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In ricordo di Don Giovanni
di Enzo
Come tutte le domeniche, io
partecipavo alla S. Messa delle ore 9,30 di S. Martino per accompagnare
all'organo i canti dei fedeli, quando ho sentito il mio telefonino che vibrava,
avendo tolto la soneria per non disturbare la funzione religiosa. Io non ho risposto
alla prima chiamata ma poi, vista l'insistenza, sono uscito per rispondere e
quindi ho appreso da Fabrizio che poco prima Don Giovanni ci aveva lasciati per
sempre. Col cuore in subbuglio, sono rientrato ed ho subito comunicato la
dolorosa notizia a tutti i componenti del coro e Claudia ha subito inserito
nelle preghiere dei fedeli una preghiera per il nostro amato Don Giovanni. Alla
fine della Messa, io ho comunicato a tutti i presenti la triste notizia che ha
ingenerato profondo ed unanime dolore: ho visto spuntare parecchie lacrime che
si sono unite alle mie!
Immediatamente abbiamo deciso con Padre Michele di programmare una solenne
Messa di suffragio, con recita del S.Rosario nella sua Chiesa di San Giuseppe,
dandone informazione ai fedeli, attraverso il manifesto funebre che avremmo
affisso in tutto il Vicariato.
Don Giovanni era proprio nel cuore di tutti, tant'è che la Chiesa era veramente
gremita di fedeli.
Ma perché abbiamo voluto così tanto bene al nostro Don Giovanni? Perché tutti
gli anni per il suo compleanno (16 agosto) partivano alcuni parrocchiani, me
compreso, per andare a festeggiare con lui gli anni che aumentavano e sono
arrivati a 105? Perché sono stati organizzati alcuni pullman per consentire a
numerosi fedeli di rivederlo e festeggiarlo? Perché la popolazione ha chiesto
ed ottenuto che cinque anni fa tornasse in mezzo ai suoi parrocchiani che gli
hanno tributato un’accoglienza davvero commovente e grandi manifestazioni
d'affetto e festeggiamenti?
La risposta è abbastanza scontata: tutti gli volevano bene perché nei 30 anni
del suo sacerdozio a Casano ha seminato davvero tanto. Lui si impegnava con
tutte le sue forze che man mano si riducevano ed è rimasto ad assisterci
proprio finché ha potuto e cioè fino all'età di 95 anni!
Ho ancora davanti agli occhi il suo comportamento nel momento in cui ha dovuto
lasciare la sua Chiesa, la sua canonica ed i suoi parrocchiani, un
comportamento di grande serenità, nella consapevolezza di aver dato ai suoi
amati parrocchiani tutto quello che il buon Dio gli aveva concesso. L'ho
accompagnato io a Trebaseleghe (Padova, presso la Casa Don Orione) con la mia
auto, tanto Don Giovanni portava con sé poche cose e quindi non c'era bisogno
di grandi spazi. Certo, è stato un viaggio molto triste per me ed il momento
davvero doloroso è stato quello del distacco. Ho ancora davanti agli occhi il
suo volto malinconico: io rappresentavo in quell'attimo tutti i suoi adorati
parrocchiani che aveva lasciato con profondo dolore, anche se con serena
rassegnazione, nel rispetto delle regole orionine: prima fra tutte
l'obbedienza.
L'unica consolazione era quella di rivederci spesso. E noi abbiamo davvero
rispettato questo impegno morale!
Don Giovanni è stato per noi un grande pastore che ha saputo guidare con generosità,
dedizione ed amore le anime a lui affidate.
Quanto ci sono mancate e ci mancheranno le sue omelie semplici, che tutti
capivano, ma toccanti e profonde!
Io, per motivi di lavoro che mi portavano lontano (Trento e Trieste) l'ho
potuto frequentare assiduamente soprattutto negli ultimi anni quando lui,
lavoratore instancabile, avanzava verso la tarda età, ma questo non gli ha
impedito di curare anche molte opere volte al miglioramento della vita
parrocchiale, come stanno a testimoniare le ultime in ordine di tempo quali il
campetto,gli impianti elettronici nelle due chiese e nei campanili, gli
adeguamenti degli impianti di illuminazione delle due chiese e quindi la
meravigliosa gradinata di San Martino ed il "Presepe Vivente" lungo
il Parmignola. Tutte queste opere viventi rimarranno sempre a testimonianza di
una grande, grande presenza.
Ecco perché ora tutti noi ci sentiamo un po' orfani e proviamo un nodo in gola
ed una profonda commozione, anche se dobbiamo ringraziare il buon Dio e la
nostra Madonna del Mirteto per averci fatto un così grande dono e per avercelo
preservato così a lungo.
