N° 11 - Dicembre 2018
Storie dei lettori
  In ricordo di Don Giovanni
di Enzo


Come tutte le domeniche, io partecipavo alla S. Messa delle ore 9,30 di S. Martino per accompagnare all'organo i canti dei fedeli, quando ho sentito il mio telefonino che vibrava, avendo tolto la soneria per non disturbare la funzione religiosa. Io non ho risposto alla prima chiamata ma poi, vista l'insistenza, sono uscito per rispondere e quindi ho appreso da Fabrizio che poco prima Don Giovanni ci aveva lasciati per sempre. Col cuore in subbuglio, sono rientrato ed ho subito comunicato la dolorosa notizia a tutti i componenti del coro e Claudia ha subito inserito nelle preghiere dei fedeli una preghiera per il nostro amato Don Giovanni. Alla fine della Messa, io ho comunicato a tutti i presenti la triste notizia che ha ingenerato profondo ed unanime dolore: ho visto spuntare parecchie lacrime che si sono unite alle mie!
Immediatamente abbiamo deciso con Padre Michele di programmare una solenne Messa di suffragio, con recita del S.Rosario nella sua Chiesa di San Giuseppe, dandone informazione ai fedeli, attraverso il manifesto funebre che avremmo affisso in tutto il Vicariato.
Don Giovanni era proprio nel cuore di tutti, tant'è che la Chiesa era veramente gremita di fedeli.
Ma perché abbiamo voluto così tanto bene al nostro Don Giovanni? Perché tutti gli anni per il suo compleanno (16 agosto) partivano alcuni parrocchiani, me compreso, per andare a festeggiare con lui gli anni che aumentavano e sono arrivati a 105? Perché sono stati organizzati alcuni pullman per consentire a numerosi fedeli di rivederlo e festeggiarlo? Perché la popolazione ha chiesto ed ottenuto che cinque anni fa tornasse in mezzo ai suoi parrocchiani che gli hanno tributato un’accoglienza davvero commovente e grandi manifestazioni d'affetto e festeggiamenti?
La risposta è abbastanza scontata: tutti gli volevano bene perché nei 30 anni del suo sacerdozio a Casano ha seminato davvero tanto. Lui si impegnava con tutte le sue forze che man mano si riducevano ed è rimasto ad assisterci proprio finché ha potuto e cioè fino all'età di 95 anni!
Ho ancora davanti agli occhi il suo comportamento nel momento in cui ha dovuto lasciare la sua Chiesa, la sua canonica ed i suoi parrocchiani, un comportamento di grande serenità, nella consapevolezza di aver dato ai suoi amati parrocchiani tutto quello che il buon Dio gli aveva concesso. L'ho accompagnato io a Trebaseleghe (Padova, presso la Casa Don Orione) con la mia auto, tanto Don Giovanni portava con sé poche cose e quindi non c'era bisogno di grandi spazi. Certo, è stato un viaggio molto triste per me ed il momento davvero doloroso è stato quello del distacco. Ho ancora davanti agli occhi il suo volto malinconico: io rappresentavo in quell'attimo tutti i suoi adorati parrocchiani che aveva lasciato con profondo dolore, anche se con serena rassegnazione, nel rispetto delle regole orionine: prima fra tutte l'obbedienza.
L'unica consolazione era quella di rivederci spesso. E noi abbiamo davvero rispettato questo impegno morale!
Don Giovanni è stato per noi un grande pastore che ha saputo guidare con generosità, dedizione ed amore le anime a lui affidate.
Quanto ci sono mancate e ci mancheranno le sue omelie semplici, che tutti capivano, ma toccanti e profonde!
Io, per motivi di lavoro che mi portavano lontano (Trento e Trieste) l'ho potuto frequentare assiduamente soprattutto negli ultimi anni quando lui, lavoratore instancabile, avanzava verso la tarda età, ma questo non gli ha impedito di curare anche molte opere volte al miglioramento della vita parrocchiale, come stanno a testimoniare le ultime in ordine di tempo quali il campetto,gli impianti elettronici nelle due chiese e nei campanili, gli adeguamenti degli impianti di illuminazione delle due chiese e quindi la meravigliosa gradinata di San Martino ed il "Presepe Vivente" lungo il Parmignola. Tutte queste opere viventi rimarranno sempre a testimonianza di una grande, grande presenza.
Ecco perché ora tutti noi ci sentiamo un po' orfani e proviamo un nodo in gola ed una profonda commozione, anche se dobbiamo ringraziare il buon Dio e la nostra Madonna del Mirteto per averci fatto un così grande dono e per avercelo preservato così a lungo.


