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Vinicio è salito al cielo
di Enzo Mazzini
È grande la commozione che
pervade i numerosissimi fedeli che sono corsi da Ortonovo, da Sarzana e da
tutta la piana di Luni, e non solo, per dare l'estremo saluto ad un insigne
concittadino: il Prof. Vinicio Serri.
La maestosa Cattedrale di S. Maria Assunta di Sarzana è veramente stracolma di fedeli, pervasi da una profonda
commozione.
Vinicio, come lo chiamiamo noi di Ortonovo, era veramente stimato ed amato da
tutti e non avrebbe potuto essere diversamente: lui che ha donato tutto sé
stesso per l'insegnamento e l'educazione dei giovani e non giovani.
Formatosi nella sua amata Ortonovo, crescendo in un ambiente caratterizzato
dalla cultura Orionina che ha fatto scaturire innumerevoli santi sacerdoti, si
è trasferito poi a Sarzana dove si è dedicato all'insegnamento con totale
dedizione, in qualità di professore prima e di preside poi, rivestendo anche
numerosi importanti incarichi in Comune, nella sanità ed in altri
importanti settori della vita pubblica.
Questo non gli ha impedito di tornare spesso nella sua diletta Ortonovo che ha
portato sempre nel cuore.
Come dimenticare l'appuntamento per la festa dell'8 settembre presso l'amato
Santuario della Madonna del Mirteto? Sia il giorno della Festa, sia la vigilia,
era sempre presente, con la sua adorata Fabrizia, per assolvere ad una funzione
quasi rituale: la vendita delle candele e degli articoli Mariani.
Qualche volta anch'io mi sono unito a loro, trascorrendo dei momenti davvero
indimenticabili: non perdeva mai l'occasione per divulgare la sua immensa
cultura e per ribadire l'importanza di non disperdere un patrimonio
irrinunciabile: il dialetto e le tradizioni dei nostri avi. Ecco perché nella
meravigliosa omelia di Mons.Piero Barbieri ho rivissuto tanti attimi commoventi,
un'omelia veramente profonda e che da sola riesce a fornire una fedele
rappresentazione di questo nostro grande concittadino ed educatore, omelia che
riporto di seguito, integralmente, per consentirne la lettura a tutti coloro
che, per lavoro od altri impedimenti, non hanno potuto partecipare a questa
solenne cerimonia: "Abbiamo accompagnato qui, in questa Chiesa, le spoglie
mortali del nostro fratello Vinicio, che veniva sempre ed assisteva là , da
quella colonna, con la sposa, perché portava nel cuore quella fede che gli era
stata donata e che aveva posto con tanta forza, con tanto amore, e direi anche
con tanta passione. E quella fede che lui portava nel cuore ci dice adesso che
la preghiera che noi stiamo facendo è ancora un incontro con lui. Non vediamo
più il suo volto ma sappiamo che il mistero della Comunione dei Santi non ci
separa ma ci unisce. Ci unisce a quelli che ci precedono nel segno della fede
ed allora quella bella lettura che abbiamo fatto all'inizio: "Ed anche i
giusti sono nelle mani di Dio. Nessun tormento li toccherà. Agli occhi degli
stolti parve che morissero, ma nella vera pace". Ci dicono che lui ha
raggiunto una mèta. Noi stiamo camminando e speriamo di incontrarci ancora.
È un momento però di difficoltà, di fatica e lo vogliamo vivere proprio con le
parole del Vangelo, quelle di Gesù che vede piangere, piange, si commuove,
raccoglie il dolore della morte, perché la morte non viene Dio ma viene dal
peccato dell'uomo e quindi è diventata una fatica, una sofferenza, però Gesù lo
offre alla speranza questo dolore e lo fa facendo uno dei miracoli più grandi
della Sua vita: la risurrezione di un amico, Lazzaro e lo fa anche un po' in
rimprovero a Marta e Maria perché Gli avevano detto: "Se Tu fossi stato
qui mio fratello non sarebbe morto". E Gesù dimostra di essere padrone
della morte e della vita, perché fa risorgere l'amico Lazzaro che poi morirà e
risorgerà nella resurrezione per vedere il volto di Dio. E noi vogliamo
proseguire la nostra preghiera in questo momento di sofferenza con tutta la
compassione, ossia con la condivisione con la sposa, i figli, i nipoti, i
parenti che sono qui, ma anche con tutta la certezza e la speranza che la morte
è stata vinta da Gesù e che quindi lui vive con la sua anima e porteremo al
cimitero il suo corpo, dove torneremo nell'attesa della resurrezione dei morti.
