|
|
|
Gli edifici da spettacolo dell’antica Roma
di Giorgio Bottiglioni
Parte prima
I circhi di età repubblicana
Quando, all’inizio del II
secolo d.C., il poeta satirico Giovenale conia il famoso detto panem et
circenses, alludendo al carattere godereccio del popolo romano e ai mezzi
subdoli con i quali l’imperatore cercava di tenerlo a bada, siamo ormai molto
lontani dall’indole e dal comportamento dell’antico vir romanus. Gli antiqui
mores, i costumi degli avi, prevedevano che il cittadino di Roma si occupasse
delle attività concrete della vita, in particolare dell’agricoltura e della pastorizia,
della pratica delle armi e dei riti religiosi propiziatori per ogni azione quotidiana.
Tutto quanto avesse a che fare col teatro e lo spettacolo in genere era
considerato fuorviante e molle, indegno di un vero uomo. In Grecia le cose
erano ben diverse e il teatro, le gare di atletica, gli spettacoli musicali
erano considerati parte integrante della buona educazione di un politikòs, un
giusto cittadino. Il teatro era a tal punto considerato dai romani uno
strumento di corruzione che le leggi repubblicane impedivano la costruzione di
teatri stabili e la professione dell’attore e del musicista fu sempre
considerata di poco conto, contrariamente a quanto accadeva in Grecia, dove un
attore poteva contare spesso su lauti guadagni.
Gli spettacoli pubblici romani, i cosiddetti ludi, nascono inevitabilmente come
elemento di contorno ad alcune celebrazioni religiose; in origine consistevano
unicamente in corse di carri, ed erano connessi a rituali arcaici in onore di
divinità agrarie e militari. Le prime corse si sarebbero tenute durante le
celebrazioni dei Consualia, le feste in onore del dio Conso, istituite da
Romolo poco tempo dopo la mitica fondazione della città. L’altare dedicato a
Conso fu sistemato nella Valle Murcia, fra Palatino e Aventino: tale altare era
sotterraneo e veniva portato alla luce durante le festività, a ricordo del
ciclo della semina e del raccolto dei cereali, di cui il dio Corso era
protettore. Nello stesso luogo si svolsero le prime corse di carri istituite da
Romolo, durante una delle quali sarebbe avvenuto il, famoso ratto delle Sabine,
che avrebbe dato inizio alla civiltà romana vera e propria: siamo nell’area del
futuro Circo Massimo, il più grande edificio per spettacolo di tutti i tempi.
La tipologia architettonica del circo deriva dall’ippodromo greco con un
impianto ingrandito, perfezionato e rese più monumentale. La struttura di base
prevede un edificio quadrangolare, con uno dei lati corti semicircolare.
La forma grosso modo ellittica è chiaramente all’origine del nome. Le gare si
effettuavano nella pista detta arena, divisa longitudinalmente in due da un
lungo basamento, detto spina, alle cui estremità erano fissate le metae:
intorno a queste, costituite da colonne spesso sormontate da statue, dovevano
girare i carri, con una manovra complessa che costituiva uno dei momenti più
pericolosi della gara. Vicino alle metae sette uova e sette delfini di pietra,
opportuna mente disposti, indicavano ai concorrenti il numero di giri ancora da
percorrere. La partenza avveniva dai carceres, appositi cancelli situati lungo
il lato corto rettilineo, disposti obliquamente per permettere l’allineamento
alla partenza. Sui lati più lunghi sorgevano le gradinate per gli spettatori
divise in settori; quelli più vicini alla pista erano riservati ai senatori,
mentre l’imperatore disporrà di una loggia speciale. Secondo la tradizione, la
prima sistemazione in legno di un ippodromo nella Valle Murcia sarebbe stata
opera del primo re etrusco di Roma, Tarquinio Prisco, il quale, come già per il
foro romano, avrebbe costruito un sistema sotterraneo di deflusso delle acque,
la cloaca, per permettere di drenare tutta la zona e regolarizzare il terreno.