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Dalle tombe di Tarquinia a Pablo Picasso
di Giorgio Bottiglioni
Iconografia
dei flauti etruschi
Claudio Eliano, filosofo e
scrittore romano in lingua greca vissuto fra Roma e Preneste tra la fine del II
e l’inizio del III secolo d.C., riporta un curioso aneddoto nella sua
compilazione enciclopedica “Sulla natura degli animali”: Un racconto, ricordato
frequentemente dagli Etruschi, pretende che presso di loro si catturano
cinghiali e i cervi non soltanto con reti e con cani, come si fa in generale,
ma con l’aiuto della musica. Ecco come: dispongono le reti e gli altri arnesi
da caccia e tendono le loro trappole alla selvaggina; ma ecco che balza fuori
anche un flautista di talento, che cerca di suonare le melodie più armoniose e
fa risuonare tutto ciò che vi è di più dolce nell’arte del flauto; nel silenzio
e nella pace generale questa musica arriva sulle rive, nelle vallate e al fondo
delle foreste e il suono, per dirla con una parola, penetra in tutti i
nascondigli e in tutte le tane degli animali. Dà prima cominciano con lo
stupirsi e con l’averne paura; poi il puro e irresistibile piacere della musica
s’impadronisce di loro e quando ne sono affascinati dimenticano i loro piccoli
e la loro tana. Sebbene gli animali non amino allontanarsi dal luogo natio, trascinati
come fossero soggetti a qualche incanto, sotto il fascino della melodia, si
avvicinano e cadono nelle reti dei cacciatori, vittime della musica. Da queste poche righe si
comprende quanto la musica fosse importante nell’antica civiltà etrusca, tanto
da avere uno spazio proprio in ogni attività materiale: dalla caccia ai rituali
religiosi, dalla guerra al banchetto, finanche alle attività più umili quali la
pesca o il taglio della legna. Gli Etruschi vissero nel centro Italia, tra i
fiumi Arno e Tevere, dal X al I secolo a.C., quando la loro cultura fu
assorbita da quella romana. Un’aura di mistero ha da sempre circondato la
cultura etrusca, sebbene negli ultimi tempi l’archeologia abbia fornito dati di
enorme importanza a seguito dei numerosi ritrovamenti sepolcrali in Toscana e
nell’alto Lazio. Poco chiara è l’origine di questa popolazione, forse
autoctona, forse proveniente dall’Anatolia, o forse, addirittura, dalla vicina
Sardegna. Analogamente incerta è la natura della lingua etrusca, da alcuni considerata
affine all’odierno ungherese. Certo è, come diceva Eliano e come testimoniano
vari affreschi e sculture, che la musica rivestiva un ruolo di prim’ordine fra
le attività degli Etruschi. Fra tutti, lo strumento caratteristico di questa
civiltà è il flauto, presente in diverse forme che possono apparire come
prototipi arcaici de flauto moderno traverso o dritto oppure dell’oboe o del
clarinetto. La siringa o o syrinx, ovvero il flauto di Pan, è uno strumento comune
a buona parte delle civiltà arcaiche, non necessariamente entrate in contatto
fra di loro, quali appunto, gli Etruschi, i Cinesi e le civiltà precolombiane.
Le origini del flauto di Pan hanno fatto arrovellare i cervelli di illustri musicologi,
archeologi e antropologi che ancora oggi non sono giunti a conclusioni
concordanti. Le siringhe etrusche potevano avere da 5 a 13 tubi ed erano
costruite con i gambi di cicuta, come testimoniato da Virgilio nelle Bucoliche,
ma anche col legno, la terracotta, l’alabastro e il metallo. Agli Etruschi va il merito
della prima raffigurazione del flauto traverso, presente su urne provenienti da
Perugia e da Volterra, databili al II secolo d.C. o anche prima. In due urne in
particolare viene rappresentata un’interessante variante del flauto traverso,
chiamata plagiaulos o bombix. Si tratta di uno strumento in tutto simile al
flauto traverso, se non per l’ancia semplice inserita nel buco per l’insufflazione.
Walter Maioli, flautista e paleorganologo, ha proposto di recente alcune riproduzioni
di questo particolare flauto che hanno dimostrato di produrre suoni unici, dai
timbri “di canna” straordinariamente caldi e sensuali. Le tibiae etrusche erano doppi
strumenti a fiato che funzionavano con un’ancia doppia, simile a quella
dell’oboe. Strumenti analoghi erano presenti, come testimonia l’ampia documentazione
iconografica, in tutto il bacino del Mediterraneo, in Mesopotamia e fra la
popolazione dei Celti. Caratteristica peculiare delle tibiae etrusche è il
padiglione finale a campana, la più famosa raffigurazione pittorica di questi
strumenti proviene dalla cosiddetta Tomba
dei Leopardi di Tarquinia. La tomba, datata al 473 a.C., è una delle opere
più significative e importanti dell’arte funeraria estrusca. Il suo nome si deve alla raffigurazione di
due leopardi rappresentati nello spazio trapezoidale posto di fronte
all’ingresso. Le scene dipinte rappresentano un simposio, con uomini e donne
sdraiati su alcuni triclini mentre consumano il pasto, fra alcuni ulivi
fruttosi; accompagnano il banchetto danzatori e suonatori. La tomba fu scoperta nel 1833
e l’eco della straordinaria fattura e conservazione dei suoi “tesori” fu tale e
così prolungata nel tempo da influenzare artisti tanto diversi e lontani quali
Edward Poynter e Pablo Picasso. Il pittore inglese Sir Edward
Poynter (1836-1919) fu Presidente della
Royal Academy per 22 anni ed è giustamente considerato un importante esponente
del cosiddetto Classicismo Vittoriano, insieme ai più noti F. Leigton e L.