  Dalle tombe di Tarquinia a Pablo Picasso
di Giorgio Bottiglioni



Iconografia dei flauti etruschi


Claudio Eliano, filosofo e scrittore romano in lingua greca vissuto fra Roma e Preneste tra la fine del II e l’inizio del III secolo d.C., riporta un curioso aneddoto nella sua compilazione enciclopedica “Sulla natura degli animali”:
Un racconto, ricordato frequentemente dagli Etruschi, pretende che presso di loro si catturano cinghiali e i cervi non soltanto con reti e con cani, come si fa in generale, ma con l’aiuto della musica. Ecco come: dispongono le reti e gli altri arnesi da caccia e tendono le loro trappole alla selvaggina; ma ecco che balza fuori anche un flautista di talento, che cerca di suonare le melodie più armoniose e fa risuonare tutto ciò che vi è di più dolce nell’arte del flauto; nel silenzio e nella pace generale questa musica arriva sulle rive, nelle vallate e al fondo delle foreste e il suono, per dirla con una parola, penetra in tutti i nascondigli e in tutte le tane degli animali.
Dà prima cominciano con lo stupirsi e con l’averne paura; poi il puro e irresistibile piacere della musica s’impadronisce di loro e quando ne sono affascinati dimenticano i loro piccoli e la loro tana. Sebbene gli animali non amino allontanarsi dal luogo natio, trascinati come fossero soggetti a qualche incanto, sotto il fascino della melodia, si avvicinano e cadono nelle reti dei cacciatori, vittime della musica.

Da queste poche righe si comprende quanto la musica fosse importante nell’antica civiltà etrusca, tanto da avere uno spazio proprio in ogni attività materiale: dalla caccia ai rituali religiosi, dalla guerra al banchetto, finanche alle attività più umili quali la pesca o il taglio della legna. Gli Etruschi vissero nel centro Italia, tra i fiumi Arno e Tevere, dal X al I secolo a.C., quando la loro cultura fu assorbita da quella romana. Un’aura di mistero ha da sempre circondato la cultura etrusca, sebbene negli ultimi tempi l’archeologia abbia fornito dati di enorme importanza a seguito dei numerosi ritrovamenti sepolcrali in Toscana e nell’alto Lazio. Poco chiara è l’origine di questa popolazione, forse autoctona, forse proveniente dall’Anatolia, o forse, addirittura, dalla vicina Sardegna. Analogamente incerta è la natura della lingua etrusca, da alcuni considerata affine all’odierno ungherese. Certo è, come diceva Eliano e come testimoniano vari affreschi e sculture, che la musica rivestiva un ruolo di prim’ordine fra le attività degli Etruschi. Fra tutti, lo strumento caratteristico di questa civiltà è il flauto, presente in diverse forme che possono apparire come prototipi arcaici de flauto moderno traverso o dritto oppure dell’oboe o del clarinetto.
La siringa o o syrinx, ovvero il flauto di Pan, è uno strumento comune a buona parte delle civiltà arcaiche, non necessariamente entrate in contatto fra di loro, quali appunto, gli Etruschi, i Cinesi e le civiltà precolombiane. Le origini del flauto di Pan hanno fatto arrovellare i cervelli di illustri musicologi, archeologi e antropologi che ancora oggi non sono giunti a conclusioni concordanti. Le siringhe etrusche potevano avere da 5 a 13 tubi ed erano costruite con i gambi di cicuta, come testimoniato da Virgilio nelle Bucoliche, ma anche col legno, la terracotta, l’alabastro e il metallo.

Agli Etruschi va il merito della prima raffigurazione del flauto traverso, presente su urne provenienti da Perugia e da Volterra, databili al II secolo d.C. o anche prima. In due urne in particolare viene rappresentata un’interessante variante del flauto traverso, chiamata plagiaulos o bombix. Si tratta di uno strumento in tutto simile al flauto traverso, se non per l’ancia semplice inserita nel buco per l’insufflazione. Walter Maioli, flautista e paleorganologo, ha proposto di recente alcune riproduzioni di questo particolare flauto che hanno dimostrato di produrre suoni unici, dai timbri “di canna” straordinariamente caldi e sensuali.
Le tibiae etrusche erano doppi strumenti a fiato che funzionavano con un’ancia doppia, simile a quella dell’oboe. Strumenti analoghi erano presenti, come testimonia l’ampia documentazione iconografica, in tutto il bacino del Mediterraneo, in Mesopotamia e fra la popolazione dei Celti. Caratteristica peculiare delle tibiae etrusche è il padiglione finale a campana, la più famosa raffigurazione pittorica di questi strumenti proviene dalla cosiddetta Tomba dei Leopardi di Tarquinia. La tomba, datata al 473 a.C., è una delle opere più significative e importanti dell’arte funeraria estrusca.  Il suo nome si deve alla raffigurazione di due leopardi rappresentati nello spazio trapezoidale posto di fronte all’ingresso. Le scene dipinte rappresentano un simposio, con uomini e donne sdraiati su alcuni triclini mentre consumano il pasto, fra alcuni ulivi fruttosi; accompagnano il banchetto danzatori e suonatori.

La tomba fu scoperta nel 1833 e l’eco della straordinaria fattura e conservazione dei suoi “tesori” fu tale e così prolungata nel tempo da influenzare artisti tanto diversi e lontani quali Edward Poynter e Pablo Picasso.
Il pittore inglese Sir Edward Poynter  (1836-1919) fu Presidente della Royal Academy per 22 anni ed è giustamente considerato un importante esponente del cosiddetto Classicismo Vittoriano, insieme ai più noti F. Leigton e L. Alma-Tadema. Poynter era affascinato dalle antichità classiche, come ben testimoniano i suoi due quadri più famosi, ispirati ai fatti di Pompei e di Cartagine. Troviamo fedelmente riprodotti gli strumenti etruschi della tomba di Tarquinia in un dipinto del 1893 raffigurante Chloe, la giovane pastorella protagonista, insieme all’amato Dafni, di un romanzo di Longo Sofista (II –III secolo), da cui Ravel trasse ispirazione per il suo ben noto balletto.

