N° 10 - Novembre 2018
I nostri poeti
  Paolo Bertolani: l’approdo dialettale
di Francesca Bello


Paolo Bertolani: l’approdo dialettale

Arrivato il momento di parlare della poesia dialettale di Paolo Bertolani, mi sono resa conto che, nello scaffale della mia libreria tra i libri che lui mi aveva regalato e dedicato, mancava il suo primo libro di poesie in dialetto, quello che lo ha consacrato e collocato in quel mondo, assurto da non molti anni a dignità letteraria.

Che fare? Introvabile nella biblioteca qui di fronte a casa mia e su internet, mi sono rivolta a Cecilia, sua figlia maggiore. Mi ha confermato la rarità di questo libro che, non si sa come né perché, sia rarissimo trovarlo anche in altre biblioteche. Ma lei ne aveva una copia che dopo un’ora era a casa mia.
Questa premessa era necessaria anche per far capire quanto possa essere prezioso un libro di poesie per di più in dialetto. Un libro edito da Einaudi, che allora era un editore di nicchia, quindi prezioso fin da subito. I nostri lettori sapranno che l’Editore è molto importante per la qualità del contenuto. E non serve che siano “grosse” case editrici, ma la cosa importante è che scelgano la qualità. Così Scheiwiller a Milano o Carpena a Sarzana.
Quando andavo al Liceo, la poesia dialettale era relegata in una sorta di Limbo, in posizione ancillare rispetto a quella in lingua dei grandi poeti. Quindi trovava una collocazione minima sui manuali, anche nel carattere, più piccolo del resto della pagina.
Con l’andare del tempo, invece, la poesia dialettale ha trovato il suo spazio e il suo onore. Poesia, ma anche prosa. Come si potrebbero leggere Ruzante, Goldoni, Porta o Belli altrimenti? Goldoni. Impossibile leggerlo senza dare l’intonazione del veneziano. E che dire di Trilussa le cui poesie sono diventate massime popolari? Come dimenticare Pasolini oppure Gadda?
Le parole in dialetto che scorrono sotto ai nostri occhi, quando leggiamo, hanno qualcosa di più della perfezione formale della lingua standard. Un qualcosa che coinvolge il lettore a tal punto che egli si trova immerso in quella rappresentazione come in una sorta di sindrome di Stendhal. E la mente comincia a immaginare un mondo che non c’è più, una vita quotidiana passata fatta di piccole cose che raccontano la storia delle persone di quel tempo. Un’ autenticità che non c’è più. In questo senso la parola dialettale diventa pregna di significati, perché va oltre quello letterale e sconfina in quello emozionale.
La parola diventa memoria e racconto di un tempo che fu. Diventa parola evocatrice.Paolo Bertolani, attento cultore delle piccole cose che hanno segnato la sua vita e quella della povera gente del suo paese, nostalgico dell’autenticità di un tempo che sente irrimediabilmente finito, a un certo punto ha trovato nel dialetto il registro e lo strumento per esprimere i suoi sentimenti e le sue riflessioni melanconiche sul destino dell’uomo e sulle ingiustizie sociali, sulla superficialità della gente, attenta all’apparenza e all’effimero e non alla Bellezza vera e reale di ciò che ci circonda.
Lui invece il mondo lo viveva intensamente, lo “sentiva” suo (sentio in latino è il verbo dell’anima), lo partecipava con tutto se stesso, con amore e con l’indignazione giusta e necessaria per questo “reo tempo” che ci è toccato in sorte.
Lui pensava in dialetto. Lui meditava sul fruscio delle foglie e sul “bavagliolo rosso” dei pettirossi. Sapeva farlo.
Quale lingua migliore ci può essere se non quella dialettale per esprimere tutto ciò?
La musica di quelle parole diventa orchestra che suona quell’autenticità che ritorna e fa rivivere, anche se solo nello spazio dei versi, emozioni, sensazioni, situazioni.

A volte per rimpiangere, a volte per gioire, ma soprattutto per non dimenticare.

 

Seinà (Serate), uscito nel 1985 nella preziosa collana de “Gli Struzzi”, è la prima raccolta di poesie nel dialetto della Serra, una lingua scritta proprio da Bertolani, perché prima non ne esisteva traccia.
La prefazione è del poeta Giovanni Giudici, amico carissimo di Bertolani, e amico quotidiano.
Adesso leggiamone alcune in dialetto, ma poi in traduzione:

 

Foresti

I s’en van. Adè, ai sgóssui
da stada.
Doman, a cà soa,

i recuntiàn de vee

de scogi a fio d’aigua

lépeghi o arsà,

de sói ‘nfogà che tàrdia

i s’agnasse dré ar mae…

Ma der vièo da donde a te scrivo,

de ‘sta foa carga de arbuèle

-tènie vesin ae póle-

de sto cantae fisso de usèi

dai cóstri renfrescà aa prim’aia

nèva dai monti,

i non podiàn – nì ‘r voresse –

cuntae: de quelo che ‘ncò me,

povio caminadóe sbandà,

a posso vantae.