Alma-Tadema. Poynter era affascinato dalle antichità classiche, come ben
testimoniano i suoi due quadri più famosi, ispirati ai fatti di Pompei e di
Cartagine. Troviamo fedelmente riprodotti gli strumenti etruschi della tomba di
Tarquinia in un dipinto del 1893 raffigurante Chloe, la giovane pastorella
protagonista, insieme all’amato Dafni, di un romanzo di Longo Sofista (II –III
secolo), da cui Ravel trasse ispirazione per il suo ben noto balletto. Poco più di mezzo secolo dopo,
Picasso, in un periodo della sua straordinaria storia artistica che lo vide
confrontarsi col Classicismo, ripropone il tema delle tibiae etrusche nel
dipinto intitolato Satiri e Capre del
1959. Il padiglione a campana del doppio strumento imboccato dal satiro non
lascia dubbio alcuno sul modello da cui il grande pittore spagnolo ha preso
ispirazione.
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Ceccardo Roccatagliata Ceccardi
di Parodi Romano
NICOLA
1892 - Ceccardo aveva 21 anni,
Emilia 16, e, pur abitando a Serravalle, il mese mariano saliva a Nicola
Oh, fra le glauche selve a la
pendice
nel sol erme Nicola appollaiata,
come stanca colomba viatrice
che a terra del Tirren s’é refugiata
… A te il fior de’ pensieri e a la vallata,
cui la tua chiesa bianca benedice,
dove una vision d’amor beata
un giorno mi raggiò nel cuor felice!
Allor del maggio a l’esultar, in fiore,
e la valle e la chiesa, allor di canti
l’aprico borgo inteneriva il cuore.
E tra la dolce festa ella salia,
nel sol, le trecce e gli occhi radianti,
come pe’ cristiani in ciel Maria.
(Non c’è dubbio; la musa che ispirò maggiormente la poesia di Ceccardi è stata
Emilietta Venturini di Serravalle, nata a Nicola il 2 Agosto 1876. Bionda,
minuscola, con gli occhi azzurri. La cita in decine di poesie; ed è sempre lei,
l’Emilia novella del Viandante del 1910, che saluteranno i pioppi del poema.
Emilia sposò, nel 1896, Enrico Azzarini; nel 1945, da Udine, ritornò a Ortonovo.
Morì nel ‘46, Enrico nel 61. Avevano tre figli, due maschi e una femmina,
Piero, Pietro (?) e Ida Laura o Luisa o Luigia, maestra (?)). Abitava la casa
che sarà poi della sig. Doria, la balia. Potrei anche averla conosciuta!)
Prosa poetica
(Da Genova a Ortonovo pensando a Emilia
Venturini)
“Un cielo bianco, bianco e
sonnolento, un paesaggio dalle tinte smorte: dir si poteva: è il regno della
morte questa pianura quieta e senza vento?
Io viaggiava verso lei malata, a piedi e solo, ed ero molto stanco: era la
vista mia come annebbiata dal polverio dello stradale bianco.
Era la mente mia, una tristezza senza confine, come un mar di bruma che fluttua
via via, e mai l’alluma neppur di vespro pallida dolcezza.
Oh! io voleva affrettarmi e mi sentìa come un legame a’ piedi… - che tormento!
– non potea camminare…; era la via così lunga e concesso solo un lento passo
per volta!... Oh lo sapea, lontano io era ancora ed ella era malata assai
assai, la mia dolcezza amata… io viaggiava, e non finiva il piano. Oh, così
sempre, e a lenti passi ! Ed ella forse moria… Non l’avrei più veduta, mai più,
mai più veduta! O dolce è bella faccia, o di rose solatia tessuta, faccia che
non baciai, ma che m’ha riso – forse ora la fatal ombra di morte t’ha
scolorito?... Son le guance smorte, la bocca è chiusa e non ha più il sorriso!
Oh voler camminare in fretta, avanti; in fretta, in corsa, ansando, e non
potere, e aver sempre ne’ gli occhi in biancheggianti strisce l’interminabile
sentiere! …
Era malata, era malata assai: non sarei giunto a tempo: che destino! Invano,
sempre invano era il cammino, sempre: non sarei giunto mai, mai, mai… Ecco,
m’aspetta: prima di morire mi vorrebbe vedere e riparlare: e come ai dì che un
tenero fiorire, era il suo pian, di biade azzurre e chiare, mi tende la diafana
manina, e assorta nel delirio a se mi chiama: crede che il vento ancor tra rama
e rama canti e il sol ride in cerula mattina! ...
Oh, essa è morta e l’han distesa diaccia, ne la cassa di pioppo del suo fiume:
inchiodato è il coperchio: la sua faccia più non vedrà l’azzurro… Qualche lume
s’accende e pel sentier dove è fiorito il sogno d’oro de la passione, passa la
roca e lenta processione: muovo le rose e il cielo è scolorito…
Oh che tormento!... e aver in tutti i nervi la febbre, e dentro, il cuor triste
e dolente; averla ne’ pensier folli e protervi, che turbinavan disperatamente!
Morir di sete e non trovar per via un roseo pesco, un grappolo dorato; non
trovar, tra pioppi, correntia fresca, o un po’ d’acqua almeno in un fossato!...