Poco più di mezzo secolo dopo, Picasso, in un periodo della sua straordinaria storia artistica che lo vide confrontarsi col Classicismo, ripropone il tema delle tibiae etrusche nel dipinto intitolato Satiri e Capre del 1959. Il padiglione a campana del doppio strumento imboccato dal satiro non lascia dubbio alcuno sul modello da cui il grande pittore spagnolo ha preso ispirazione.


  Ceccardo Roccatagliata Ceccardi
di Parodi Romano


NICOLA

1892 - Ceccardo aveva 21 anni, Emilia 16, e, pur abitando a Serravalle, il mese mariano saliva a Nicola

Oh, fra le glauche selve a la pendice 
nel sol erme Nicola appollaiata,
come stanca colomba viatrice 
che a terra del Tirren s’é refugiata
… A te il fior de’ pensieri e a la vallata,
cui la tua chiesa bianca benedice,
dove una vision d’amor beata 
un giorno mi raggiò nel cuor felice! 
Allor del maggio a l’esultar, in fiore,
e la valle e la chiesa, allor di canti
l’aprico borgo inteneriva il cuore.
E tra la dolce festa ella salia,
nel sol, le trecce  e gli occhi radianti,
come pe’ cristiani in ciel Maria.


(Non c’è dubbio; la musa che ispirò maggiormente la poesia di Ceccardi è stata Emilietta Venturini di Serravalle, nata a Nicola il 2 Agosto 1876. Bionda, minuscola, con gli occhi azzurri. La cita in decine di poesie; ed è sempre lei, l’Emilia novella del Viandante del 1910, che saluteranno i pioppi del poema. Emilia sposò, nel 1896, Enrico Azzarini; nel 1945, da Udine, ritornò a Ortonovo. Morì nel ‘46, Enrico nel 61. Avevano tre figli, due maschi e una femmina, Piero, Pietro (?) e Ida Laura o Luisa o Luigia, maestra (?)). Abitava la casa che sarà poi della sig. Doria, la balia. Potrei anche averla conosciuta!)

Prosa poetica

 (Da Genova a Ortonovo pensando a Emilia Venturini)