 

Forestieri.  Se ne vanno. Adesso, agli sgoccioli / dell’estate. // Domani, a casa loro, / racconteranno di vele, / di scogli a filo d’acqua/ viscidi o arsi, / di soli infuocati che tardi / si coricano dietro il mare…/ Ma del viottolo da dove scrivo, / di questa favola carica di alberelle / -ténere vicino alle sorgenti-/ di questo cantare fitto di uccelli / dalle siepi rinfrescate alla prima aria / nuova dai monti, / non potranno – né lo vorrebbero – / raccontare: di quello che anch’io, povero viandante sbandato, posso vantare.
I “forestieri” sono i villeggianti che hanno occhi solo per le cose più evidenti – scogli, vele, sole accecante -, ma non sanno vedere, né lo vorrebbero, le piccole cose che fanno la Bellezza non solo della natura. I “forestieri” sono i colonizzatori, come li chiamava lui, che si impossessano dei nostri siti e li devastano con la modernità.

 

Ninanana

 

Gh’ea  na prea

lunga

lissa

posada ae cófe d’ua

ai viri der campae

aa fassina

ar tèo de Nadae

 

…e adè?

La nó gh’è pu.

 

Na paéda la gh’ea de frolina

piatà

sarvà

pe i usèi e per noi

fina a frevàe

 

…e adè?

La nó gh’è pu.

 

Gh’ea n’omo

chi gava trei can

na crava daa barbeta

en fis-ciéto de cana

(a gàibo

i ghe sonéva Adìo Lugano)

e nissun come lu

i sava issae mureti

i sava ‘nestae

 

…e adè?

I nó gh’è pu.

 

Gh’ea n’aiache bastéva bisotàe

e a gose l’andéva spedìe lingéa

come ‘n pésso ‘nter mae

 

…e adè?

La nó gh’è pu.

 

Gh’ea Pàvolo da Locca

che de ‘sti sómi i feva

a sé bandéa

nicò si l’agomìve

dee vote

verso sea

 

…e adè? I nó gh’è pu.

 

Ninnananna. C’era una pietra / lunga / liscia / sosta alle ceste d’uva / ai giri della guardia campestre / alla fascina / al tronco di Natale // …e adesso? / Non c’è più. //

Un filare c’era di uva fragola / nascosta / serbata / per gli uccelli e per noi / fino a febbraio // …e adesso? / Non c’è più. // C’era un uomo / che aveva tre cani / una capra dalla barbetta / un fischietto di canna / (con garbo / vi suonava Addio Lugano) / e nessuno come lui / sapeva alzare muretti / sapeva innestare // …e adesso? / Non c’è più. // C’era un’aria che bastava bisbigliare / e la voce andava spedita e leggera / come un pesce nel mare // …e adesso? / Non c’è più. // C’era Paolo della Locca / che di questi sogni faceva / la sua bandiera / anche se lo immalinconivano / certe volte / verso sera // …e adesso? / Non c’è più.

Straordinaria e struggente poesia questa sullo stravolgimento delle cose rassicuranti del tempo passato, messo in ripetuta evidenza dal ritornello ossessivo “…e adè?/
I nó gh’è pu.”. Il componimento con semplice e efficace sottolineatura mette in evidenza usanze e mestieri di una volta, abitudini e persone, abilità manuali che adesso “la ‘n gh’en pu”.

 

Pésso-Malinconia

 

Malinconia, suèla de viagio

mai na vota che ‘n dido

i slìghia fito ‘r lamo

daa bóca de sto pésso spussolente

ch’a biàsto giorno e sea

-Pésso-Malinconia

chi cressa ‘n tuti i mai,

odoe de bestìn

che da me a nó so mandae via.

 

Pesce-Malinconia. Malinconia, sorella di viaggio, / mai una volta che un dito / sleghi presto l’amo / dalla bocca di questo pesce puzzolente / che mastico giorno e sera / -Pesce-Malinconia / che cresce in tutti i mari, / odore bestiale / che da solo non so mandare via.

 

Questo componimento, scelto da Giudici non a caso nella sua prefazione, caratterizza il poeta Bertolani.  La Malinconia, scritta con la maiuscola per sottolinearne l’imperiosa presenza, viene paragonata a un pesce, in quanto l’odore maleolente è difficile da mandare via. Così la Malinconia è presenza costante nell’animo del poeta e difficile da allontanare. Una Malinconia tuttavia che non sfocia mai nella negatività assoluta, perché la poesia di Bertolani è ricca anche di luce, allegria e umorismo.

 

Castelnuovo Magra 23 ottobre 2018
                                                                       
  Il mio autunno
di M. G. Perroni Lorenzini


Il mio autunno

Autunno

S’ingravida di frutti

e s’incurva nei rami carichi,

in paziente attesa

di essere spogliato;

ristora

d’un più fresco tepore

le ormai pendule foglie,

che non soffrano,

non s’accorgano

se l’umore vitale intanto si ritrae.
Il mio autunno

è più avaro

è meno lene.

 


  LAPIDI
di Silvano Puglia



 

Le bianche coltri marmoree

che coprono con pietosa dignità

biancheggianti ossa

di chi fu tra noi, hanno perso

col tempo il candore.

Erbe maligne salgono ai bordi,

frastagliandone la continuità.

Placche scure e rivoli essiccati

di ceri, ne solcano la superficie.

Petali caduti da corolle avvizzite

che da tempo non sono più state

rinnovate. Senso di abbandono.

I nomi, le date, quando ancora

vivo era il dolore,

erano lucenti i vivide.

Ora manca qualche lettera.

Le altre opache, illeggibili.

Paradossalmente sarebbe triste,

sapere che gli amici,

non si soffermano più

a quella tomba.

Non c’è più il tuo nome.



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