Sempre così, così: è un sonnolento cielo, un paese da le tinte smorte: dir si
poteva: è il regno della morte questa pianura queta e senza vento? Una pace diffusa di colore, come ne’ vespri
d’un ottobre mite, quando le selve son ancor vestite di foglie, ma già un tenue
pallore s’insinua pel verde e un’indistinta malinconia vien dilagando in cuore,
e l’anima si sente ognor sospinta verso un’ignota meta di dolore” …
Viani l’amava e la recitava a memoria: Lorenzo Viani nasce il giorno dei Santi
(1882) e muore a 54 anni in quello dei Morti (1936) E’ stato il più grande
pittore italiano della corrente espressionista ed un autore letterario di tutto
rispetto, giornalista del Corriere della Sera (300 articoli), ma anche
agitatore politico di tendenze anarchiche, animatore culturale, illustratore
raffinato, insegnante autodidatta, esponente futurista e molte altre cose.
Nasce in una famiglia povera, di contadini e pastori, nel retroterra versiliese
(Luciano Viani bis-nipote dice che erano originari di Caprigliola). Il padre,
che ha tre figli maschi, ricava il poco da vivere come servitore di un nobile*,
ma ben presto perde anche quel lavoro. Inizia per Lorenzo un’infanzia grama in
cui vede il padre “scalpellato dai patimenti” e la madre “flagellata dalle
amaritudini”, come scriverà nella sua opera: “Il figlio del pastore”. Comincia
a condurre una vita randagia, insofferente di ogni autorità e di ogni
disciplina, motivo per cui abbandona la terza elementare e va garzone da un
barbiere (ha sbarbato anche D’Annunzio). Qui diviene avido lettore di grandi
romanzi francesi e di testi politici, maturando una visione del mondo
anarchica. Come militante anarchico e attivista, inizia frequentazioni che lo
porteranno ad intersecare i percorsi sia dei semplici come dei grandi e reputati
personaggi della sua epoca: esponenti della scena politica, culturale e
mondana. Conosce Menotti Garibaldi, il pittore Plinio Nomellini, che fu, da
subito suo amico e consigliere, Gabriele D’Annunzio e Puccini che lo chiama il
“Viani delle bestie” (disegnava animali). Scopre la sua passione per il disegno
nel 1899, per cui Nomellini, vedendolo dotato, lo indirizza all’Istituto d’Arte
di Lucca (a spese del comune di Viareggio), dove è allievo con Moses Levy. Nel
frattempo continua le sue voraci letture estendendo l’interesse ai grandi
romanzieri russi. Nel 1903, come membro dell’associazione anarchica “Delenda
Chartago”, fa un primo, breve assaggio del carcere. Liberato quello stesso
anno, partecipa alla biennale di Venezia, dove Nomellini gli presenta Giovanni
Fattori, del quale diviene nel 1904 indocile allievo presso l’Accademia di
Belle Arti di Firenze.
Anche a Firenze i suoi interessi artistici, letterari e politici lo portano ad
estendere la rete di conoscenze ed amicizie: conosce Libero Andretti, A.De
Witt, Giovanni Papini, Federigo Tozzi e, ritrova l’amico giornalista Ceccardo
Roccatagliata Ceccardi, che diverrà da allora la sua guida spirituale, e gli
dedicherà, post mortem, ben quattro
opere biografiche nonché, in seguito, molti elzeviri sul Corriere della Sera.
Ed è proprio Ceccardo (sic..) che ammansirà l’estremismo politico di Viani e lo
stimolerà anche alla produzione letteraria.
*Il padre e la madre di Viani erano servi (“meglio pastori che servi”, dirà
l’anarchico Lorenzo) a Villa Borbone delle Pianore di Capezzano Camaiore, di
Don Carlos, sposo di Maria Teresa di Savoia, duchessa di Lucca e Parma.
E proprio in quegli anni, 1892, qui, nasce Zita, futura ed ultima imperatrice
d’Austria per aver sposato Carlo I.
Viani dirà di sé: “… disegnai gli animali utili all’uomo; bovi, ciuchi, pecore,
quelli che con i miei uomini primi avevano tre parentele: la mansuetudine, la
testardaggine, la pazienza...Nel tempo, congiunsi l’animale ragionevole,
l’uomo, al rospo, al rospo interpretato come rivale dell’usignolo negli accordi
del crepuscolo: mondo terribile, toni bassi intenzionali, mormorazione di
colore, urlo di dolore… Dopo mi rivolsi al mare, ove ebbi la fortuna di
nascere. Il mio mare è quello che sa di pesce, d’aringhe, di musciame di tonnina;
il mare che frange tra ripe lutulenti, mare torbato dagli spurghi delle fiumane
e delle chiaviche… Dopo il mare ho guardato le Alpi Apuane, non come copertone
d’impalpo cromatico gonfiato d’alito rincotto nella cisterna addominale, ma
come vertebre gigantesche e ciclopiche”.
Corriere della Sera 1919 (“ancora sconvolto” dalla morte di Ceccardi).
“Chiuso nel mio studio della Camera del Lavoro di Viareggio, contornato da
bandiere nere, vermiglie ed eroiche, giuravo a me solo, sulla mia volontà
indomabile sola, o Minosse fiorentino*, che quanti avevano lasciato sui sassi
della strada o sulle spine della siepe un brandello della loro carne, o
nell'officina un fiore della loro giovinezza, o nel carcere il soffio di un
vasto affetto umano, dovevano aver la loro gloria in una ferma visione di
comune dolore e di comune terrore, questo ti devo, fratello mio immortale”.
*Nel Giudizio Universale di
Michelangelo sembra ci sia un orrendo riferimento a Papa Farnese.