“Un cielo bianco, bianco e sonnolento, un paesaggio dalle tinte smorte: dir si poteva: è il regno della morte questa pianura quieta e senza vento?
Io viaggiava verso lei malata, a piedi e solo, ed ero molto stanco: era la vista mia come annebbiata dal polverio dello stradale bianco.
Era la mente mia, una tristezza senza confine, come un mar di bruma che fluttua via via, e mai l’alluma neppur di vespro pallida dolcezza.
Oh! io voleva affrettarmi e mi sentìa come un legame a’ piedi… - che tormento! – non potea camminare…; era la via così lunga e concesso solo un lento passo per volta!... Oh lo sapea, lontano io era ancora ed ella era malata assai assai, la mia dolcezza amata… io viaggiava, e non finiva il piano. Oh, così sempre, e a lenti passi ! Ed ella forse moria… Non l’avrei più veduta, mai più, mai più veduta! O dolce è bella faccia, o di rose solatia tessuta, faccia che non baciai, ma che m’ha riso – forse ora la fatal ombra di morte t’ha scolorito?... Son le guance smorte, la bocca è chiusa e non ha più il sorriso! Oh voler camminare in fretta, avanti; in fretta, in corsa, ansando, e non potere, e aver sempre ne’ gli occhi in biancheggianti strisce l’interminabile sentiere! …
Era malata, era malata assai: non sarei giunto a tempo: che destino! Invano, sempre invano era il cammino, sempre: non sarei giunto mai, mai, mai… Ecco, m’aspetta: prima di morire mi vorrebbe vedere e riparlare: e come ai dì che un tenero fiorire, era il suo pian, di biade azzurre e chiare, mi tende la diafana manina, e assorta nel delirio a se mi chiama: crede che il vento ancor tra rama e rama canti e il sol ride in cerula mattina! ...
Oh, essa è morta e l’han distesa diaccia, ne la cassa di pioppo del suo fiume: inchiodato è il coperchio: la sua faccia più non vedrà l’azzurro… Qualche lume s’accende e pel sentier dove è fiorito il sogno d’oro de la passione, passa la roca e lenta processione: muovo le rose e il cielo è scolorito…
Oh che tormento!... e aver in tutti i nervi la febbre, e dentro, il cuor triste e dolente; averla ne’ pensier folli e protervi, che turbinavan disperatamente!
Morir di sete e non trovar per via un roseo pesco, un grappolo dorato; non trovar, tra pioppi, correntia fresca, o un po’ d’acqua almeno in un fossato!...
Sempre così, così: è un sonnolento cielo, un paese da le tinte smorte: dir si poteva: è il regno della morte questa pianura queta e senza vento?  Una pace diffusa di colore, come ne’ vespri d’un ottobre mite, quando le selve son ancor vestite di foglie, ma già un tenue pallore s’insinua pel verde e un’indistinta malinconia vien dilagando in cuore, e l’anima si sente ognor sospinta verso un’ignota meta di dolore” …
Viani l’amava e la recitava a memoria: Lorenzo Viani nasce il giorno dei Santi (1882) e muore a 54 anni in quello dei Morti (1936) E’ stato il più grande pittore italiano della corrente espressionista ed un autore letterario di tutto rispetto, giornalista del Corriere della Sera (300 articoli), ma anche agitatore politico di tendenze anarchiche, animatore culturale, illustratore raffinato, insegnante autodidatta, esponente futurista e molte altre cose. Nasce in una famiglia povera, di contadini e pastori, nel retroterra versiliese (Luciano Viani bis-nipote dice che erano originari di Caprigliola). Il padre, che ha tre figli maschi, ricava il poco da vivere come servitore di un nobile*, ma ben presto perde anche quel lavoro. Inizia per Lorenzo un’infanzia grama in cui vede il padre “scalpellato dai patimenti” e la madre “flagellata dalle amaritudini”, come scriverà nella sua opera: “Il figlio del pastore”. Comincia a condurre una vita randagia, insofferente di ogni autorità e di ogni disciplina, motivo per cui abbandona la terza elementare e va garzone da un barbiere (ha sbarbato anche D’Annunzio). Qui diviene avido lettore di grandi romanzi francesi e di testi politici, maturando una visione del mondo anarchica. Come militante anarchico e attivista, inizia frequentazioni che lo porteranno ad intersecare i percorsi sia dei semplici come dei grandi e reputati personaggi della sua epoca: esponenti della scena politica, culturale e mondana. Conosce Menotti Garibaldi, il pittore Plinio Nomellini, che fu, da subito suo amico e consigliere, Gabriele D’Annunzio e Puccini che lo chiama il “Viani delle bestie” (disegnava animali). Scopre la sua passione per il disegno nel 1899, per cui Nomellini, vedendolo dotato, lo indirizza all’Istituto d’Arte di Lucca (a spese del comune di Viareggio), dove è allievo con Moses Levy. Nel frattempo continua le sue voraci letture estendendo l’interesse ai grandi romanzieri russi. Nel 1903, come membro dell’associazione anarchica “Delenda Chartago”, fa un primo, breve assaggio del carcere. Liberato quello stesso anno, partecipa alla biennale di Venezia, dove Nomellini gli presenta Giovanni Fattori, del quale diviene nel 1904 indocile allievo presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze.
Anche a Firenze i suoi interessi artistici, letterari e politici lo portano ad estendere la rete di conoscenze ed amicizie: conosce Libero Andretti, A.De Witt, Giovanni Papini, Federigo Tozzi e, ritrova l’amico giornalista Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, che diverrà da allora la sua guida spirituale, e gli dedicherà, post mortem,  ben quattro opere biografiche nonché, in seguito, molti elzeviri sul Corriere della Sera. Ed è proprio Ceccardo (sic..) che ammansirà l’estremismo politico di Viani e lo stimolerà anche alla produzione letteraria.
*Il padre e la madre di Viani erano servi (“meglio pastori che servi”, dirà l’anarchico Lorenzo) a Villa Borbone delle Pianore di Capezzano Camaiore, di Don Carlos, sposo di Maria Teresa di Savoia, duchessa di Lucca e Parma.
E proprio in quegli anni, 1892, qui, nasce Zita, futura ed ultima imperatrice d’Austria per aver sposato Carlo I.
Viani dirà di sé: “… disegnai gli animali utili all’uomo; bovi, ciuchi, pecore, quelli che con i miei uomini primi avevano tre parentele: la mansuetudine, la testardaggine, la pazienza...Nel tempo, congiunsi l’animale ragionevole, l’uomo, al rospo, al rospo interpretato come rivale dell’usignolo negli accordi del crepuscolo: mondo terribile, toni bassi intenzionali, mormorazione di colore, urlo di dolore… Dopo mi rivolsi al mare, ove ebbi la fortuna di nascere. Il mio mare è quello che sa di pesce, d’aringhe, di musciame di tonnina; il mare che frange tra ripe lutulenti, mare torbato dagli spurghi delle fiumane e delle chiaviche… Dopo il mare ho guardato le Alpi Apuane, non come copertone d’impalpo cromatico gonfiato d’alito rincotto nella cisterna addominale, ma come vertebre gigantesche e ciclopiche”.
Corriere della Sera 1919 (“ancora sconvolto” dalla morte di Ceccardi).
“Chiuso nel mio studio della Camera del Lavoro di Viareggio, contornato da bandiere nere, vermiglie ed eroiche, giuravo a me solo, sulla mia volontà indomabile sola, o Minosse fiorentino*, che quanti avevano lasciato sui sassi della strada o sulle spine della siepe un brandello della loro carne, o nell'officina un fiore della loro giovinezza, o nel carcere il soffio di un vasto affetto umano, dovevano aver la loro gloria in una ferma visione di comune dolore e di comune terrore, questo ti devo, fratello mio immortale”.

*Nel Giudizio Universale di Michelangelo sembra ci sia un orrendo riferimento a Papa Farnese.