Ma vogliamo vivere anche quell'altra bella lettura che abbiamo fatto: una
beatitudine che ci dice Giovanni nell'Apocalisse: "Beati i morti che
muoiono nel Signore". E va pensata così questa lettura: "Beato il
nostro fratello che ha saputo ascoltare le chiamate di Dio nella sua vita"
e la prima chiamata l'ha ascoltata dalla voce dei suoi genitori quando è stato
chiamato al Battesimo. Lo ha accolto senza saperlo, ma quella fede l'ha
seguita, l'ha portata nel suo cuore, l'ha fatta diventare più grande, se l'è
tenuta per tutta la vita. È una vocazione cristiana a cui è stato fedele. E
dopo quella vocazione ne è venuta un'altra, molto importante: quella del
matrimonio, che pure ha vissuto nella fede e con la sua sposa ha passato tutti
gli anni della sua vita. Ha donato la vita secondo il disegno di Dio, ha
testimoniato con la sposa la bellezza della famiglia, dell'amore, anche nei
momenti difficili della malattia e l'ha trasmessa, questa fede, ai figli. Ma
Dio gli ha fatto anche altri doni grandi: il dono dell'intelligenza, il dono
del l'intelligenza che ha prima conquistato per sé e che poi ha donato agli
altri, nella su professione di insegnante e di più anche di educatore e preside
per tanti anni nella Scuola Arzelà di Sarzana dove ha profuso la sua
conoscenza, dove ha guidato tanti insegnanti, dove è stato in dialogo profondo
anche con gli alunni. Ha donato quello che Dio gli aveva dato. Lo ha fatto
fruttificare.
E poi ha avuto anche un altro impegno grande: nella politica. Ha lavorato nella
politica cercando sempre il bene comune, ma direi di più, cercando di far
diventare il dono per gli altri, un amore per gli altri. La politica, come
insegna San Paolo VI, è un servizio di amore per i fratelli anzi, dice questo
Santo, l'esercizio più grande dell'amore.
E non posso non ricordare, perché è stato di esempio anche per me, quando
nell'altra parrocchia è iniziata una mensa dei poveri che non era quella di
dare da mangiare, perché quella c'era già, un'altra mensa dei poveri, per
aiutare i ragazzi ed i giovani, che ne avevano bisogno, di essere accompagnati
con le famiglie nel loro studio. Lui si è adoperato fino alla fine, fino a
pochi mesi prima, si è impegnato ad insegnare gratuitamente, per tanti anni e
per tutto l'anno, una volta alla settimana, il latino, il greco ed anche
l'italiano, in silenzio sempre, un dono che Dio gli aveva fatto e che lo ha
trasformato in un gesto di amore verso il prossimo.
Beati i morti che muoiono nel Signore! Ed è bello allora pensare che la morte
intanto è stata sconfitta da Gesù ed è stata sconfitta non perché Lui non muoia
più, ma perché noi non moriamo più. E se il nostro corpo è soggetto alla morte,
è anche nell'attesa della resurrezione. Ed è bello allora che noi amiamo e
tutte le volte che noi amiamo Dio e il prossimo, noi viviamo di una vita
profonda di Dio e di una conoscenza che è la più vera di Dio: la conoscenza
intellettuale di Dio è meno importante della conoscenza di amore di Dio, perché
la fede e la speranza finiranno, Dio è anche speranza, Dio è anche
intelligenza, ma l'amore non finirà. Per questo, dice Giovanni: "Dio è
amore" e lo dobbiamo imparare dal suo esempio e lo dobbiamo imparare per
rendere meno forte la paura della morte che sta dentro di noi. Lo dobbiamo
imparare perché questa paura della morte che oggi serpeggia nella cultura e
cerca le soluzioni solo psicologiche o psichiatriche che non arrivano in fondo
perché la paura della morte sia vinta dall'amore di Dio che che noi viviamo e
lo cogliamo proprio come ultimo messaggio della sua vita. Imparare ad amare Dio
e il prossimo è prepararsi alla morte con serenità e con forza. È una
testimonianza che noi dobbiamo dare alla nostra società. Dobbiamo dare, non
imporre, il bene della persona umana che non è solo il bene di vivere
fisicamente, ma è anche il bene di vivere spiritualmente e il bene di vivere in
una fede in Dio vero. Questo bene lo dobbiamo comunicare con la testimonianza
della nostra vita.
Noi siamo ancora in cammino, lui è arrivato laddove tutti siamo chiamati ad
arrivare. Credo che ci sia arrivato con le mani piene di opere buone e con la
coscienza che quando i peccati ci sono, è bene farceli perdonare.
Ha ricevuto tutti i Sacramenti, compreso quello dell'Unzione del l'infermo,
penso possa dire al Signore: "Ho fatto tutto quello che potevo " ed
affidarsi alla misericordia di Dio, lui e noi che lo faremo se si arriverà
all'incontro col Signore. Lui è arrivato, noi siamo in cammino. Cerchiamo di
ricordare non solo con la memoria, ma con l'impegno di vita, l'esempio buono
che lui ci ha lasciato. Sarà più facile il nostro incontro con Dio e sarà più
vivo anche in noi il ricordo di una persona che ha donato tanto alla sua città,
alla sua parrocchia, alla Chiesa ed ai fratelli".
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Ceccardo e la Grande Guerra
di Romano Parodi
La Repubblica di Apua: un sogno ucciso dalla guerra.
Ceccardo fu abbandonato dai suoi “marescialli”. Fra di loro ci fu una diaspora.
Come, già ebbi modo di scrivere una volta , ogni “verità”
ha infinite sfumature. Ceccardo nazionalista della “stirpe”, De Ambris
dell’impresa esemplare e liberatoria. Alcuni: Ubaldo Formentini e Pea seguirono
la corrente di Salvemini, altri di Gobetti. Altri, come Salvatori, neutralisti
convinti. Giovani intellettuali che esprimevano apertamente la loro
indipendenza di giudizio, anche se in tutti c’era una profonda avversione per i
Savoia, che Ceccardo spregiava chiamandoli i “moriana”: “mungere e
dissanguare...”. (mentre l’avv. Bianchi, il grande nemico, era monarchico
sfegatato).