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E’ STATA UN’AVVENTURA….
di Millene Lazzoni Puglia
In questa fine estate 2018,
quando gli ottanta anni sono arrivati anche per me, è inevitabile che i ricordi
si concentrino sulle irripetibili estati di un passato ormai lontano, quando
era consuetudine vivere il mare da vicino con mio marito Silvano e i nostri due
bambini, Federico e Martina. Ovviamente i bellissimi ricordi di quelle estati
sono soprattutto legati alle emozioni vissute a bordo della “Brucella”, barca a
fondo piatto tipica della foce del Magra, andata in seguito distrutta negli
anni 80 a causa di una forte mareggiata, mentre stava agli ormeggi. Forse, la
forza del mare era nel suo destino, perché nel passato aveva subito un episodio
analogo che si era, per fortuna, risolto bene…. Ma anche per merito del suo
“capitano” che per caso quella volta era a bordo da solo.
Era una delle tante giornate estive degli anni ’70 e Silvano sentiva forte il
richiamo del mare sotto forma di
immersione subacquea: il tempo era splendido, ma non ricordo per quale motivo
io e i bambini non avevamo potuto seguirlo come al solito. Col senno del poi,
sicuramente è stata una fortuna non essere anche noi a bordo, poiché quel
pomeriggio si rivelò molto, molto diverso da tutti gli altri.
Silvano, dopo essere partito da Bocca di Magra ed aver oltrepassato le piccole
spiagge a noi familiari che si trovano
alla base del promontorio di Monte Marcello, con la barca puntò dritto verso il
“Cruacin”, il grande scoglio dove sulle pareti sommerse crescevano i molluschi
più ambiti, i “datteri”.
Dopo i soliti rituali che quel tipo di pesca comporta, Silvano iniziò
l’immersione munito della “mazzetta” per rompere la roccia e della “pinza” per
estrarli dal loro “nascondiglio”, che il tempo e la natura avevano dato loro la
possibilità di costruirsi. Soltanto dopo un paio d’ore, Silvano ebbe la
sensazione che stesse succedendo qualcosa di strano in superficie: diminuzione
della luce e un insolito movimento dell’acqua accompagnato da un rumore sordo.
Ritenne opportuno risalire rapidamente: la situazione che si presentò ai suoi
occhi era drammatica; onde altissime s’infrangevano sul grande scoglio del
Cruacin e lungo le spiaggette verso Punta Bianca. La piccola barca saltava su e
giù mettendo a dura prova la “cima” che la teneva ancorata agli scogli del
fondale. Uscire da quella situazione era
oltremodo proibitivo, perché togliere l’ancora fissata sul fondo significava
lasciare la barca in balia delle onde che l’avrebbero rapidamente spinta e
sfasciata contro gli scogli insieme al suo “contenuto”. Il tentativo di mettere
in moto il motore fuoribordo per puntare verso il largo e contemporaneamente
liberare l’ancora che teneva ferma la barca, era difficilissimo e rischioso….
Operazione che solo un marinaio molto esperto poteva tentare in solitario……ma
Silvano dimostrò che lo era, difatti, con l’aiuto di un po’ di fortuna, riuscì
a fare le due cose insieme, portando con sé anche le bombole, il resto
dell’attrezzatura subacquea e, ovviamente, i preziosi datteri che era riuscito a
prendere. Procedendo verso il largo in direzione di Bocca di Magra, le onde si
facevano meno pericolose così Silvano ebbe modo di assistere alla tremenda
mareggiata che si stava abbattendo sulla costa che in quella zona è ricca di
piccole spiagge frequentate, anche quel giorno, da persone che vi arrivano con
barche private o con i “barconi”. Per i primi la situazione era particolarmente
complicata, perché non potevano muovere le loro barche a causa delle onde che
flagellavano la riva. La stessa cosa stava accadendo anche per quelli arrivati
con i barconi che non potevano andarli a riprendere per l’alto rischio di
essere spiaggiati dalla furia del mare. Di fatto il mare aveva invaso anche
questi piccoli arenili costringendo tutti ad arrampicarsi in qualche modo sulla
costa ripida, impervia e cespugliosa, senza sentieri o una possibilità
alternativa che li tirasse fuori da quella critica situazione. Chi conosce la
costa di Monte Marcello sa quanto è impraticabile sia per la discesa verso il
mare che per la risalita. Finalmente in tarda serata la tempesta si calmò
consentendo alle motovedette della Guardia costiera di La Spezia di andare,
anche con l’ausilio delle fotocellule, a recuperare quelle persone aggrappate
ai cespugli, spaventate, ma salve. E Silvano?
Sentendosi un miracolato, spinse al massimo il motore della barca verso il
porto sicuro di Bocca di Magra. Qui trovò gli abitanti del paese che
assistevano al grande spettacolo del mare in preda ad una tempesta eccezionale,
con i pescatori in prima fila preoccupati per le loro barche agli ormeggi, dove
di solito stanno tranquille, sbatacchiate con forza. Tra questi inquieti
spettatori c’erano anche le autorità perché temevano, forse, che qualche
sprovveduto, in vena di fare l’eroe, potesse prendere il mare con qualche
natante. Arrivato sulla terra ferma fu
chiesto a Silvano da dove venisse e rimasero scettici e stupiti quando si
sentirono rispondere “ dal Cruacin dove facevo pesca subacquea.”
Se in quel frangente Silvano si era sentito un “Superman”, come si poteva
dargli torto?