Ai primi sedili di legno si sarebbero col tempo sostituite gradinate in
muratura, molto probabilmente in contemporanea con la costruzione dei primi
carceres in legno nel 329 a.C. Forse negli stessi anni fu costruita anche la
spina. Una seconda fase edilizia del circo, databile all’inizio del II secolo
a.C., vide la costruzione dei carceres in muratura, di un arco trionfale al
centro del lato curvo meridionale e la sistemazione sulla spina delle sette
uova per contare i giri compiuti dalle quadriglie. La terza fase corrispondente
all’età augustea, fu caratterizzata dalla costruzione del pulvinar, una zona
sacra riservata agli dei che presiedevano lo spettacolo, dall’aggiunta dei
sette delfini di bronzo accanto alle sette uova a dall’installazione sulla
spina dell’obelisco di Ramsete II trasferito in Piazza del Popolo nel 1587. Una
serie di incendi distrussero a più riprese il grande edificio che venne di
volta in volta sempre ricostruito dai diversi imperatori. Ci è giunta la
trascrizione di un’epigrafe commemorativa delle vittorie giudaiche di
Vespasiano e Tito da collegare senza dubbio con un arco eretto dal Senato sul
lato curvo meridionale intorno all’80 d.C.. I pochi resti in laterizio visibili
oggi sul lato curvo appartengono al restauro dell’imperatore Traiano all’inizio
del II secolo d.C.: Nel 357 Costanzo II aggiunse sulla spina un secondo
obelisco, di Thutmosis III proveniente da Tebe: esso fu collocato da Sisto V, sempre
nel 1587, in piazza di S. Giovanni in Laterano. Le dimensioni del Circo erano
eccezionali: lungo oltre 600 metri e largo più di 100, poteva ospitare circa
250.000 spettatori, o, secondo fonti dell’epoca, forse esagerate, addirittura
385.000. Il circo Massimo era utilizzato particolarmente per le corse dei
carri- specialmente quadriglie, cioè cocchi a quattro cavalli-, le più
importanti delle quali avevano luogo nei Ludi romani o magni, dal 4 al 18
settembre. Il circo rimase in efficienza fino alle ultime gare organizzate da
Totila nel 549. Sul lato sud si trova attualmente una torretta medioevale detta
“della Moletta” appartenuta alla famiglia dei Frangipane, la stessa che aveva
trasformato in fortino il cosiddetto Arco di Giano nel foro Boario, il grande
arco quadrifronte dell’epoca di Costantino (IV secolo d.C.) che sorge a pochi
passi dalla chiesa di San Giorgio in Velabro. Come le corse delle quadriglie
nel Circo Massimo erano connesse con l’antico rituale del culto di Conso, così
nel Trigarium correvano, in occasione dell’Equus October e degli Equirria, le trigae,
carri Arcaici a tre cavalli, la cui scomparsa avvenne probabilmente già nel VI
secolo a.C.. Durante la festa dell’Equus October, celebrata il giorno delle Idi
–ossia il 15– di ottobre, il cavallo di destra della triga vincitrice veniva
sacrificato a Marte inteso non come dio della guerra, bensì come tutore e
guardiano dei campi coltivati e protettore della loro fertilità. Il sacrificio
avveniva nel Tarentum –ove oggi è Piazza Pasquale Paoli-, il santuario delle
divinità degli Inferi, Dite e Proserpina. Gli Equirria venivano festeggiati il
27 febbraio e il 14 Marzo e i riti ad essi connessi annunciavano l’avvento
della primavera. In quest’occasione correvano cavalli attaccati a carri da
guerra, corse che così divenivano propiziatorie sia per il nuovo sbocciare
della natura sia per l’apertura della stagione militare. Il Trigarium, di cui
non resta alcuna traccia Archeologica, è stato identificato in un tratto di via
Giulia in un’area grosso modo delimitata a nord-ovest da via dei Banchi Vecchi e
a sud-est dal Lungotevere dei Sangallo, fra ponte Principe Amedeo Cavalieri d’Aosta
e Ponte Mazzini. Nella cripta al di sotto dell’odierno Museo Barracco di Scultura
Antica sono conservate le strutture di una domus d’età tardo-antica (IV secolo
d.C.), In particolare sono visibili i resti del portico colonnato della domus.
