N° 8 - Settembre 2018
I nostri poeti
  Paolo Bertolani
di Francesca Bello



Vorrei introdurre i nostri lettori alla conoscenza di un poeta “locale” conosciuto dagli amanti della poesia e dagli addetti ai lavori come i critici letterari, la cui passione è poi diventata mestiere. Qualcuno di voi magari lo conosce già o ne ha sentito parlare, perché la poesia di Paolo Bertolani ha valicato da tempo i confini della Serra, suo luogo di nascita, ed è diventata poesia universale per i temi che tocca e che costituiscono il ritornello di tutta la sua produzione.
Paolo Bertolani dunque nasce alla Serra, piccola frazione di Lerici arroccata sulla collina, il 26 gennaio del 1931. Un paese in salita, difficile e ostico, faticoso da attraversare. La gente è semplice, rozza nei modi, dedita ai lavori della terra o del mare, elemento che Paolo guarda sempre dall’alto, da lontano. Non ama il mare, ama i boschi, la pace e l’ombra della Rocchetta. È lì che si rifugia e va a leggere, è lì che la passione gli fa imparare a memoria brani interi di prosa e di poesia – Boccaccio, Shakespeare, Dante…- così si nutre e cresce in lui la necessità di scrivere.
Nel 1960 pubblica, presso l’editore Carpena di Sarzana, Le trombe di carta, una raccolta di poesie in italiano, praticamente irreperibile, in quanto allora furono tirate solo 399 copie, di cui poi uscirà molti anni dopo una nuova pubblicazione per i tipi di ConTatto edizioni. Già in questi primi passi poetici si possono trovare le “radici” della poesia di Bertolani che si muove nella vita come il naufrago dibattuto tra la disperata ricerca di un brandello di relitto e la speranza salvifica. Radici, dicevamo, che si materializzano nella luce, nelle ombre, nelle cose della sua infanzia, nel disincanto che offre la realtà, nella sua Serra faticosa, nel rifugio sempre della casa. Questo piccolo mondo, così intimo e riservato, è il mondo che viene cantato da Paolo Bertolani, un mondo che si fa universo, perché lì poi lo andranno a cercare poeti più famosi come Attilio Bertolucci, Vittorio Sereni, Franco Fortini, Mario Soldati, Charles Tomlinson e molti altri. La letteratura gli entra in casa spontaneamente, perché lui non cerca fama né raccomandazioni, i poeti lo cercano per le tematiche da lui affrontate, per la sua sana e onesta indignazione, per quel canto che si rivolge alle piccole cose della casa. Le trombe di carta sono i primi passi di un poeta consapevole che la poesia e la fama sono effimere, fragili, come la carta. Francesco Bruno infatti parla di questa raccolta come di un “ritratto dell’autore da cucciolo”.
Ecco alcuni versi in cui la casa-rifugio lo accoglie sempre, nonostante il vagabondare un po’ scellerato del poeta, che ha comunque il dubbio se meritare ancora accoglienza dopo il “tradimento”:

 

CASA MIA

Dalle macerie di tutti gli amori

I viaggi

le baldorie

con quello che segue

sempre ritorno a te col batticuore

sorpreso

di meritarmi ancora il sonno

il pane e il vino.

 

 

Oppure le poesie d’amore:

 

E ALTRO CIELO

 

Con gli occhi e grazia

di giovane gazzella

chiudevi in te gli oggetti

più dolci della sera. Era il minuto d’oro

e nel letto di foglie ti dicevo: io

mi continuo in te

non ho più morte – finché giungeva

quel furioso stormire del sangue

e ti volevo carne

e ti cercavo il caldo più segreto.

Ora che hanno messo fra noi

la dura consistenza delle strade

dei ponti e delle selve

ora mi cresci dentro più serena:

amarti in silenzio è scrivere

il tuo nome nel bianco

di tutte le cose. E altro cielo

chiuso alle parole.

 

Un amore che prima riempie di dolcezza ogni cosa, poi si “fa carne” e infine trova ostacoli e impedimenti. Il poeta allora prende le distanze, ritrova la serenità iniziale e quella dolcezza che solo l’immaginazione può rendere perfetta.
Questa tematica dell’amore perfetto solo a distanza, della serenità dell’amore come memoria è tematica ripresa poi in Avéi, nella splendida poesia dậ Dèle, dove Adele, perduti gli unici due uomini della sua vita, “va più leggera” e ritrova la voglia di cantare come quando era una ragazza ingenua.

 

Vorrei chiudere con un altro componimento in tema:

 

DOMANDE

 

Potevo figurarti

in ogni immagine prossima e lontana.

Altro tempo. Convoglia

ora la notte nei miei specchi

ombre di niente…E mi domando

se valeva la pena di piangere

accigliarsi

tremare sino all’ultima foglia

scandire le notti col cuore in tumulto

sperare

disperarsi

appendere la luna alla tua casa

e scrivere

turbarsi ad una nulla

credere in una spalla i confini del mondo

e ancora disperarsi

illividire

e questo per anni

-se valeva la pena

per giungere a  capire che nulla hai tolto

e aggiunto alla mia vita

e scoprirmi una sera nel vuoto

di prima di incontrarci.

 

A PROPOSITO DELLA VANITA’ DELLA FAMA

 

Credette Cimabue ne la pittura

tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,

sì che la fama di colui è scura.

Così ha tolto l’uno all’altro Guido

la gloria della lingua; e forse è nato

chi l’uno e l’altro caccerà del nido.

Non è il mondan romore altro ch’un fiato

di vento, ch’or vien quinci e or  vien quindi

e muta nome perché muta lato.

 

Dal Canto XI del Purgatorio di Dante Alighieri vv. 94-102

 19 agosto 2018     Francesca Bello

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