Nei giorni seguenti i giornali locali parlarono di questo fatto e, per quanto
mi riguarda, dopo oltre 40 anni, conservo nella mia mente vivo il ricordo del
racconto fattomi da Silvano di quell’avventura in ogni particolare. Così ho deciso
di metterlo su carta, perché anche altri potessero venirne a conoscenza,
soprattutto i figli e i nipoti; infatti il racconto orale è facile che si
disperda.
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Ancora su Paolo, ancora su Seinà
di Francesca Bello
Proprio ieri ho finito di
leggere Seinà, me lo sono
centellinato e gustato questo libretto introvabile, il primo in dialetto e così
diverso, ma anche così simile agli altri da lui scritti. Ho segnato, com’è mia
consuetudine, le poesie secondo me più belle, quelle più significative. Poi
l’ho riletto dall’inizio per trovare il
filo conduttore che le accomunava. Ho potuto perciò evidenziare i temi
ricorrenti nella poesia di Bertolani: l’amore, la morte, la luce, il mare, la
solitudine, la perdita di tutto in modo irreparabile, senza speranza. Ma
soprattutto si affacciava alla mente una presenza che avevo già notato in Incertezza dei bersagli, la presenza
degli uccelli, una costante della sua poesia. Sono frulli d’ali, apparizioni
oniriche, presenze vere o evocate, ma gli uccelli sono la colonna sonora che
accompagna il canto del poeta. Sono molte le poesie a loro dedicate in Seinà. E allora ci chiediamo come mai,
perché un esserino così piccolo diventa protagonista di un componimento poetico.
L’attenzione alle cose “minime” è una caratteristica della poesia di Bertolani,
fa parte di quel mondo, invisibile ai più, che è il sale della vita, quella
vera. Un mondo talvolta vagheggiato al limite col sogno. Come le piccole cose
che scandivano la vita di un mondo che non c’è più. Tutti elementi che nel
dolore presente rappresentano punti fermi, punti sicuri. Chi abita in campagna
conosce il canto degli uccelli, conosce il frullo delle loro ali, il fischio
dei merli che si chiamano, il lamentoso squittio della civetta. Chi abita in
campagna sente il canto del gallo al mattino e l’ululare dei cani la sera.
Sembra che segnino i confini del nostro spazio familiare, sentinelle per le nostre
care cose di tutti i giorni, rassicuranti punti cardinali.
La seconda poesia della
raccolta infatti è Picéto, il
pettirosso dal bavagliolo rosso, o la terza G’è
n’usèlo, in cui la civetta che urla in pieno giorno e non smette, col suo
gridare avvelena anche l’albero sui cui è appollaiata. In Frenguèlo invece il fringuello diventa un elemento rassicurante
nei momenti di insicurezza e di timore
del poeta. E poi troviamo il merlo “burlon”
che sa fare il verso anche agli altri
uccelli, ma non è sciocco, coión,
perché I svigna dai balìn pu d’ogni artro usèlo (fugge se sente degli
spari), il cucù, a cui il poeta fa
domande, scandisce il passare del tempo che scorre inesorabile verso la morte.
Poi troviamo i rondinotti, fainèi,
che vanno e vengono dal mare, il fagiano che monopolizza l’attenzione di un
cane, l’assiuolo con il suo chiù ossessivo e continuo. Ma quello che
ci intenerisce di più è lo scricciolo o tretetè , ne L’useleto der fredo, che è più piccolo di una noce. Il poeta
ascolta la sua voce da quando era piccolo e non capisce da dove possa venire
quel canto, date le sue dimensioni:
[…]
[…]
A le sento cantae aa grande Lo sento cantare a distesa
da quando ea en fassèa. da quando ero in fasce.
E nicò adè, che di agni a n’ho assè, E anche adesso, che di anni ne ho abbastanza
a nó so com’ la fa tanta góse non so come fa tanta voce
a stae tuta ‘nte’n corpo a stare tutta in un corpo
che squasi i nó gh’è. che quasi non c’è.
Questa
attenzione, che altrove in Seinà si
fa meno precisa e dettagliata, è l’attenzione alle piccole cose, di cui sopra,
che rappresentano punti saldi di consolazione e appoggio in quanto
costituiscono quel mondo ormai perduto ,
ma sicuro, che è il refrain costante nella poesia di Bertolani.
Questa
attenzione alle cose minime, impercettibili è tipica dei fanciulli, che si
sorprendono ed esultano o si spaventano ai frulli d’ali della natura attorno o
anche dei cacciatori attenti ai piccoli rumori. Non a caso qualche anno più
tardi Francesco Bruno, nella sua prefazione in versi a Piccolo cabotaggio una nuova raccolta poetica ma in lingua, lo definisce “cacciatore di frodo e di prede insensibili a lacci e tagliole”.
Questo
cantare fisso degli uccelli che riempie il giorno delle estati assolate, non
viene neppure notato invece dai Foresti (v.
testo riportato il mese scorso).
Ora
leggiamone alcune:
Picéto Pettirosso
Er cóstro i se meva… La siepe si muove…
Na bissa la nó l’è, dato Una biscia non è, dato
‘r fredo, a stagion. il freddo, la stagione.
Nì artro scapà da stabilèo. Né altro scappato dal recinto.
G’è solo ‘n picéto, E’ solo un pettirosso,
e a le vedo dar bavèo e lo vedo dal bavagliolo rosso,
rosso, prima chi vóia via prima che voli via.