  E’ STATA UN’AVVENTURA….
di Millene Lazzoni Puglia



In questa fine estate 2018, quando gli ottanta anni sono arrivati anche per me, è inevitabile che i ricordi si concentrino sulle irripetibili estati di un passato ormai lontano, quando era consuetudine vivere il mare da vicino con mio marito Silvano e i nostri due bambini, Federico e Martina. Ovviamente i bellissimi ricordi di quelle estati sono soprattutto legati alle emozioni vissute a bordo della “Brucella”, barca a fondo piatto tipica della foce del Magra, andata in seguito distrutta negli anni 80 a causa di una forte mareggiata, mentre stava agli ormeggi. Forse, la forza del mare era nel suo destino, perché nel passato aveva subito un episodio analogo che si era, per fortuna, risolto bene…. Ma anche per merito del suo “capitano” che per caso quella volta era a bordo da solo.
Era una delle tante giornate estive degli anni ’70 e Silvano sentiva forte il richiamo del mare  sotto forma di immersione subacquea: il tempo era splendido, ma non ricordo per quale motivo io e i bambini non avevamo potuto seguirlo come al solito. Col senno del poi, sicuramente è stata una fortuna non essere anche noi a bordo, poiché quel pomeriggio si rivelò molto, molto diverso da tutti gli altri.
Silvano, dopo essere partito da Bocca di Magra ed aver oltrepassato le piccole spiagge a noi familiari  che si trovano alla base del promontorio di Monte Marcello, con la barca puntò dritto verso il “Cruacin”, il grande scoglio dove sulle pareti sommerse crescevano i molluschi più ambiti, i “datteri”.
Dopo i soliti rituali che quel tipo di pesca comporta, Silvano iniziò l’immersione munito della “mazzetta” per rompere la roccia e della “pinza” per estrarli dal loro “nascondiglio”, che il tempo e la natura avevano dato loro la possibilità di costruirsi. Soltanto dopo un paio d’ore, Silvano ebbe la sensazione che stesse succedendo qualcosa di strano in superficie: diminuzione della luce e un insolito movimento dell’acqua accompagnato da un rumore sordo. Ritenne opportuno risalire rapidamente: la situazione che si presentò ai suoi occhi era drammatica; onde altissime s’infrangevano sul grande scoglio del Cruacin e lungo le spiaggette verso Punta Bianca. La piccola barca saltava su e giù mettendo a dura prova la “cima” che la teneva ancorata agli scogli del fondale.  Uscire da quella situazione era oltremodo proibitivo, perché togliere l’ancora fissata sul fondo significava lasciare la barca in balia delle onde che l’avrebbero rapidamente spinta e sfasciata contro gli scogli insieme al suo “contenuto”. Il tentativo di mettere in moto il motore fuoribordo per puntare verso il largo e contemporaneamente liberare l’ancora che teneva ferma la barca, era difficilissimo e rischioso….
Operazione che solo un marinaio molto esperto poteva tentare in solitario……ma Silvano dimostrò che lo era, difatti, con l’aiuto di un po’ di fortuna, riuscì a fare le due cose insieme, portando con sé anche le bombole, il resto dell’attrezzatura subacquea e, ovviamente, i preziosi datteri che era riuscito a prendere. Procedendo verso il largo in direzione di Bocca di Magra, le onde si facevano meno pericolose così Silvano ebbe modo di assistere alla tremenda mareggiata che si stava abbattendo sulla costa che in quella zona è ricca di piccole spiagge frequentate, anche quel giorno, da persone che vi arrivano con barche private o con i “barconi”. Per i primi la situazione era particolarmente complicata, perché non potevano muovere le loro barche a causa delle onde che flagellavano la riva. La stessa cosa stava accadendo anche per quelli arrivati con i barconi che non potevano andarli a riprendere per l’alto rischio di essere spiaggiati dalla furia del mare. Di fatto il mare aveva invaso anche questi piccoli arenili costringendo tutti ad arrampicarsi in qualche modo sulla costa ripida, impervia e cespugliosa, senza sentieri o una possibilità alternativa che li tirasse fuori da quella critica situazione. Chi conosce la costa di Monte Marcello sa quanto è impraticabile sia per la discesa verso il mare che per la risalita. Finalmente in tarda serata la tempesta si calmò consentendo alle motovedette della Guardia costiera di La Spezia di andare, anche con l’ausilio delle fotocellule, a recuperare quelle persone aggrappate ai cespugli, spaventate, ma salve. E Silvano?
Sentendosi un miracolato, spinse al massimo il motore della barca verso il porto sicuro di Bocca di Magra. Qui trovò gli abitanti del paese che assistevano al grande spettacolo del mare in preda ad una tempesta eccezionale, con i pescatori in prima fila preoccupati per le loro barche agli ormeggi, dove di solito stanno tranquille, sbatacchiate con forza. Tra questi inquieti spettatori c’erano anche le autorità perché temevano, forse, che qualche sprovveduto, in vena di fare l’eroe, potesse prendere il mare con qualche natante.  Arrivato sulla terra ferma fu chiesto a Silvano da dove venisse e rimasero scettici e stupiti quando si sentirono rispondere “ dal Cruacin dove facevo pesca subacquea.”
Se in quel frangente Silvano si era sentito un “Superman”, come si poteva dargli torto?
Nei giorni seguenti i giornali locali parlarono di questo fatto e, per quanto mi riguarda, dopo oltre 40 anni, conservo nella mia mente vivo il ricordo del racconto fattomi da Silvano di quell’avventura in ogni particolare. Così ho deciso di metterlo su carta, perché anche altri potessero venirne a conoscenza, soprattutto i figli e i nipoti; infatti il racconto orale è facile che si disperda.



