzo Rossi Centori
A d’mbrunir d’n bel dì d
magio, d quei chi fan ridenti
ghj’othj contento l còro, a
camineo su pr’l paeso e m vens comdo pasar da Castedo. A m ferm a mirar n nido
d rondna e a set d la donna, dreto l canto dla kà. K la fileon la lana e ntanto
pa parleon. Una la disheo: - Pr esr bedo
dhj’er bedo, e s’al voleo al pighjeo, ma a ndò vosuto. Primamenta, dhj’er cuscì
pòro chi ndeo a pé nudi, poreto; vde? N bogia i n’ao quant’à n’ò me kì ntl
palmo dla man. Quand’ì s shofieo l naso i tireo fora n fazoleto chi gh’ao pù
buchi che peza. E com’à podei pnsar d metr su famighja con lulì che, porin,
dhj’er sempr cuscì n malarneso chi gh’ao pù topa al culo che zecola l micio d
Melò? Putosto a sarest armasa ziteda. M a ziteda po’ a n’armas prché n’à matina
ka ndeo pr’acqua ala fontana m s’acompagnest l me marito che adora i m steo
dreto. Lù i voleo aidarm a portar l bacilo a kà, ma me a n voleo prchè a kà la
ngh’er nishun, ch’ì mì dhj’ern nti campi a ricar la patata. Ma l merlo il sao,
e i nsistet ciscì tanto k’ala fin i fest ala so manera. Pr dirla tuta nk lù a
nd’arest vosuto, ma pòta, cod’olta i m’ao compromisa.
-Putana vò! - la dish una d quela k la steon a sntir
- n podeo pnsargh prima? -Vò dishé ben - la dish la prima - ma ol s’enk vò col proerbio che la donna d’è
atenta e d’òmo dhj’è forto; ghj’òmi quand’ì dishn dalvero dhj’en più arditi d
noaltra, e s’à gh dishan sempr no d no po’ scapn. -Forshi d’è proprio cuscì
com’ò dishé vò – d’arbat quela – ma giré la fritata com’ò volé, ven sempr fora
che noaltra donna a san dla pòra ciotona ka gh la dhjan vinta nk quand n’s
dorest. N’ogni modo a n’onk acapito sa san noaltra a far tut quedo chi von
lor o sì dhj’en lor a far tut quedo ka
voghjan noaltra. E disché, o cosa, com d’è po’ ndata a fnir? -S’à v d’arcont tuta vo ridé e
me a piang’ - la dish la prima - n meso dopo a m’acorgest k la n’m vnìon le me
cosa. L s’condo meso a digh a me mà: -O
mà cos’n dishé? M suced ciscì e cuscì. Mo cos la dirà la genta? Me mà, k d’er n’à furbona e la
n’sao una pù dl dhjaolo, d’ao ngià
acapito tuto prima ka m n’acorges. E dfati la ns’arabiest, ma la dis d no stras
a confondr con la genta e d tirar drito pr la me via. E com pr’arbadir col pnsero
la dis n rima:
LA
CONFIDENZA
Quand s’ncontr l parpaghjon
La pancia la fa l crescion.
Ala genta no degh arguaghjo
ko sen armasa ncinta pr sbaghjo.
Conven anzi ko v sposé
Pr far
nashr n famighja l bebè.
E sté contenta cuscì com’o sen
che d tuta la dsgrazia d noaltri pòra genta
la nghn’è gnank’una k la fa cuscì ben
com quela d’armanr ncinta.
Ntl sntir stà canzoneta m vens
da ridr, e mentr che d’utmo sòlo dla sera i ndoreo i muri e i rici e la campana
la soneon d’Ave Maria, a m’aviest nvers
kà. Ma nt col framento ka m’alontaneo a sent dir da una d cola donna : - M a i
parpaghjon i n voln d nota? E adora m vens a menta col
proverbio chi disheo:
Se ghj’òmi dhj’en n po’ volon
D’en la donna k la san quel k la von.