Frenguélo Fringuello
Fame remane arénta Fammi restare vicino
ar te cantae, al tuo cantare,
frenguélo da maceta, fringuello del boschetto,
ma con a testa e a vita ma con la testa e il corpo
sbandonà: ché chì l’è buio sórve abbandonati: perché qui è buio sopra
drento e fèa, dentro e fuori,
i cagnassi i se sgoe e i
slunghe e notà, i cagnacci si sgolano e allungano le nottate,
i sómi i me rive ‘mpastà de sanguasso,i sogni mi arrivano impastati di sanguaccio,
d’erba grama… - Frenguélo, di erba cattiva…Fringuello,
la n’è rao non è raro
ch’a me sbàndia e a nó sàpia che mi sbandi e non sappia
sa son chì o sa son là. Se sono qui o se sono là.
Dimande ar cucù Domande al cucù
“Cucù cravàe, “Cucù cravàe,
quanti agni quanti anni
ho da campàe?” ho da campare?
…a resénto com’èsseghe …risento come esserci
a te gose – da quante stade fa? la tua
voce – da quante estati fa?
Man aa boca Mani alla bocca,
sgósete torna drito ae costèle sgolati ancora dritto alle collinette
carghe de sóe, cariche di sole,
er cunto perda torna dei cucù il conto perdi ancora dei cucù
- ma avóa pu che na vota. - ma ora più di un tempo.
Ciodo Assiuolo
Er ciodo drent’aa lissa L’assiuolo dentro il leccio
i bata ‘r tempo, i nó smarla batte il tempo, non manca
‘n egondo – ‘st’arelèio de pume, un
secondo – questo orologio di piume,
‘st’assassìn chi ne guasta er dormìe. Questo assassino
che ci guasta il dormire.
A m’aspèto che avanti de l’arba Mi aspetto che prima dell’alba
I ghe giùsten na bóna s-ciopetà… gli
aggiustino una buona fucilata…
Ma la ven giorno, Ma viene giorno,
retàca i artri usèi ricominciano gli altri uccelli
e i moadói a cantae e
i muratori a cantare
che lu i ghe dà anca drento che
lui ci dà ancora dentro
a bate ‘r tempo a battere il tempo
com’i fosse pagà. come fosse pagato.
Castelnuovo Magra 23
novembre 2018
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Ricordi di gioventù
di Maurizio
Sono rimasti impressi nella
mia mente alcuni fatti accaduti molti anni fa, ma che mi sembra siano successi
ieri e mio fratello, temendo che li avessi dimenticati, proprio ieri me li ha
rammentati.
Facevo il tornitore in marmo a Marina di Carrara. All'inizio mi recavo al
lavoro in bicicletta, ma poi acquistai uno scooter, la Lambretta 125 che io
trasformai in 150. Immaginatevi un giovane che lavorava a cottimo, con la
Lambretta arredata! Scorrazzavo da tutte le parti, andando persino dove la
gente camminava solo a piedi.
La mattina trasportavo anche mio fratello che scaricavo a Dogana, dove lui
lavorava come falegname. Una mattina camminavo a 60 Km all'ora ed in piena
curva abbiamo preso un chiodo per cui la ruota posteriore è andata
completamente a terra. Qualcuno di lassù mi ha dato una mano, consentendomi di
mantenere la Lambretta in piedi, per cui abbiamo evitato una rovinosa caduta.
Un uomo che ha assistito alla scena si è talmente spaventato che ha accantonato
il suo proposito di acquistare un motorino.
Poi cambiai mezzo di locomozione ed anche il mestiere. Acquistai varie auto, ma
l'episodio che vi racconto riguarda la 850 Sport rossa. Una sera mio babbo mi
disse: "Maurizio, non puoi venire a casa un po' prima?". Io gli
risposi: " O babbo non sono mica solo!" E lui: "Ho capito",
picchiandosi la mano sulla fronte. Per dirla in dialetto: " O Maurì, n t
pò venira a cá n pó pú presto?"
Risposta:"O bá a n son mica da me!" E lui: "ha i ho capí" ,
appoggiandosi una mano sulla fronte.
LA BESTEMMIA Chi bestemmia non
è figlio di Maria, non è figlio di Gesù, quando muore va laggiù. Va da
quell'ometto che si chiama diavoletto". Così si diceva ed io ho sempre
tenuto a mente questo importante insegnamento. Al mattino svolgo qualche piccola faccenda, quando ne ho voglia ed il
pomeriggio lo passo al bar. Ebbene, ho cambiato il mio bar abituale perché era
frequentato da una persona che fioriva ogni sua parola con una bestemmia. Non potevo sopportare questo comportamento! Ho smesso di giocare alle carte con uno che bestemmiava
ogni volta che perdeva. I giocatori con i quali ora passo un po' di tempo non
bestemmiano, credenti o non credenti. Chi bestemmia, oltre ad offendere Chi sta lassù, dà segno di maleducazione ed è
passibile di denuncia. Ma chi bestemmia è credente? Per me lo è ed allora
perché offende Dio? Frequentando i bar ho avuto modo di conoscere persone squisite. Da ultimo mi
sono imbattuto in un sant'uomo di cui non conosco neanche il nome e neanche lui
conosce il mio, tant'è che mi chiama "ortonovese", ma poi ho capito
tutto: "Era un amico di Walter".