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  Ancora su Paolo, ancora su Seinà
di Francesca Bello



Proprio ieri ho finito di leggere Seinà, me lo sono centellinato e gustato questo libretto introvabile, il primo in dialetto e così diverso, ma anche così simile agli altri da lui scritti. Ho segnato, com’è mia consuetudine, le poesie secondo me più belle, quelle più significative. Poi l’ho riletto  dall’inizio per trovare il filo conduttore che le accomunava. Ho potuto perciò evidenziare i temi ricorrenti nella poesia di Bertolani: l’amore, la morte, la luce, il mare, la solitudine, la perdita di tutto in modo irreparabile, senza speranza. Ma soprattutto si affacciava alla mente una presenza che avevo già notato in Incertezza dei bersagli, la presenza degli uccelli, una costante della sua poesia. Sono frulli d’ali, apparizioni oniriche, presenze vere o evocate, ma gli uccelli sono la colonna sonora che accompagna il canto del poeta. Sono molte le poesie a loro dedicate in Seinà. E allora ci chiediamo come mai, perché un esserino così piccolo diventa protagonista di un componimento poetico. L’attenzione alle cose “minime” è una caratteristica della poesia di Bertolani, fa parte di quel mondo, invisibile ai più, che è il sale della vita, quella vera. Un mondo talvolta vagheggiato al limite col sogno. Come le piccole cose che scandivano la vita di un mondo che non c’è più. Tutti elementi che nel dolore presente rappresentano punti fermi, punti sicuri. Chi abita in campagna conosce il canto degli uccelli, conosce il frullo delle loro ali, il fischio dei merli che si chiamano, il lamentoso squittio della civetta. Chi abita in campagna sente il canto del gallo al mattino e l’ululare dei cani la sera. Sembra che segnino i confini del nostro spazio familiare, sentinelle per le nostre care cose di tutti i giorni, rassicuranti punti cardinali.

La seconda poesia della raccolta infatti è Picéto, il pettirosso dal bavagliolo rosso, o la terza G’è n’usèlo, in cui la civetta che urla in pieno giorno e non smette, col suo gridare avvelena anche l’albero sui cui è appollaiata. In Frenguèlo invece il fringuello diventa un elemento rassicurante nei  momenti di insicurezza e di timore del poeta. E poi troviamo il merlo “burlon” che sa fare il  verso anche agli altri uccelli, ma non è sciocco, coión, perché  I svigna dai balìn pu d’ogni artro usèlo (fugge se sente degli spari), il cucù, a cui il poeta fa domande, scandisce il passare del tempo che scorre inesorabile verso la morte. Poi troviamo i rondinotti, fainèi, che vanno e vengono dal mare, il fagiano che monopolizza l’attenzione di un cane, l’assiuolo con il suo  chiù ossessivo e continuo. Ma quello che ci intenerisce di più è lo scricciolo o tretetè , ne L’useleto der fredo, che è più piccolo di una noce. Il poeta ascolta la sua voce da quando era piccolo e non capisce da dove possa venire quel canto, date le sue dimensioni:

[…]                                                                    […]

A le sento cantae aa grande                     Lo sento cantare a distesa

da quando ea en fassèa.                           da quando ero in fasce.

E nicò adè, che di agni a n’ho assè,        E anche adesso, che di anni ne ho abbastanza

a nó so com’ la fa tanta góse                   non so come fa tanta voce

a stae tuta ‘nte’n corpo                              a stare tutta in un corpo

che squasi i nó gh’è.                                    che quasi non c’è.

 

Questa attenzione, che altrove in Seinà si fa meno precisa e dettagliata, è l’attenzione alle piccole cose, di cui sopra, che rappresentano punti saldi di consolazione e appoggio in quanto costituiscono quel  mondo ormai perduto , ma sicuro, che è il refrain costante nella poesia di Bertolani.

Questa attenzione alle cose minime, impercettibili è tipica dei fanciulli, che si sorprendono ed esultano o si spaventano ai frulli d’ali della natura attorno o anche dei cacciatori attenti ai piccoli rumori. Non a caso qualche anno più tardi Francesco Bruno, nella sua prefazione in versi a Piccolo cabotaggio una nuova raccolta poetica  ma in lingua, lo definisce “cacciatore di frodo e di prede  insensibili a lacci e tagliole”.

Questo cantare fisso degli uccelli che riempie il giorno delle estati assolate, non viene neppure notato invece dai Foresti (v. testo riportato il mese scorso).

 

Ora leggiamone alcune:

 

Picéto                                             Pettirosso

 

Er cóstro i se meva…                     La siepe si muove…

Na bissa la nó l’è, dato                 Una biscia non è, dato

‘r fredo, a stagion.                        il freddo, la stagione.

Nì artro scapà da stabilèo.          Né altro scappato dal recinto.

G’è solo ‘n picéto,                          E’ solo un pettirosso,

e a le vedo dar bavèo                   e lo vedo dal bavagliolo rosso,

rosso, prima chi vóia via              prima che voli via.