Il 4 novenbre 1988 è ricorso l’80simo
anniversario del primo conflitto mondiale e sul Sentiero abbiamo pubblicato i
nomi dei caduti ortonovesi che morirono per la Patria. Ma fra gli ortonovesi
che contribuirono alla vittoria ci sembra possa annoverarsi anche Ceccardo Roccatagliata
Ceccardi, “che volle, fortissimamente
volle, le terre irredenti”. Non tanto per l’età, aveva 44 anni, ma per le
condizioni fisiche, il poeta fu riformato e non poté andare volontario. E ciò,
unito alla partenza di molti amici (Viani, Ungaretti, De Ambris, Corridoni,
etc) fu il suo intimo rovello. Però, se non gli fu dato di combattere con le
armi, fu sul fronte interno di una un’attività instancabile. Il suo impeto
oratorio non si limitò alla “trionfale giornata” di Quarto del 6 maggio 1915, quando
tutta l’Italia ufficiale, accorsa ad ascoltare D’Annunzio, scoprì Ceccardo, che
accompagnato da Viani, Ungaretti e da altri dignitari della Repubblica di Apua,
lo incoraggiavano in ogni modo: “..apuani
state vicino al vostro generale”, implorava tremebondo, pronunciò un alato
discorso interventista, al termine del quale la grande sala “sembrò crollare dagli applausi
interminabili…Mentre andava parlando le bianche e lunghe mani, sembrava
scandissero i tempi dell’orazione, sostanziata di storia, resa incandescente
dalla passione. Quella sera Ceccardo fu grande…” Scriveva Salvatori nel suo
“Versilia”. Poi parlò D’Annunzio, che impressionato e commosso,
esordisce con queste parole: “Che in
questa sede delle Compere e dei Banchi sia accolto con onore è già mirabile
cosa, ma che sia deputato ad accogliermi un poeta mero e della più pura specie
è singolarissimo evento. Questo sdegnoso poeta, questo fiero e solitario
apuano, questo mio fratello – diletto fratel mio di pene involto – in miserrimi
tempi, levandosi di sopra ai trafficator di ciance, si domandò in un’ode
profetica: Quando tornerà Garibaldi? Ebbene egli è tornato sopravveniente… Ma l’opera di Ceccardo non si limitò
alla trionfale giornata di Quarto, ma durò per tutta la durata del conflitto,
con articoli e proclami infiammati e continui. Il giorno in cui le avanguardie
oltrepassarono i confini, Ceccardo salutò i combattenti liguri in partenza (dai
giornali dell’epoca): “Fanti di Liguria,
io vi reco il saluto della terra nativa… Da Ventimiglia fin oltre Sarzana
turrita, donde dall’alto della cattedrale Nicolò V° osserva; e dove, sui borghi
intorno, di Val di Magra, che vider salire Dante, ospite e attore di pace, e
dal piano, sepolcro di Luni, città sepolta, sede di quei liguri – apuani che
insegnarono a Roma, già grande, per cent’anni di guerra, quanto valesse lor
alpestre libertà vissuta… Statevi sulle Alpi come i vostri padri sul mare”. Se
dure e alterne furono le vicende del sanguinoso conflitto, rettilinea e tenace
si mantenne la condotta e l’impegno del Nostro. Andato a risiedere per il
secondo semestre a Camaiore con moglie e figlio, poi a Lavagna, ospite del
poeta Luigi Amaro, Ceccardo non si riposò mai. Di particolare rimarco in questo
periodo la lezione antitedesca e italianissima, sulla disfatta di Arminio,
tenuta al Carlo Felice di Genova e ripetuta un mese dopo alla Spezia. Quando
non aveva occasione di parlare in pubblico o di scrivere sui giornali, il poeta
sfogava sul suo brogliaccio la rabbia per la ritardata dichiarazione di guerra
o contro il pullulare delle spie, che purtroppo non mancavano, ma che egli
vedeva dappertutto. Il 25 marzo del 1917, l’anno più oscuro del conflitto, il
poeta ancora alla Spezia e il 29 a Genova pronunciò un travolgente discorso: “Da Orsini ad Oberdan”, già tenuto al
teatro Regio di Parma e pubblicato, in parte da “La Tribuna”. Pochi di quei
discorsi si sono salvati. Parlò anche a Milano, dove Corridoni gli presentò il
Duce, a Pisa, a Carrara, ma soprattutto nel parmense. Come fu Caporetto e tutto
sembrò perduto, Ceccardo, pur vivendo giorni d’angoscia per la moglie e il
figlio ammalati, scendeva in piazza, perché, sotto l’incombente minaccia, tutti
udissero le sue parole di fede nei destini della Patria. Il 15 dicembre il
“Versilia”, dell’amico Luigi Salvatori, pubblicava questo fremente “Grido”: “Italiani! Piuttosto che un solo austriaco
vi penetri a profanar – o italiani – la suprema pace di Attilio, di Emilio
Bandiera e di Domanico Moro, meglio o Italiani, che Venezia sprofondi
nell’Adriatico”. La sua Francesca ormai l’ha lasciato, ma il poeta è più
che mai nella mischia.
