Fare
poesia significa dare voce alla propria interiorità e collegarsi con le voci del passato, quel
tempo che ha costruito il nostro presente, quelle persone che sono state pietre
miliari nel viaggio della nostra vita. Fare poesia significa anche cantare e
fare proprio il patrimonio culturale di cui ci siamo nutriti. E allora i temi
sono tutti: l’amore, il dolore, l’illusione, il disincanto, le speranze, le
delusioni. Fare poesia significa avere una sensibilità diversa, uno sguardo
analitico sul mondo, che permette al poeta di uscire dai binari dell’ovvietà,
significa cogliere l’essenza delle cose, come diceva Baudelaire. Fare poesia
significa anche rinunciare alla fama in vita senza smettere mai.
Paolo
Bertolani ha “sofferto e patito” soprattutto il fatto di essere Vigile Urbano e
di essere stato confinato dai critici nella limitatezza della sua terra
d’origine, come in una sorta di “riserva indiana” (F.Bruno). Ne ha sofferto la
sua “fama” in vita, che non ha varcato i confini locali, pur essendo stato
apprezzato dai “poeti famosi”. Qualcuno lo ha definito naif, riferendosi alla sua poesia che parla dei suoi luoghi,
dell’infanzia passata in questi luoghi, insomma una poesia semplice, ingenua.
Tutto questo non ha di certo agevolato l’attenzione verso la sua produzione
poetica e in prosa, che è stata costante tutta la vita. Ce lo ricorda proprio
lui nei componimenti de “Le trombe di carta”,
Consegna e Ferragosto del V.U. Ma oggi si guarda a lui con occhi diversi.
Per fortuna e finalmente Paolo Bertolani ha varcato i confini angusti della
regionalità, perché se è vero, come afferma Carlo Dionisotti, che la produzione
letteraria è strettamente legata alla regione d’origine degli scrittori e dei poeti,
è vero anche che l’elaborazione personale e artistica eleva la materia a sfere
più alte. La produzione di Bertolani spazia dalla poesia alla prosa,
dall’italiano al dialetto, quello della Serra di Lerici. Un dialetto messo per
iscritto proprio da lui, perché di esso non c’era nulla se non l’oralità. Ma
Bertolani lo ha immortalato nelle sue poesie, lo ha reso una lingua speciale
per rendere meglio “la musica” delle parole di quando era un fanciullo. Parole
dure, ma anche morbide, che si inceppano e che si sciolgono sulle bocche dei
paesani, dei contadini, delle casalinghe. Persone “animate” però, che hanno
un’anima e una percezione netta della vita. Le voci che Paolo coglie sono
queste e poi c’è la sua che accarezza e ringhia, che sussurra malinconica, che
piange. Ma la sua voce si fa anche denuncia, indignazione morale, impegno
civile nella raccolta successiva intitolata Incertezza
dei bersagli.
Qual
è il compito della poesia? Qual è il messaggio che un poeta ci lascia? Credo che i poeti ci insegnino a guardare il
mondo con i loro occhi, a vedere nelle cose l’oltre che va al di là
dell’apparenza.
Leggiamone
due:
Consegna
Mi hanno messo a guardia del povero
tronco stradale – tutto polvere
erba patita.
Non mi hanno messo a guardia del mio
cuore
che fugge alle colline
dove fa curva il vento
dietro la mia capanna tutta d’oro
e si può stare in pace in due
con appena quattro parole.
Qualcuno si fermasse nei divieti:
i compagni fanno altre strade
hanno il buio ostinato delle cose.
Qui
il poeta patisce il “dovere” del suo lavoro che lo costringe “a guardia del
povero tronco stradale”, mentre lui si rifugerebbe nei boschi dietro casa (la
mia capanna tutta d’oro), nel silenzio dove bastano poche parole per stare in
pace. La dissonanza con il modo di pensare degli altri è rappresentata dalla
metafora dei compagni “che fanno altre strade”, non hanno le percezioni del
poeta e non sanno vedere ciò che lui vede “hanno il buio ostinato delle cose”.
Ferragosto del
V.U.
Averti nell’ombra delle pinete selvagge
ora che il sole infuria sopra l’acqua
e forte odora il muro dei gerani…
Oscilla il bel pensiero come un ramo nell’aria
poi crolla al ridestarsi dell’ora di punta:
sul lungomare passa la motoretta isterica
dall’alto dei balconi si sgolano i megafoni
per la festa del palio.
Al frastuono
di scatto
s’accoda il juke box dalla veranda in fondo
alla tua via dove s’ignora il mare.
Anche
in questo componimento il poeta ricerca la tranquillità e la pace delle “pinete
selvagge”, lontano dal frastuono e dal chiasso del mondo attorno che sente
quasi il dovere del divertimento. È ferragosto e tutti si sentono in diritto di
divertirsi rumorosamente.
In entrambe le poesie il poeta si rivolge a una figura femminile, un “tu”, più
immaginata e sognata che reale.
(1) Carmina
non dant panem: La poesia non
arricchisce