Gli archeologi hanno messo in evidenza alcune anomalie planimetriche del
portico, probabilmente risultato di condizionamenti dovuti a preesistenze
architettoniche. Pare che prima della domus tardo antica l’area fosse adibita a
piazza pavimentata con grandi lastre di marmo bianco pertinente al comprensorio
degli stabula. Lo stabulum era un complesso di strutture differenziate connesso
con una delle quattro fazioni che si contendevano la vittoria nelle corse del
circo (veneta, prasina, russata, albata); vi si trovavano le scuderie, i
quartieri degli aurighi con terme, luoghi di culto, grandi spazi aperti per la
massa dei tifosi, ambienti di servizio, magazzini per le attrezzature e i
quartieri per gli inservienti, i medici, i veterinari, gli organizzatori e i
funzionari che gestivano le gare dei cavalli. Nel 221 a.C. il censore Gaio
Flaminio Nepote. Autore anche della Via Flaminia, fece sistemare un’ampia area
circolare che conteneva un piccolo tracciato riservato a gare e diverse
costruzioni e monumenti. Si tratta del cosiddetto Circo Flaminio, identificato
nella zona oggi compresa fra il Teatro Marcello, piazza Cairoli, via del
Portico di Ottavia e il Tevere. Già autori di epoca imperiale quali Strabone,
Valerio Massimo e Tito Livio esprimevano pareri discordi circa l’effettivo
utilizzo del circo per le corse dei carri. E’ probabile che qui si tenessero i
Ludi Tauri, in onore degli dei dell’oltretomba. Secondo alcune fonti questi
giochi misteriosi venivano tenuti unicamente nel Circo Flaminio, suggerendo che
erano simbolicamente legati all’area e che non potevano essere spostati in un
altro edificio. Ai Ludi Tauri correvano cavalli con un unico fantino e non carri,
bighe trighe o quadrighe che fossero, come avveniva nelle normali corse che si
tenevano nei circhi. Il circo non aveva posti a sedere e strutture permanenti.
Nei primi anni della sua esistenza il circo era lungo 500 metri, ma venne via
via ridimensionato nel corso degli anni, in particolare quando nel 17 a.C.
Augusto fece costruire il teatro Marcello. Lo stesso imperatore nel 2 a.C., in
occasione dei festeggiamenti per l’inaugurazione del suo nuovo foro, fece
tramutare il circo in un’immensa vasca utilizzata per contenere 36 coccodrilli precedentemente
uccisi durante un sacrificio. L’area venne abbandonata verso la fine del IV
secolo d.C., insieme agli edifici che nel corso dei secoli erano sorti nella zona.
|
|
|
|
|
|
|
Dal DIARIO DI UN PELLEGRINO
di Gualtiero Sollazzi
“Avvento di fraternità”. Lo ha
proposto la Caritas. Forse si pensa di saldare il conto con un’offerta, ma sarà
così? Sostiamo sulla parola
“fraternità”. E’ in gioco la nostra vita di cristiani. Oggi la tentazione è ripiegarci
su noi stessi, chiudere le porte, sigillare i confini. Proviamo a guardare gli
altri con “occhi gonfi di tenerezza e di speranza”, come scriveva don Tonino
Bello. La fraternità va riscoperta. Allargata a tutti senza esclusioni. Perfino
a Giuda, predicò don Mazzolari un giovedì santo. “Chiamandolo fratello, noi
siamo nel linguaggio del Signore. Quando ha ricevuto il bacio del tradimento,
il Signore gli ha risposto con una parola che non dobbiamo dimenticare:
Amico! Questa parola che dice l’infinita
tenerezza della carità del Signore.”
I BRUTTI ANATROCCOLI
E’ un libro-inchiesta di
Piergiorgio Paterlini. Con un tema caldo: la bruttezza. Dieci storie,
raccontate da giovani angosciati. Lamentano, ed è vero, che l’esser brutti è un
handicap a tutto campo, e non sperano troppo che “a da passà ‘a nuttata”. Oggi si fa della bellezza un idolo assoluto,
con le sue “chiese”, i centri estetici dal nome tentatore: Regenerist. C’è,
nefasta, una cultura dell’apparire che mette alle corde la cultura dell’essere.
Occorre una controtendenza, abitata da testimoni di un Dio che non guarda, come
l’uomo, alla faccia, ma al cuore. Cristiani convinti che “la bellezza è
passeggera”. Sapientemente afferma il Libro dei Proverbi: “Tutta la bellezza
delle creature, paragonata a quella infinita di Dio, è infima bruttezza.”
Anche i brutti, però, devono
sapere che è già in corso il tempo della “bellezza infinita”, quella di Dio.