Così mentre in quel drammatico inverno, rincuora i genovesi davanti alla casa
di Byron, giunto l’estate, su invito della Pro Patria, infiamma i bolognesi.
Poi fu la vittoria! Nella notte del 2 novembre 1918, quando l’esito era ormai
certo, C. R. Ceccardi, da Genova, volle far sentire, al figlio, ospite
dell’amico Annibale Caro a Carrara, tutto il suo entusiasmo e la sua
incontenibile gioia.
Senza denaro neanche per un telegramma, scrisse una cartolina postale: “I morti per la Patria son tutti risorti !” La
guerra da lui voluta e poi giorno per giorno combattuta e sofferta, era vinta.
Le terre irredenti, dal poeta rivendicate, erano sue; almeno per una volta i
“sogni eroici” non l’avevano tradito! Nessuno poté sottrargli quell’ora di
felicità. Ma mentre i “trafficator di ciance” ebbero onori e prebende, per il
Viandante, neanche le briciole; nessuno ne in quel giorno ne in quelli che
seguirono si ricordò di quanto, con assoluto disinteresse e senza risparmio di
salute, aveva compiuto. Solo la città di Genova, pose questa lapide sulla casa
natia:
Qui nacque Ceccardo Roccatagliata
Ceccardi, Poeta e Patriota.
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Canzon d'inverno
di Favola tratta dal libro "La fola a veghio di Lorenzo Rossi Centori
Una sera d’inverno che ero più
stanco che riposato, passando dal Collettino sento dire dall’interno di una
casa: -Siete orbo? Non state lì impalato, muovetevi, non vedete che la bambina
piange?
Sentendo queste parole antiche mi fermo a guardare dalla finestra. C’era la
neve in paese ed i lumicini della case luccicavano tra il biancore dei tetti.
Dalla finestra si vedeva il fuoco scoppiettare sotto l’essiccatoio ed il nonno
seduto nella panca che non sapeva come muoversi. La bimba si mise a piangere più forte, poi
piano e dice: - Nonna raccontatemi una favola.
-Dopo, - risponde la nonna – ora è tardi e dobbiamo cenare. -Se non mi raccontate la
favola io non mangio – dice la bimba, rannicchiata nel cantuccio come
imbronciata con tutti. - Siete proprio capricciosa, tesoro -
dice la nonna - sedetevi e
statemi a sentire. Ma dopo cena via subito a dormire che domattina c’è la
scuola. Vi racconterò la canzone dei sette fratelli. “Un tempo, quand’ero giovane io, in paese c’era la fame, le castagne erano
poche ed i campi non producevano. Così la gente raccoglieva i pochi soldi che
aveva e andava in cerca di farina, più le donne che gli uomini, perché loro
dovevano andare chi alla cava e chi alla carbonaia. Andavamo a piedi per
risparmiare, le giornate erano lunghe e la sera non arrivava mai per
riposare. Una volta che andavo per
farina con mia mamma capitammo in un paese lontano tra quei monti con la neve.
Camminando incontrai una bambina, un po’ più grande di voi, appoggiata al
cancello di casa. Aveva otto anni, come mi disse, le trecce bionde e gli occhi
così belli che le volavano via. Dico: -Figliola, quanti siete
in famiglia?
-Siamo sette fratelli – risponde. – E
dove sono gli altri? – dico.
-Due sono in mare, due in città e due sono al camposanto – risponde.
-Voi dite, bimba, che due sono in mare, due in città e due sono morti e che
siete in sette. Mi sembra invece che siate rimasti in cinque. Non vi
sbaglierete a contare?
-Siamo sette fratelli tra femmine e maschi – insisteva la bambina con una
vocina come quella di una fatina – due
riposano qui vicino, in un angolo vicino al cipresso.
-Ma voi, cara bambina, - dico – vi
muovete vero? Cantate, fate le capriole o avete fame e sete. Se quei due
riposano nel camposanto è chiaro che siete rimasti in cinque.
-Stanno in un posto verde, con tanti fiori d’estate – continua la bambina come
se non stesse a sentire, e muovendosi come per camminare – potrete vederlo se
volete, sono dieci passi da qui. Al giorno vado là a fare la maglia e a
rammendare i vestiti. Mi siedo in terra sott’al cipresso e gli racconto le
favole. Poi, quando viene sera e l’aria è ancora tiepida, vado là con la cena e
ceno con loro. La prima a morire è stata mia sorella. E’ stata a letto parecchi
giorni e soffriva. Poi il Signore l’ha guarita e l’ha portata via. E’ stata
seppellita là e quando l’erba non era bagnata io e mio fratello più piccolo
andavamo a giocare con lei. Poi quando venne la neve e avrei voluto giocare con
lui, anche mio fratello dovette partire e ora le sta accanto. - E quanti allora
siete rimasti – dico – se quei due sono in paradiso?
- Siamo sette fratelli - dice la bimba
meravigliata – siamo sette fratelli. - Ma quei due sono morti -
dico - sono due angeli in paradiso, non
stanno più qui. - Non è vero siamo sette - diceva la bambina allontanandosi .
E così dicendo sparì dietro al cancello e non la rividi più.”
Quando la nonna ebbe finito di raccontare per un po’ ci fu silenzio, si sentiva
solo il fuoco scoppiettare e la pentola bollire. Dopo un po’: - Nonna - dice la bambina
capricciosa con le lacrime agli occhi -voi sì che sapete raccontare le storie
belle. Questa notte vorrei sognare quella bambina dai riccioli d’oro di quel
paese lontano.