E l proerbio i disheo ben, che
tut’i san k d’en la donna la pù k la san star al mondo.
Traduzione in italiano LA CONFIDENZA
All’imbrunire di un bel giorno di maggio, di
quelli che fanno ridenti gli occhi e contento il cuore, camminavo su per il
paese e mi venne comodo passare da Castello. Mi fermo a guardare un nido di
rondini e sento delle donne, girato l’angolo della casa, che filavano la lana e
intanto parlavano. Una diceva: -Per
essere bello era bello, e se avessi voluto lo avrei sposato, ma non l’ho
voluto. Prima di tutto era cos’ povero che andava a piedi nudi, poverino:
Vedete? Aveva tanti soldi quanti ne ho io nel palmo della mano. Quando si
soffiava il naso tirava fuori un fazzoletto che aveva più buchi che stoffa. E
come potevo pensare di mettere su famiglia con quello lì che, poverino, era
sempre così in malarnese che aveva più
pezze al sedere che zecche l’asino di Melò? Piuttosto sarei rimasta zitella. Ma
zitella poi non rimasi perché una mattina che andavo alla fontana per acqua mi
si affiancò mio marito, che allora mi stava dietro, dicendo che voleva aiutarmi
a portare la secchia a casa. Io non avrei voluto perché a casa non c’era
nessuno, che i miei erano nei campi a zappare le patate. Ma il merlo lo sapeva,
e insistette così tanto che alla fine fece alla sua maniera. Per dirvela tutta
neanche lui avrei voluto sposare, ma caspita, quella volta mi aveva
compromessa.
-Putanona!! - dice ina di quelle che stavano a
sentire - non potevate pensarci prima? -Voi dite bene – dice la prima
– ma conoscete anche voi quel proverbio che la donna è attenta e l’uomo è
forte; gli uomini quando si intestano sono più arditi di noi, e se gli diciamo
sempre di no poi scappano. -Forse è proprio come dite –
ribatte quella – ma girate la frittata come volete, viene sempre fuori che noi
donne siamo delle povere bischere che la diamo sempre vinta agli uomini anche
quando non dovremmo. Comunque, non ho ancora capito se siamo noi donne a fare
tutto quello che vogliono loro o se sono loro a fare tutto quello che vogliamo
noi. E dite un po’, com’è andata poi a finire? - Se ve lo racconto voi ridete
ed io piango - dice la prima - un mese dopo m’accorsi che non mi venivano le
mie cose. Il secondo mese dico a mia madre : cosa ne dite? Mi succede così e
così. Ora cosa dirà la gente? Mia madre, che era una furbona
e ne sapeva una più del diavolo, aveva capito tutto prima che io me ne
accorgessi. E difatti non si arrabbiò anzi disse di no starsi a confondere con
la gente e di tirare dritto per la mia strada. E come per rimarcare il suo
pensiero aggiunse in rima: Quando s’incontra l’amore La pancia può crescere.
Alla gente non fate caso
Che siete rimasta incinta per caso.
Conviene anzi che vi sposiate
Per far nascere in famiglia il bebè.
E state contenta così come siete
Che di tutte la disgrazie di noi povera gente
Non ce n’è neanche una che fa così bene
Come
quella di rimanere incinta. Nel sentire questa canzonetta
mi venne da ridere , e mentre l’ultimo sole della sera indorava i muri e i
ricci e le campane suonavano l’Ave Maria, mi avviai verso casa. Ma mentre mi
allontanavo sento dire da una di quelle donne : - Ma l’amore non si fa di
notte? Allora mi venne in mente quel
proverbio che diceva:
Se gli uomini sono un po’ farfalloni
sono le donne che
sanno quello che vogliono.
E il proverbio diceva bene,
che tutti sanno che sono le donne a sapere come si sta al mondo.
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COLLI DI LUNI: TERRA DEL VERMENTINO
di MARTA
Il nostro territorio di Luni, al confine tra la Liguria e la Toscana, ha in comune tra le tante cose il
Vermentino, vitigno tradizionale di queste colline che costeggiano il mare.