Che ha fatto dire ad Agostino: “Ecco, Tu eri dentro di me”.
|
|
|
|
|
|
|
LA STORIA I D’ARCONTEO CUSCI’
di Lorenzo Rossi Centori
Al tempo k’andeon a vegthjo la
gh’er la car’stia ntl paeso: la guera d’ao porto morta e stenti e i campi
buteon malo. Pr’ì pù la gh’er l pan n taola solamenta ntì dì d festa e dhj’
altri dì i cian, e sì ngh’ern gnank quei s feo la fama. Cuscì a shombieo
volntera d dovntar rico pr comprar pan e companatco, specialmenta d’autunno
quand la foghja porta dal vento la pareon tanti bagaron fruscinar pr d’aria.
Una d cola sera che l vento i spazeo i rici e la foghja la voleon sopr’ì tethj,
la Palmina d’ao porto la caramella a veghjo e noialtri bin, ka la shombieon nk
d nota, a ncomncestn a spintonars pr’ariar a pighjarla. Pr’n po’ lé la sta a
mirar tut col vshndìo ntanto k la c’rcheo d darn una pr’un. Po’ la s mir ntì
othj pr’n tempo chi n fnìo pù e la dish: “N’olta, moramai tanto tempo fa, quand
la farina d’er poga e la fama tanta, proprio com capit nk’ai nostri dì, la
gh’er n’òmo d Tnaran d nomo Giustin, vethjo e dala barba bianca, pòro com tuti,
chi dhj’arconteo n’à storieda k’amarcord ank. A chi tempi a dhj’er giona, pogo
pù granda d vò, e nk s’à er pòra l mondo i m pareo bedo l’isteso. E m pareo ka
doesn arsptar tuti pr’esr arsptati, e aidars pr col pogo o tanto ka podeon, proprio
com’i s’à nsignato Nostro Signoro. Ma crscendo a dhj’ò mparato che pr far quedo
chi vo l Signoro la gh’è da fadigar, pù prì pòri che prì richi.
Scìo com scìo, l vethjo la storieda i d’arconreo cuscì: “ I dishn che ghj’ òmi,
n’mport se richi o pòri, i sen sempr mrsi d’anma a vder quei star meio d lor.
Me a nl so s la scìo sempr ndata cuscì, ma vethjo com’a son a n’ò vishta tanta
nt la me vita e questo a so, che l rico i sta volntera col rico prché tuti do
dhj’ an uto d pù dala vita; se d d’olta i s mirn d traverso i fan però fito
acordars, com’ì dish col proerbio che a d’omo rico n conven l muso lungo. E i
vo ben nk’ al pòro, prché i ngh ghost gnent e pr solito l celo i d’armerit. I
fa la limoshna n po’ kì e n po’ là pr sntirs arngraziar da vivo e comprars n
posto n paradiso da morto.
Ma pr’l pòro, quedo chi n’à gnent e i fadigh a comprars l pan d’è tuta n’altra
canzon. Lù dhj è sempr n malarneso e crosho con tuti: i mir malo i richi, prché
dhj’an quedo che nk lù vorest aer e i n’à. E i mir storto nk’ì pòri prché i n
vorest esr com lor che la pù olta dhj’en sporchi e gnoranti, i s fan la guera
pr’ n tòco d pan e i n san n’scir da cola miseghja. Aendo men che gnent dl so,
dhj’arman con la topa al culo da vivo e i n sa ben aond’ì fnirà da morto. E quand tuti dò i morn, cos suced? Suced che
l rico i va drito n paradiso prché nt la so vita dhj’à sempr vosuto ben a tuti.
Il pòro nveci d’è pù facile chi vagh giù drito a d’nferno. Con tut’ì pgadi chi
s porteo dreto San Pietro i nd’arest vosuto n paradiso gnank morto. Pacenzia che da vivo dhj’es vosuto malo ai
richi; tanti santi dhj’aon fato l’isteso.
Pegio d’er chej por’òmo i biastmeo tut d’olta ch’ì fighjoli i piangeon dala
fama e lù i n’ao da dargh da magnar, e i maladio i celo a vaer quei chi n’aon
da fadigar pr portar l pan a kà. I n sao, poreto, che pighjarsla col Padrterno
prì nostri mali i n’à mai aidato nishun a star meio.
Ntndiamos! La ngh’è d’avrgognars aesr pòri, che d pòri dhj’è pien l mondo. Ma
la ngh’è gnank d’arngraziar l celo pr’esr nati cuscì, s d’è vera quedo chi
dhj’an sempr dito i nostri vethj k d’è pù facila pr d’acqua dl Canalo ndar n su
nveci che n giù che pr’n pòro dovntar rico. Cuscì dhj’è sempr ndato l mondo, e
pr quedo ka so me cuscì i ndrà sempr. Nk se l lupo i s camuf d’agnedo sempr
lupo dhj’arman.”