Fuori la neve fioccava vicino e lontano, ed in quel biancore, che sembrava confondere il tempo e
la memoria, si sentivano i bambini giocare nella neve e le mamme chiamare per
la cena.
Mi avviai verso casa, ed il rumore della neve sotto i piedi mi fece venire
fame: mi aspettavano i cian caldi ed il formaggio dei pastori.
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A PROPOSITO DI ACCOGLIENZA…
di Marino Bertocci
Mia moglie era fuori zona qualche tempo fa, ed
io, come di tanto in tanto accade, ho sentito la necessità di parlare un poco
con il nostro “Principale”.
Girovagando, sono quindi entrato in una chiesa, semplice ma molto bella, e mi
sono “sistemato” su una panca “in prima fila”. Non per orgoglio, una volta tanto!
ma per non distrarmi dal continuo via vai, coincidendo quel giorno con una
festività Mariana, festeggiata in quella chiesa.
Essendo entrato nella chiesa al termine di una celebrazione, l’ho trovata
praticamente deserta e quindi…ho potuto iniziare il mio colloquio con il dovuto
raccoglimento e concentrazione.
La mia sosta ormai si prolungava ben oltre la mezz’ora…quando ho prima
percepito e poi notato un improvviso, ma continuo, andirivieni di pie persone
che, presenti in Chiesa per qualche servizio ai pellegrini in quel giorno di
festa, mi passavano continuamente davanti osservandomi, ho pensato
inizialmente, con curiosità, per poi passare a controllare ogni mia piccola
mossa.
La statua della Madonna, non so se fosse per portarla poi in processione o
semplicemente per la festa, era bellamente agghindata, forse anche di qualche
semplice oggetto prezioso, come si usa fare per le principali ricorrenze.
Evidentemente la mia prolungata presenza vicinissimo all’altare, era fonte di
seria preoccupazione per quelle pie persone che, certamente, in me, vedevano un
possibile malintenzionato, pronto a spogliare la statua dei suoi preziosi.
Io sapevo non essere così, a dire il vero non lo pensavo nemmeno…il mio
pensiero era il colloquio con il Sacramento. Non gli ori della Madonna!
Fatto è che quella continua aria di sospetto che si era creata intorno a me mi
ha distolto completamente da quel bel momento di intimità spirituale che,
finalmente dopo tempo, ero riuscito a ritagliarmi. Mi è quindi venuto spontaneo
pensare: diciamo sempre che dobbiamo aprirci al fratello, vicino o forestiero che
sia, ma, alla prova dei fatti siamo sempre pronti ad osservare con sospetto chi
non faccia parte della nostra (sempre più ristretta) cerchia di abituali del
sacro? Quante volte, anche durante le celebrazioni, sentiamo irrefrenabile il
desiderio di girarci a vedere chi è entrato in Chiesa dopo di noi, subito
pronti a “pesarlo”? eppure ci è stato insegnato: non giudicare, per non essere giudicato!
Oltre a…” ero forestiero e mi avete accolto” …Forse dovremmo rivedere il nostro
atteggiamento verso l’intero nostro modo di essere cristiani. Quel segno della
pace che ci scambiamo nelle nostre celebrazioni è veramente segno di accoglienza
o…lascia il tempo che trova?
Allora, a quelle persone che mi hanno osservato con preoccupazione chiedo
perdono, se motivo sono stato per loro di questo ma, nel contempo, chiedo loro
di fidarsi…non tutto ciò che proviene al di fuori del nostro quotidiano è
possibile fonte di guai o problemi…Dio, senza stancarsi, ci chiama
all’accoglienza, alla condivisione non al rifiuto dell’altro. Gratuitamente
abbiamo ricevuto un dono, la Fede…gratuitamente condividiamola! In conclusione,
perdonatemi questo ultimo pensiero, suggeritomi dalla povertà dell’Incarnazione: nonostante tutte le incrostazioni ed i formalismi
talvolta inutili e farisaici che da secoli appesantiscono (ed hanno
appesantito) la Chiesa, noi suoi fedeli ed i suoi Ministri...la Storia del
Cristianesimo ha materiale inizio da un umiliante rifiuto ..."non c'era
posto per loro in Albergo”.
e noi, che abbiamo l'arroganza di dirci Cristiani, non dovremmo mai
dimenticarlo! Proviamo a riscoprire la gioia dell’accoglienza gratuita …!!!
Luni, 8 gennaio 2019
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S. ANTONIO ABATE NELL’ANNO 2019 D.C.
di Paola G. Vitale, Luni Mare
S.
ANTONIO ABATE NELL’ANNO 2019 D.C.