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Lettera a Carla
di Barbara
Di seguito inseriamo l’ultima
lettera che la responsabile di Sightsavers ha spedito alla nostra amica Carla
Beggi, che già da qualche anno si sta impegnando nella raccolta fondi da
devolvere a questa associazione di volontariato.
Con l’occasione comunichiamo
un’errata corrige nell’ultimo numero del Sentiero: il ricavato della tombolata
è stato di 800 euro.
Cara Carla,
ti invio questa lettera perché
desidero ringraziarti con tutto il cuore per il grande aiuto che continui a
dare al nostro lavoro di lotta alla cecità nei paesi in via di sviluppo.
Ancora una volta hai scelto di
impegnarti per portare sostegno ai bambini che vivono nei luoghi più poveri e
dimenticati del mondo e sono colpiti dalle malattie degli occhi, alleviando le
loro sofferenze e cambiando il loro futuro.
Grazie ai fondi che hai
raccolto in occasione della tombolata che si è tenuta il 27 settembre scorso
presso l’ARCI CPO Ortonovo e al contributo dell’ARCI stessa, sarà possibile proteggere
con l’antibiotico ben 4705 bambini dal tracoma.
E questo non solo trasformerà
le loro vite, ma contribuirà anche alla grande iniziativa che ha l’obiettivo di
eliminare per sempre questa terribile malattia, indicendo
significativamente sul futuro dell’umanità.
Quando questo straordinario
risultato sarà raggiunto, tu e tutti coloro che, su tuo invito, hanno scelto di
partecipare sapete di aver contribuito in prima persona a un progetto storico e
sarà anche grazie a voi se nessuno dovrà mai più vivere nella paura di
diventare cieco tra mille sofferenze a causa del tracoma.
Per il tuo grande cuore, per
tutte le iniziative che instancabilmente promuovi e per il tuo generoso e
prezioso aiuto: ancora grazie infinite!
Un forte abbraccio
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Un curato di campagna
di Marino Bertocci
Ho (ri)letto, devo
confessare…con un poco di fatica, il “diario di un curato di campagna”, di
Bernanos…ed ho rivissuto, nel mio immaginario, la povertà materiale in cui è
vissuto quel povero prete, così come mi sono immedesimato, partecipe ed impietosito,
nella sua sofferenza spirituale per l’egoismo e l’aridità della sua parrocchia
e, successivamente, per la sua sofferenza fisica, causata da quel terribile
male che lo ha portato, troppo presto, alla tomba. Non so se il (ri)vivere una
situazione che, pur nella sua drammaticità, è stata per decenni comune a tante
storie di tanti paesi e dei pastori che dovevano occuparsi della cura
spirituale delle loro, troppo spesso recalcitranti, pecorelle mi sia stato
edificante…Il tempo passa e le situazioni storiche cambiano, evolvendosi od
involvendosi, a seconda dei vari punti di vista.
Quello che è certo è che una vena di malinconia per quello spaccato di
provincia, così uguale in tutto il mondo occidentale, mi ha accompagnato per
giorni… fino a quando, del tutto casualmente, mi è spontaneamente capitato di
dare una mano ad un prete (sì, avete letto bene. Un prete che non ha problemi,
come troppi suoi confratelli, a mostrarsi al mondo per ciò che è, anche
esteriormente, vestendo la veste talare…segno distintivo e visibile di un
impegno di vita…). Non ho fatto nulla di eccezionale, gli ho semplicemente dato
una mano a trasportare dalla canonica alla sacrestia qualche bottiglia di vino
che voleva offrire a persone là radunate al termine di una manifestazione. Che cosa,
dunque, mi ha ricordato il “curato”? un piccolo, semplicissimo gesto, gesto che
nessuno, e dico nessuno dei presenti si fosse minimamente preoccupato di fare
con quel Curato, offrendosi per ciò che, invece, avevo fatto io…portare qualche
bottiglia di vino dalla canonica alla sacrestia. Nessun mio gesto eroico, solo
piccola partecipazione all’ansia di ben figurare nell’occasione, da parte di
quel prete, di farsi accettare da una parrocchia in cui se non la fede – non
sono nessuno per azzardare questa valutazione -
ma indubbiamente la solidarietà è perlomeno moribonda…se nessuno ha
sentito il bisogno morale di sentirsi coinvolto in un veramente piccolissimo
gesto di collaborazione. Ma…quanta gioia di servizio era in quel Prete al pensiero
che tra pochi minuti quel povero nulla sarebbe stato da lui offerto a quel
gruppo di egoisti, comunque definiti tali solo da me…
Conclusione?
Nessuna…ognuno di noi deve trarre la propria. Certo è che, personalmente, poi
passando dalla Chiesa al termine “dell’evento “non mi è sfuggita la cura con
cui è conservata la Presenza Eucaristica e mi sono sentito naturalmente in
dovere di ringraziare il Vero Ospite di quella Casa per il dono di un Sacerdote
anche in quella, almeno percepita tale, remota località del nostro meraviglioso
appennino. Malgrado l’apparente aridità in cui quotidianamente offre la sua
vita missionaria…esattamente con “il curato di campagna” la sua semina del bene
non si arresta. Possa Dio ricompensare la sua fatica e…donarci tanti altri uomini
e donne che, senza nulla attendersi, offrano la loro vita…solamente per la Sua
Gloria!
Luni, 28 novembre 2018
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