Finito d’arcontar la Palmina la dish: “Vdé ben pr noaltri pòri la gh’è pògo sa
sprar se non nt la msericordja dl Signoro. Mo se da grandi o voré acapir com’ì
va l mondo, armntev ben dla storieda d Giustin.
Pù fito niré grandi.”
E la storia d’er proprio vera.
Ma lì pr lì a nd’aon acapita, e dhj’ arpasestn tant’anni prima ka fusn grandi
asè d’acapirla.
LA STORIA LA RACCONTAVA COSI’
Al tempo che andavamo a veglio
c’era la carestia nel paese: la guerra aveva portato morte e stenti e i campi
non producevano. Per i più in tavola c’era il pane soltanto la domenica e gli
altri giorni i cian, e se non c’erano neanche quelli si faceva la fame. Così
sognavo volentieri di diventare ricco per comperare pane e companatico,
specialmente d’autunno quando le foglie portate dal vento sembrano tanti soldi
frusciare per aria. Una di quelle sere che il vento soffiava su per i ricci del
paese e le foglie volavano sopra i tetti, la Palmina aveva portato le caramelle
a veglio e noi bambini, che le sognavamo anche di notte, incominciammo a spingerci
per arrivare a prenderle. Per un po’ lei sta a guardare tutto quel trambusto
intanto che cercava di darne una a ciascuno. Poi ci fissa negli occhi per un
tempo che non finiva più e dice: “Una volta, ormai tanto tempo fa, quando la
farina era poca e la fame tanta, proprio come succede anche ai nostri giorni,
c’era un uomo di Tenerano di nome Giustino, vecchio e con la barba bianca,
povero come tutti, che raccontava una storiella che ricordo ancora. Allora ero
giovane, poco più grande di voi, ed anche se ero povera il mondo mi sembrava
comunque bello. Mi sembrava che dovessimo rispettare tutti per essere
rispettati ed aiutarci a vicenda per quel poco o tanto che potevamo, proprio
come ci ha insegnato Nostro Signore. Ma crescendo ho imparato che per fare
quello che vuole il Signore c’è da faticare, più per i poveri che per i ricchi.
Ad ogni modo il vecchio raccontava la storiella così: “Dicono che gli uomini,
non importa se ricchi o poveri, si sono sempre rosi l’anima a vedere quelli che
stanno meglio di loro. Io non so se sia sempre andata così, ma vecchio come
sono ne ho viste tante nella mia vita e questo so, che il ricco sta volentieri
con il ricco perché ambedue hanno avuto di più dalla vita; se a volte si
guardano in cagnesco, fanno però presto a riappacificarsi, come dice quel
proverbio che all’uomo ricco non conviene il muso lungo. E vuole bene anche al
povero, perché non gli costa nulla e di solito il cielo lo premia. Fa
l’elemosina un po’ qua e un po’ là per sentirsi ringraziare da vivo e
comperarsi un posto in paradiso da morto. Ma per il povero, quello che non
possiede nulla e fatica a comprarsi il pane, è tutta un’altra canzone. Lui è sempre malandato e imbronciato con
tutti: guarda di malocchio i ricchi perché hanno quello che anche lui vorrebbe
avere e non ha. E guarda storto anche i poveri perché non vorrebbe essere come
loro che spesso sono sporchi e ignoranti, si fanno la guerra per un pezzo di
pane e non sanno come uscire da quella miseria. Avendo men che nulla del suo,
rimane con le pezze al sedere da vivo e non sa dove finirà da morto.
E quando i due muoiono cosa succede?
Succede che il ricco va dritto in paradiso perché nella sua vita ha
sempre voluto bene a tutti. Il povero
invece è più facile che vada dritto all’inferno. Con tutti i peccati che si
portava dietro San Pietro non l’avrebbe voluto in paradiso neanche morto.
Pazienza che da vivo avesse voluto male ai ricchi; tanti santi avevano fatto lo
stesso. Peggio era che il pover’uomo bestemmiava tutte le volte che i figlioli
piangevano dalla fame e lui non aveva da dargli da mangiare, e malediva il
cielo a vedere quelli che non faticavano a portare a casa il pane. Non sapeva,
poveretto, che prendersela con il padreterno per i nostri mali non ha mai
aiutato nessuno a stare meglio. Intendiamoci!