Dovrebbe essere
festeggiato in zona, come ho assistito in passato, al borgo dell’Annunziata,
ogni diciassette gennaio, ma quest’anno non ne ho avuto notizia, benché ne
abbia cercato traccia su “Il Sentiero” notiziario di questo mese. Oggi è una giornata
piovosa e ombrosa e l’orizzonte è scomparso sotto un grigio fitto e uniforme….
e allora …. mi accingo a un piccolo lusso domestico, cioè alla lettura attenta
e rilassata del nostro mensile inter-parrocchiale. In questo modo posso
conoscere le novità dal Santuario, i sogni di Marta, le attenzioni del Comune
di Luni verso gli scolari, nella loro crescita come cittadini, le particolarità
dei poeti locali, come il grande Ceccardo, come il Bertoloni, la testimonianza
della nostra Mila sul concerto di Natale cui non ho potuto partecipare,
nonostante fosse ospitato nel nostro “archetto” e poi ogni altro argomento
riguardante la fede e la buona politica. Leggere fa sempre bene e in me accende
anche il desiderio di conoscere un po’ da vicino i vari autori di ciascun
argomento. Alcuni li conosco già e devo dire che a tutti riservo un pensiero
grato. Scrivere ciò che si avverte nel pensiero e nell’anima è molto
importante, ma certamente è molto importante e impegnativo attuare il tutto nei
rapporti occasionali o giornalieri con chi incontriamo, o visitiamo o con cui
viviamo. La delicatezza, il silenzio interiore nell’affrontare la situazione
reale e quotidiana, sarà allora il compendio e l’attuazione delle tante
riflessioni, dei tanti inviti a vivere tutto ciò che è buono, amabile,
favorevole, portatore di pace … e di distacco da tutto ciò che ne è
l’infruttuoso contrario. Ne consegue che la testimonianza è importante, sia
quella che appare sia quella vissuta nel silenzio e nell’attesa di portare frutti
buoni come testimonianza della fede. Vorrei dirvi anche perché sento così
“presente” questo antico Abate dei primi secoli, che nel territorio africano a
noi prospicente, ha seminato il buon seme di Cristo. L’ho conosciuto a metà
della mia vita, quando è nato il mio primo nipote in Fivizzano. Il monumento a
questo Abate, sul piazzale dell’ospedale, in quel frangente di particolare
emotività, mi ha spinto la sera stessa, a farne ricerca nell’enciclopedia di
casa. Ho rivissuto con emozione l’impronta dell’Impero Romano e della cultura
cristiana, nell’Africa Orientale, e capisco bene quanto questa perfetta
testimonianza cristiana, abbia avuto il suo peso nella formazione di grandi
santi seguiti a San Francesco di Assisi, come S. Antonio da Padova, il quale a
Padova si è fermato e Antonio si è chiamato in onore del grande Abate dei primi
secoli cristiani.
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Ho visto qualcosa di bianco
di La Redazione
Bernardette, nata
il 7 gennaio 1844, è malandata di salute, ha l’asma, è illetterata e ignorante
di cose religiose, non ha memoria, ma rivelerà un carattere di ferro. Poiché non
c’è più legna da ardere, le due sorelle e l’amica Jeanne Abadie, 13 anni, vanno
alla grotta di Massabielle lungo il fiume Gave a raccogliere legna e «ossa», i
resti delle carcasse di animali. Sempre utili per bruciare.
Mentre si toglie gli zoccoli per attraversare il fiume, Bernardette sente un
rumore, come «un colpo di vento» anche se l’aria è calma. Alza la testa e sopra
la grotta «scorsi una Signora: indossava un abito bianco, un velo bianco, una
cintura blu e una rosa gialla su ogni piede».
La ragazzina fa il segno della croce e recita il rosario con la «Signora», che
«passa i grani fra le dita senza muovere le labbra» e poi scompare.
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“IL SENTIERO”
di Giuseppe Franciosi
Giovedì, 6.1.05.
Siamo arrivati ormai al 15° anno di vita; credo che nessuno
di noi, quindici anni fa, pensasse che nel 2005 “IL SENTIERO” sarebbe stato
ancora vivo. Siamo partiti con un modesto numero di copie, poi piano, piano
siamo arrivati alle 600 copie e questo è il numero di copie che stampiamo oggi.
Siamo felicemente sorpresi di questo successo e ringraziamo tutti. Non ci sono
mai mancate le offerte che ci hanno permesso di provvedere all’ordinaria
amministrazione e anche alle spese straordinarie. Alla stampa provvediamo con
attrezzatura nostra; abbiamo acquistato una prima stampante e nel 2004 ne
abbiamo acquistata un’altra. Le offerte generose dei nostri lettori, e anche
quelle delle parrocchie, ci hanno permesse di saldare il costo della prima
stampante in un solo anno; ora stiamo ricevendo offerte per saldare il conto
della seconda e credo che riusciremo presto. Quindi tutto bene per l’aspetto
finanziario; per il resto, altri aspetti positivi e altri meno positivi. In
quindici anni siamo usciti sempre regolarmente (10 numeri all’anno); non
abbiamo mai dovuto ridurre le pagine (28) per mancanza di articoli.
Un aspetto di cui non siamo orgogliosi: il giorno in cui stampiamo il
“Bollettino” (di solito il venerdì) a lavorare, da quando anche Walter è andato
in pensione, siamo tutti pensionati, quindi siamo tutti anziani. Vorremmo che i
giovani partecipassero di più alla gestione, alla realizzazione del nostro
Bollettino.
Comunque brindiamo ai quindici anni di vita del SENTIERO e
auguriamogli lunga e benefica vita.