 

 

 

 

 

Frenguélo                                                              Fringuello

 

Fame remane arénta                               Fammi restare vicino

ar te cantae,                                               al tuo cantare,

frenguélo da maceta,                              fringuello del boschetto,

ma con a testa e a vita                            ma con la testa e il corpo

sbandonà: ché chì l’è buio sórve           abbandonati: perché qui è buio sopra

drento e fèa,                                               dentro e fuori,

i cagnassi i se sgoe e i  slunghe e notà, i cagnacci si sgolano e allungano le nottate,

i sómi i me rive ‘mpastà de sanguasso,i sogni mi arrivano impastati di sanguaccio,

d’erba grama… - Frenguélo,                   di erba cattiva…Fringuello,

la n’è rao                                                     non è raro

ch’a me sbàndia e a nó sàpia                 che mi sbandi e non sappia

sa son chì o sa son là.                               Se sono qui o se sono là.

 

Dimande ar cucù                                       Domande al cucù

 

“Cucù cravàe,                                          “Cucù cravàe,  

quanti agni                                                 quanti anni

ho da campàe?”                                        ho da campare?

 …a resénto com’èsseghe                         risento come esserci

a te gose – da quante stade fa? la tua voce – da quante estati fa?

 Man aa boca                                              Mani alla bocca,

sgósete torna drito ae costèle               sgolati ancora dritto alle collinette

carghe de sóe,                                            cariche di sole,

er cunto perda torna dei cucù               il conto perdi ancora dei cucù

- ma avóa pu che na vota.                      - ma ora più di un tempo.

 

Ciodo                                                            Assiuolo

 

Er ciodo drent’aa lissa                              L’assiuolo dentro il leccio

i bata ‘r tempo, i nó smarla                    batte il tempo, non manca

‘n egondo – ‘st’arelèio de pume,           un secondo – questo orologio di piume,

‘st’assassìn chi ne guasta er dormìe.   Questo assassino che ci guasta il dormire.

A m’aspèto che avanti de l’arba            Mi aspetto che prima dell’alba

I ghe giùsten na bóna s-ciopetà…         gli aggiustino una buona fucilata…

 Ma la ven giorno,                                      Ma viene giorno,

retàca i artri usèi                                       ricominciano gli altri uccelli

e i moadói a cantae                                  e i muratori a cantare

che lu i ghe dà anca drento                    che lui ci dà ancora dentro

a bate ‘r tempo                                          a battere il tempo

com’i fosse pagà.                                      come fosse pagato.

 

Castelnuovo Magra 23 novembre 2018 

      

  Ricordi di gioventù
di Maurizio



Sono rimasti impressi nella mia mente alcuni fatti accaduti molti anni fa, ma che mi sembra siano successi ieri e mio fratello, temendo che li avessi dimenticati, proprio ieri me li ha rammentati.
Facevo il tornitore in marmo a Marina di Carrara. All'inizio mi recavo al lavoro in bicicletta, ma poi acquistai uno scooter, la Lambretta 125 che io trasformai in 150. Immaginatevi un giovane che lavorava a cottimo, con la Lambretta arredata! Scorrazzavo da tutte le parti, andando persino dove la gente camminava solo a piedi.
La mattina trasportavo anche mio fratello che scaricavo a Dogana, dove lui lavorava come falegname. Una mattina camminavo a 60 Km all'ora ed in piena curva abbiamo preso un chiodo per cui la ruota posteriore è andata completamente a terra. Qualcuno di lassù mi ha dato una mano, consentendomi di mantenere la Lambretta in piedi, per cui abbiamo evitato una rovinosa caduta. Un uomo che ha assistito alla scena si è talmente spaventato che ha accantonato il suo proposito di acquistare un motorino.
Poi cambiai mezzo di locomozione ed anche il mestiere. Acquistai varie auto, ma l'episodio che vi racconto riguarda la 850 Sport rossa. Una sera mio babbo mi disse: "Maurizio, non puoi venire a casa un po' prima?". Io gli risposi: " O babbo non sono mica solo!" E lui: "Ho capito", picchiandosi la mano sulla fronte. Per dirla in dialetto: " O Maurì, n t pò venira a cá  n pó pú presto?" Risposta:"O bá a n son mica da me!" E lui: "ha i ho capí" , appoggiandosi una mano sulla fronte.

 


 

 LA BESTEMMIA
Chi bestemmia non è figlio di Maria, non è figlio di Gesù, quando muore va laggiù. Va da quell'ometto che si chiama diavoletto". Così si diceva ed io ho sempre tenuto a mente questo importante insegnamento.

Al mattino svolgo qualche piccola faccenda, quando ne ho voglia ed il pomeriggio lo passo al bar. Ebbene, ho cambiato il mio bar abituale perché era frequentato da una persona che fioriva ogni sua parola con una bestemmia.
Non potevo sopportare questo comportamento! Ho smesso  di giocare alle carte con uno che bestemmiava ogni volta che perdeva. I giocatori con i quali ora passo un po' di tempo non bestemmiano, credenti o non credenti.
Chi bestemmia, oltre ad offendere Chi sta lassù, dà segno di maleducazione ed è passibile di denuncia. Ma chi bestemmia è credente? Per me lo è ed allora perché offende Dio?
Frequentando i bar ho avuto modo di conoscere persone squisite. Da ultimo mi sono imbattuto in un sant'uomo di cui non conosco neanche il nome e neanche lui conosce il mio, tant'è che mi chiama "ortonovese", ma poi ho capito tutto: "Era un amico di Walter".