L’ambiente collinare e marino è di importanza storica per la viticultura come
confermano le informazioni lusinghiere di Plinio il Vecchio sui vini lunensi. Il
riconoscimento della DOC, i tanti premi e il successo commerciale rappresentano
la giusta legittimazione e il frutto dell’impegno profuso da alcuni decenni da
tante piccole realtà aziendali nel recuperare un vitigno secolare capace di
dare vini di alta qualità. La cronaca di
queste settimane sul Vinitaly, decanta
il nostro vino, elargendo riconoscimenti
ai nostri viticultori, come le Cantine Lunae, ovvero, Casa Bosoni. Ricordo il capostipite,
Oriente Bosoni, con quanto amore e fatica coltivava il suo vigneto con la vanga
o la zappa. Allora non c’erano le macchine ad alleviare la fatica dell’uomo.
Poi, le cose cambiano e con i giovani l’attività aziendale si ingrandisce e il
prodotto migliora e si diversifica tanto
da vincere negli anni molti premi con il Vermentino di Sarticola. Anche
quest’anno alle Cantine Lunae non manca il premio ottenuto con il Rosato di
Vermentino. Un’altra azienda , Federici, quest’anno ha vinto tre premi
prestigiosi sempre con il Vermentino e le sue varianti. L’Azienda Federici in
oltre dieci anni di attività si è ingrandita recuperando ettari di terreni
incolti da destinare a vigneti. Il recupero di terreni abbandonati a causa
dell’urbanizzazione in cerca di attività più redditizie, meno faticose e
rischiose, rappresenta un grande merito per chi crede nell’agricoltura di
qualità. Anche un’ altra azienda del
nostro territorio, la Pietra del Focolare, da diversi anni è apprezzata e conosciuta
per i suoi ottimi vini. Da alcuni anni
si fa conoscere anche la Vino del Gaggio, con produzione biologica, che
raccoglie molti consensi ed estimatori. La località del Gaggio è da sempre
rinomata per la qualità delle sue uve e del suo vino. Davanti ad un bicchiere di
vino tutta la realtà si tinge di colori diversi e positivi, scoprendoci di buon
umore, se non si esagera. Un buon bicchiere di vino aiuta, oltre al piacere
della degustazione, ad abbattere le differenze e le diffidenze, stimola la
condivisione e migliora le relazioni interpersonali. Se riflettiamo un poco ci accorgiamo come un
buon bicchiere abbia tanto da insegnarci: nulla si ottiene senza fatica e impegno a fare sempre meglio. Più è grande
la fatica, più il risultato sarà di qualità. E’ molto importante saper
bere, centellinando con calma ogni sorso per cogliere il profumo e la varietà
dei sapori che si liberano. Oggi si parla di vino da
meditazione, i latini dicevano “in vino veritas”. Per Luni e le sue terre il
vino è un capitolo fondamentale della sua storia antica e moderna.
Salute e saluti a tutti.
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San Pietro a Luni Sud
di Paola G. Vitale
E' tornato a risplendere, oggi, martedì Santo dell'anno
duemila diciannove, il marmo come appena uscito dall'atelier dell'artista; il
basamento dipinto in ocra dorato grazie al lavoro del bravo artigiano, il quale
ha già portato a nuovo il salone parrocchiale, la saletta ultima del nostro
storico archetto e l'archetto stesso nel suo interno. Ora vorrei proprio dire
che sono ancora come incredula, ma tanto felice di questa ritrovata dignità..
Siamo dunque pronti a ringraziare chi di dovuto e nostro Signore per questa
novità e ritroviamo piena fiducia nel contribuire come possiamo a questa via di
speranza. Il Signore è vera gioia, serena gioia e sarebbe tanto bello ritrovare
il gusto di stare insieme con un gruppetto di giovani e cantare lodi e sentite
parole di ringraziamento, qua in questo luogo così generoso di bellezze
naturali e antica tradizione di Fede. Sant' Eutichiano Papa, prega per noi!
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