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Gli edifici da spettacolo dell’antica Roma (Parte prima)
di Giorgio Bottiglioni
I circhi di età repubblicana
Quando, all’inizio del II
secolo d.C., il poeta satirico Giovenale conia il famoso detto panem et
circenses, alludendo al carattere godereccio del popolo romano e ai mezzi
subdoli con i quali l’imperatore cercava di tenerlo a bada, siamo ormai molto
lontani dall’indole e dal comportamento dell’antico vir romanus. Gli antiqui
mores, i costumi degli avi, prevedevano che il cittadino di Roma si occupasse
delle attività concrete della vita, in particolare dell’agricoltura e della
pastorizia, della pratica delle armi e dei riti religiosi propiziatori per ogni
azione quotidiana. Tutto quanto avesse a che fare col teatro e lo spettacolo in
genere era considerato fuorviante e molle, indegno di un vero uomo. In Grecia
le cose erano ben diverse e il teatro, le gare di atletica, gli spettacoli
musicali erano considerati parte integrante della buona educazione di un
politikòs, un giusto cittadino. Il teatro era a tal punto considerato dai
romani uno strumento di corruzione che le leggi repubblicane impedivano la
costruzione di teatri stabili e la professione dell’attore e del musicista fu
sempre considerata di poco conto, contrariamente a quanto accadeva in Grecia,
dove un attore poteva contare spesso su lauti guadagni. Gli spettacoli pubblici
romani, i cosiddetti ludi, nascono inevitabilmente come elemento di contorno ad
alcune celebrazioni religiose; in origine consistevano unicamente in corse di
carri, ed erano connessi a rituali arcaici in onore di divinità agrarie e
militari. Le prime corse si sarebbero tenute durante le celebrazioni dei
Consualia, le feste in onore del dio Conso, istituite da Romolo poco tempo dopo
la mitica fondazione della città. L’altare dedicato a Conso fu sistemato nella
Valle Murcia, fra Palatino e Aventino: tale altare era sotterraneo e veniva portato
alla luce durante le festività, a ricordo del ciclo della semina e del raccolto
dei cereali, di cui il dio Corso era protettore. Nello stesso luogo si svolsero
le prime corse di carri istituite da Romolo, durante una delle quali sarebbe
avvenuto il, famoso ratto delle Sabine, che avrebbe dato inizio alla civiltà
romana vera e propria: siamo nell’area del futuro Circo Massimo, il più grande
edificio per spettacolo di tutti i tempi. La tipologia architettonica del circo
deriva dall’ippodromo greco con un impianto ingrandito, perfezionato e rese più
monumentale. La struttura di base prevede un edificio quadrangolare, con uno
dei lati corti semicircolare. La forma grosso modo ellittica
è chiaramente all’origine del nome. Le gare si effettuavano nella pista detta
arena, divisa longitudinalmente in due da un lungo basamento, detto spina, alle
cui estremità erano fissate le metae: intorno a queste, costituite da colonne
spesso sormontate da statue, dovevano girare i carri, con una manovra complessa
che costituiva uno dei momenti più pericolosi della gara. Vicino alle metae
sette uova e sette delfini di pietra, opportuna mente disposti, indicavano ai
concorrenti il numero di giri ancora da percorrere. La partenza avveniva dai
carceres, appositi cancelli situati lungo il lato corto rettilineo, disposti
obliquamente per permettere l’allineamento alla partenza. Sui lati più lunghi
sorgevano le gradinate per gli spettatori divise in settori; quelli più vicini
alla pista erano riservati ai senatori, mentre l’imperatore disporrà di una
loggia speciale. Secondo la tradizione, la prima sistemazione in legno di un
ippodromo nella Valle Murcia sarebbe stata opera del primo re etrusco di Roma,
Tarquinio Prisco, il quale, come già per il foro romano, avrebbe costruito un sistema
sotterraneo di deflusso delle acque, la cloaca, per permettere di drenare tutta
la zona e regolarizzare il terreno. Ai primi sedili di legno si sarebbero col
tempo sostituite gradinate in muratura, molto probabilmente in contemporanea
con la costruzione dei primi carceres in legno nel 329 a.C. Forse negli stessi
anni fu costruita anche la spina. Una seconda fase edilizia del circo, databile
all’inizio del II secolo a.C., vide la costruzione dei carceres in muratura, di
un arco trionfale al centro del lato curvo meridionale e la sistemazione sulla
spina delle sette uova per contare i giri compiuti dalle quadriglie. La terza
fase corrispondente all’età augustea, fu caratterizzata dalla costruzione del
pulvinar, una zona sacra riservata agli dei che presiedevano lo spettacolo,
dall’aggiunta dei sette delfini di bronzo accanto alle sette uova a
dall’installazione sulla spina dell’obelisco di Ramsete II trasferito in Piazza
del Popolo nel 1587. Una serie di incendi distrussero a più riprese il grande
edificio che venne di volta in volta sempre ricostruito dai diversi imperatori.