 

  Lettera a Carla
di Barbara


Di seguito inseriamo l’ultima lettera che la responsabile di Sightsavers ha spedito alla nostra amica Carla Beggi, che già da qualche anno si sta impegnando nella raccolta fondi da devolvere a questa associazione di volontariato.

Con l’occasione comunichiamo un’errata corrige nell’ultimo numero del Sentiero: il ricavato della tombolata è stato di 800 euro.

 

Cara Carla,

ti invio questa lettera perché desidero ringraziarti con tutto il cuore per il grande aiuto che continui a dare al nostro lavoro di lotta alla cecità nei paesi in via di sviluppo.

Ancora una volta hai scelto di impegnarti per portare sostegno ai bambini che vivono nei luoghi più poveri e dimenticati del mondo e sono colpiti dalle malattie degli occhi, alleviando le loro sofferenze e cambiando il loro futuro.

Grazie ai fondi che hai raccolto in occasione della tombolata che si è tenuta il 27 settembre scorso presso l’ARCI CPO Ortonovo e al contributo dell’ARCI stessa, sarà possibile proteggere con l’antibiotico ben 4705 bambini dal tracoma.

E questo non solo trasformerà le loro vite, ma contribuirà anche alla grande iniziativa che ha l’obiettivo di eliminare per sempre questa terribile malattia, indicendo significativamente sul futuro dell’umanità.

Quando questo straordinario risultato sarà raggiunto, tu e tutti coloro che, su tuo invito, hanno scelto di partecipare sapete di aver contribuito in prima persona a un progetto storico e sarà anche grazie a voi se nessuno dovrà mai più vivere nella paura di diventare cieco tra mille sofferenze a causa del tracoma.

Per il tuo grande cuore, per tutte le iniziative che instancabilmente promuovi e per il tuo generoso e prezioso aiuto: ancora grazie infinite!

 

Un forte abbraccio

  Un curato di campagna
di Marino Bertocci



Ho (ri)letto, devo confessare…con un poco di fatica, il “diario di un curato di campagna”, di Bernanos…ed ho rivissuto, nel mio immaginario, la povertà materiale in cui è vissuto quel povero prete, così come mi sono immedesimato, partecipe ed impietosito, nella sua sofferenza spirituale per l’egoismo e l’aridità della sua parrocchia e, successivamente, per la sua sofferenza fisica, causata da quel terribile male che lo ha portato, troppo presto, alla tomba. Non so se il (ri)vivere una situazione che, pur nella sua drammaticità, è stata per decenni comune a tante storie di tanti paesi e dei pastori che dovevano occuparsi della cura spirituale delle loro, troppo spesso recalcitranti, pecorelle mi sia stato edificante…Il tempo passa e le situazioni storiche cambiano, evolvendosi od involvendosi, a seconda dei vari punti di vista.
Quello che è certo è che una vena di malinconia per quello spaccato di provincia, così uguale in tutto il mondo occidentale, mi ha accompagnato per giorni… fino a quando, del tutto casualmente, mi è spontaneamente capitato di dare una mano ad un prete (sì, avete letto bene. Un prete che non ha problemi, come troppi suoi confratelli, a mostrarsi al mondo per ciò che è, anche esteriormente, vestendo la veste talare…segno distintivo e visibile di un impegno di vita…). Non ho fatto nulla di eccezionale, gli ho semplicemente dato una mano a trasportare dalla canonica alla sacrestia qualche bottiglia di vino che voleva offrire a persone là radunate al termine di una manifestazione. Che cosa, dunque, mi ha ricordato il “curato”? un piccolo, semplicissimo gesto, gesto che nessuno, e dico nessuno dei presenti si fosse minimamente preoccupato di fare con quel Curato, offrendosi per ciò che, invece, avevo fatto io…portare qualche bottiglia di vino dalla canonica alla sacrestia. Nessun mio gesto eroico, solo piccola partecipazione all’ansia di ben figurare nell’occasione, da parte di quel prete, di farsi accettare da una parrocchia in cui se non la fede – non sono nessuno per azzardare questa valutazione -  ma indubbiamente la solidarietà è perlomeno moribonda…se nessuno ha sentito il bisogno morale di sentirsi coinvolto in un veramente piccolissimo gesto di collaborazione. Ma…quanta gioia di servizio era in quel Prete al pensiero che tra pochi minuti quel povero nulla sarebbe stato da lui offerto a quel gruppo di egoisti, comunque definiti tali solo da me…
Conclusione?
Nessuna…ognuno di noi deve trarre la propria. Certo è che, personalmente, poi passando dalla Chiesa al termine “dell’evento “non mi è sfuggita la cura con cui è conservata la Presenza Eucaristica e mi sono sentito naturalmente in dovere di ringraziare il Vero Ospite di quella Casa per il dono di un Sacerdote anche in quella, almeno percepita tale, remota località del nostro meraviglioso appennino. Malgrado l’apparente aridità in cui quotidianamente offre la sua vita missionaria…esattamente con “il curato di campagna” la sua semina del bene non si arresta. Possa Dio ricompensare la sua fatica e…donarci tanti altri uomini e donne che, senza nulla attendersi, offrano la loro vita…solamente per la Sua Gloria!

Luni, 28 novembre 2018


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