Non c’è da vergognarsi ad essere poveri, che di poveri è pieno il mondo.
Ma non c’è neanche da ringraziare il cielo per essere nati così, se è vero
quello che hanno sempre detto i nostri vecchi che è più facile per l’acqua del
canale salire invece che scendere che per un povero diventare ricco. Così è
sempre andato il mondo, e per quanto ne so io così andrà sempre. Anche se il
lupo si veste da pecora sempre lupo rimane.”
Finito di raccontare la Palmina dice: “Vedete bene che per noi poveri c’è poco
da sperare se non nella misericordia del Signore.
Ora se da grandi vorrete capire come va il mondo, ricordatevi della storiella
di Giustino. Prima la capirete e prima diventerete grandi.”
E la storiella era proprio
vera. Ma lì per lì non l’avevamo capita e passarono ancora tanti anni prima che
arrivassimo a capirla.
Tratta da "La Fòla a veghjo" (Il dialetto della Lunigiana nella parlata della Lunigiana) di Lorenzo Rossi Centori.
|
|
|
|
Clicca sulla foto per ingrandirla |
|
|
La domenica della gioia
di Mila
Mentre scrivo sta finendo il
giorno, è il crepuscolo della terza domenica di Avvento, detta la domenica
della gioia poiché si avvicina il santo Natale. Il profeta Sofonia ci esorta a
rallegrarci perché il Signore, che nasce dalla vergine Maria, è il Salvatore
che ci rinnova con il suo amore. Credo
che qui a Luni Mare, per rinnovarci, avrà molto da fare povero Gesù! Forse
perché è un paese nuovo, senza radici e senza tradizioni, non si riesce mai a
concludere niente. Da quando Luni Mare è diventato parrocchia, circa trent'anni
fa, abbiamo cambiato sette o otto parroci, intervallati da periodi durante i
quali veniva soltanto un sacerdote a celebrare la Messa domenicale. Quindi si può ben capire che non è facile
creare una comunità aggregata e che faccia da sostegno alla propria chiesa. Il
parroco che abbiamo adesso, don Alessandro, si prende cura anche di un'altra parrocchia
più grande e ha tanti altri oneri, ma ce la mette tutta per cercare di far
salpare anche la nostra navicella. Venerdì scorso ha organizzato un concerto di
Natale, il primo concerto di Natale nella nostra chiesetta. Ha invitato un trio
vocale “LE HARMONY” sono state bravissime! Quel trio in chiesa, davanti
all'altare, con il loro tastierista un po' distaccato che le accompagnava con
la musica, e noi del pubblico partecipavamo cantando e battendo le mani, specie
con alcune canzoni come “HAPPY DAY”. Al
termine del concerto l'omaggio di tre mazzi di fiori al trio e il piccolo
rinfresco che ne è seguito. Devo dire che è stata proprio una serata magica che
ci ha fatto sentire che il Santo Natale ormai era vicino, che il piccolo Gesù
ancora una volta sarebbe rinato per noi.
Peccato che di Luni Mare c'erano soltanto i soliti quattro gatti, per fortuna
sono intervenuti dei “foresti” a far numero e così tutto è andato bene.
Certo che non si capisce l'indifferenza e totale disinteresse per la propria
chiesa, mi riferisco a quelle famiglie che hanno comprato qui una casa e che
ormai vivono qui da anni e che qui pensano di rimanere, e che si dichiarano
credenti e poi? Gesù viene messo in fondo, è proprio l'ultimo dei nostri
interessi. Quanto poco amore diamo a chi ha dato la sua vita per noi! Forse
pensiamo che siano soltanto favole.
La domenica della gioia! Avevo preparato un bel poster sull'argomento, pensavo
che i miei bambini di dottrina lo presentassero orgogliosi all’assemblea,
invece sono venuti in tre e anche in ritardo. Li ho ringraziati e baciati per
essere comunque venuti, ho detto loro che Gesù si ricorderà della loro buona
volontà.
Io pregherò per loro, per il mio parroco e per la mia povera chiesa di Luni
Mare e visto che è dedicata a San Pietro chiederò a lui di mettersi al timone e
chissà... A volte le preghiere di una vecchia signora vengono ascoltate se non
altro per rispetto all'età.