Ci è giunta la trascrizione di un’epigrafe commemorativa delle vittorie
giudaiche di Vespasiano e Tito da collegare senza dubbio con un arco eretto dal
Senato sul lato curvo meridionale intorno all’80 d.C.. I pochi resti in
laterizio visibili oggi sul lato curvo appartengono al restauro dell’imperatore
Traiano all’inizio del II secolo d.C.: Nel 357 Costanzo II aggiunse sulla spina
un secondo obelisco, di Thutmosis III proveniente da Tebe: esso fu collocato da
Sisto V, sempre nel 1587, in piazza di S. Giovanni in Laterano. Le dimensioni
del Circo erano eccezionali: lungo oltre 600 metri e largo più di 100, poteva
ospitare circa 250.000 spettatori, o, secondo fonti dell’epoca, forse esagerate,
addirittura 385.000. Il circo Massimo era utilizzato particolarmente per le
corse dei carri- specialmente quadriglie, cioè cocchi a quattro cavalli-, le
più importanti delle quali avevano luogo nei Ludi romani o magni, dal 4 al 18
settembre. Il circo rimase in efficienza fino alle ultime gare organizzate da
Totila nel 549. Sul lato sud si trova attualmente una torretta medioevale detta
“della Moletta” appartenuta alla famiglia dei Frangipane, la stessa che aveva
trasformato in fortino il cosiddetto Arco di Giano nel foro Boario, il grande
arco quadrifronte dell’epoca di Costantino (IV secolo d.C.) che sorge a pochi
passi dalla chiesa di San Giorgio in Velabro. Come le corse delle quadriglie
nel Circo Massimo erano connesse con l’antico rituale del culto di Conso, così
nel Trigarium correvano, in occasione dell’Equus October e degli Equirria, le
trigae, carri Arcaici a tre cavalli, la cui scomparsa avvenne probabilmente già
nel VI secolo a.C.. Durante la festa dell’Equus October, celebrata il giorno delle
Idi –ossia il 15– di ottobre, il cavallo di destra della triga vincitrice
veniva sacrificato a Marte inteso non come dio della guerra, bensì come tutore
e guardiano dei campi coltivati e protettore della loro fertilità. Il
sacrificio avveniva nel Tarentum –ove oggi è Piazza Pasquale Paoli-, il
santuario delle divinità degli Inferi, Dite e Proserpina. Gli Equirria venivano
festeggiati il 27 febbraio e il 14 Marzo e i riti ad essi connessi annunciavano
l’avvento della primavera. In quest’occasione correvano cavalli attaccati a
carri da guerra, corse che così divenivano propiziatorie sia per il nuovo
sbocciare della natura sia per l’apertura della stagione militare. Il
Trigarium, di cui non resta alcuna traccia Archeologica, è stato identificato
in un tratto di via Giulia in un’area grosso modo delimitata a nord-ovest da
via dei Banchi Vecchi e a sud-est dal Lungotevere dei Sangallo, fra ponte
Principe Amedeo Cavalieri d’Aosta e Ponte Mazzini. Nella cripta al di sotto
dell’odierno Museo Barracco di Scultura Antica sono conservate le strutture di
una domus d’età tardo-antica (IV secolo d.C.), In particolare sono visibili i
resti del portico colonnato della domus. Gli archeologi hanno messo in evidenza
alcune anomalie planimetriche del portico, probabilmente risultato di
condizionamenti dovuti a preesistenze architettoniche. Pare che prima della
domus tardo antica l’area fosse adibita a piazza pavimentata con grandi lastre
di marmo bianco pertinente al comprensorio degli stabula. Lo stabulum era un
complesso di strutture differenziate connesso con una delle quattro fazioni che
si contendevano la vittoria nelle corse del circo (veneta, prasina, russata,
albata); vi si trovavano le scuderie, i quartieri degli aurighi con terme,
luoghi di culto, grandi spazi aperti per la massa dei tifosi, ambienti di
servizio, magazzini per le attrezzature e i quartieri per gli inservienti, i
medici, i veterinari, gli organizzatori e i funzionari che gestivano le gare
dei cavalli. Nel 221 a.C. il censore Gaio Flaminio Nepote. Autore anche della
Via Flaminia, fece sistemare un’ampia area circolare che conteneva un piccolo
tracciato riservato a gare e diverse costruzioni e monumenti. Si tratta del
cosiddetto Circo Flaminio, identificato nella zona oggi compresa fra il Teatro
Marcello, piazza Cairoli, via del Portico di Ottavia e il Tevere. Già autori di
epoca imperiale quali Strabone, Valerio Massimo e Tito Livio esprimevano pareri
discordi circa l’effettivo utilizzo del circo per le corse dei carri. E’
probabile che qui si tenessero i Ludi Tauri, in onore degli dei
dell’oltretomba. Secondo alcune fonti questi giochi misteriosi venivano tenuti
unicamente nel Circo Flaminio, suggerendo che erano simbolicamente legati
all’area e che non potevano essere spostati in un altro edificio. Ai Ludi Tauri
correvano cavalli con un unico fantino e non carri, bighe trighe o quadrighe
che fossero, come avveniva nelle normali corse che si tenevano nei circhi. Il
circo non aveva posti a sedere e strutture permanenti. Nei primi anni della sua
esistenza il circo era lungo 500 metri, ma venne via via ridimensionato nel
corso degli anni, in particolare quando nel 17 a.C. Augusto fece costruire il
teatro Marcello. Lo stesso imperatore nel 2 a.C., in occasione dei
festeggiamenti per l’inaugurazione del suo nuovo foro, fece tramutare il circo
in un’immensa vasca utilizzata per contenere 36 coccodrilli precedentemente
uccisi durante un sacrificio. L’area venne abbandonata verso la fine del IV
secolo d.C., insieme agli edifici che nel corso dei secoli erano sorti nella
zona
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