Quando questo scritto verrà pubblicato saremo già nell'anno nuovo quindi …
BUON ANNO A TUTTI
|
|
|
|
|
|
|
Le ultime volontà
di Romano Parodi
Quando Alessandro Magno si rese conto che
stava per morire, fece chiamare i suoi generali: - Miei fidi generali, grazie
di aver sempre ubbidito ai miei comandi. Questi che vi do’ ora saranno gli
ultimi; a voi il compito di eseguirli -:
1°
- ...Che la mia bara sia trasportata a spalla da tutti medici che si sono
succeduti al mio capezzale e non hanno saputo guarirmi -
2°-
...Che i tesori, gli ori, le pietre preziose che sono state conquistate ai
nemici vengano sparse e disseminate lungo la strada, verso la mia ultima
dimora, a vantaggio del popolo -
3°
- ...Che le mie mani vengano lasciate fuori dalla bara affinché il popolo le
veda -
Uno
dei generali scioccato da queste strane e inaudite ultime volontà del grande
condottiero chiese:
-Sire,
qual è il motivo di tutto ciò? - L’imperatore
con la voce ormai tremula e spenta gli rispose: -
Voglio solo i medici a portarmi all’ultima mia dimora per dimostrare a tutti
che non hanno alcun potere di fronte alla malattia e alla morte -
-
Voglio il suolo pubblico ricoperto dai miei tesori, perché la gente umile ne
tragga qualche vantaggio, ma soprattutto per ricordare a tutti che i beni
materiali, qui conquistati, qui restano -
-
Voglio le mie mani penzolanti al vento, perché la gente capisca che, come tutti,
a mani vuote sono venuto e a mani vuote vado via.
|
|
|
|
|
|
|
IL MIO TRENO
di Marta
Sì! ... Un giorno salirò su un
treno, senza meta definita, dovrà solo andare lontano lontano, avere così tutto
il tempo, per poter ammirare il mondo che scorre sotto il mio sguardo. Perdermi
in mezzo alle grandi città, piccoli paesi, gustarmi il rumore delle rotaie,
mentre mangiano chilometri di linea. Un sottofondo, di buona musica, sentirmi
cullare, come stare in braccio alla mamma mentre ti canta la ninna nanna.
Sentire il calore del velluto, sui sedili, leggere al buio, con una piccola lampadina
che illumina le pagine del mio libro. Che bello poi! Incrociare lo sguardo di
chi ti sta innanzi, immaginarti la sua storia, la sua vita, la sua provenienza,
il suo lavoro, capire queste cose, dal dettaglio di un anello, un orologio, un
monile, un qualsiasi particolare che ti parla per lui, o lei, come per esempio
un’occhiata furtiva. Che bello trascorrere su questo treno abbastanza tempo,
mentre ti porta a conoscere l’arte dell’uomo, in ogni monumento, o scultura, o
pittura, o palazzi…
Guardare poi fuori dal finestrino, la luce del sole, che illumina, l’arte più
bella che nessun essere umano farebbe. Il nostro mondo, la nostra terra, la
nostra vita.
Ecco!... dopo aver trascorso tutto questo mi piacerebbe ritrovare la stessa
atmosfera, uomini e donne senza tempo, vissuti molto prima, ma che restano
sempre con noi, nella nostra memoria, raccontandoci del talento, delle
scoperte, delle gesta eclatanti, di dame eroine. La storia è piena della loro
bellezza, del loro coraggio, che non svanisce mai. E poi! Perché no?! Mi
piacerebbe trovarmi nell’epoca dell’Oriente Express e rivivere tutte le tappe
di quel treno favoloso che ha attraversato tutta l’Europa, dialogando con tutti
i passeggeri che avrei trovato sul mio percorso, parlando ore e ore mentre lo
sguardo abbraccia le distese infinite di neve attorno a San Pietroburgo. Certo
il tempo sarebbe trascorso più velocemente e piacevolmente in loro compagnia,
chissà quante persone speciali avrei conosciuto. Questo magnifico treno, sempre
pieno di gente e di novità. Per questo guardo sempre con entusiasmo al tempo
che verrà, a riprendere il gesto di una conversazione, interrotta, o al sapore
di un’emozione ancora tutta da vivere. Un treno di felicità per tutti
e buon anno duemila diciannove.
Marta
|
|
|
|
<-Indietro |
|
|
|