Vorrei introdurre i nostri
lettori alla conoscenza di un poeta “locale” conosciuto dagli amanti della
poesia e dagli addetti ai lavori come i critici letterari, la cui passione è
poi diventata mestiere. Qualcuno di voi magari lo conosce già o ne ha sentito
parlare, perché la poesia di Paolo Bertolani ha valicato da tempo i confini
della Serra, suo luogo di nascita, ed è diventata poesia universale per i temi
che tocca e che costituiscono il ritornello di tutta la sua produzione.
Paolo Bertolani dunque nasce alla Serra, piccola frazione di Lerici arroccata
sulla collina, il 26 gennaio del 1931. Un paese in salita, difficile e ostico,
faticoso da attraversare. La gente è semplice, rozza nei modi, dedita ai lavori
della terra o del mare, elemento che Paolo guarda sempre dall’alto, da lontano.
Non ama il mare, ama i boschi, la pace e l’ombra della Rocchetta. È lì che si
rifugia e va a leggere, è lì che la passione gli fa imparare a memoria brani
interi di prosa e di poesia – Boccaccio, Shakespeare, Dante…- così si nutre e
cresce in lui la necessità di scrivere.
Nel 1960 pubblica, presso l’editore Carpena di Sarzana, Le trombe di carta, una
raccolta di poesie in italiano, praticamente irreperibile, in quanto allora
furono tirate solo 399 copie, di cui poi uscirà molti anni dopo una nuova
pubblicazione per i tipi di ConTatto edizioni. Già in questi primi passi poetici
si possono trovare le “radici” della poesia di Bertolani che si muove nella
vita come il naufrago dibattuto tra la disperata ricerca di un brandello di
relitto e la speranza salvifica. Radici, dicevamo, che si materializzano nella
luce, nelle ombre, nelle cose della sua infanzia, nel disincanto che offre la
realtà, nella sua Serra faticosa, nel rifugio sempre della casa. Questo piccolo
mondo, così intimo e riservato, è il mondo che viene cantato da Paolo
Bertolani, un mondo che si fa universo, perché lì poi lo andranno a cercare poeti
più famosi come Attilio Bertolucci, Vittorio Sereni, Franco Fortini, Mario
Soldati, Charles Tomlinson e molti altri. La letteratura gli entra in casa
spontaneamente, perché lui non cerca fama né raccomandazioni, i poeti lo cercano
per le tematiche da lui affrontate, per la sua sana e onesta indignazione, per
quel canto che si rivolge alle piccole cose della casa. Le trombe di carta sono i primi passi di un poeta consapevole che
la poesia e la fama sono effimere, fragili, come la carta. Francesco Bruno
infatti parla di questa raccolta come di un “ritratto dell’autore da cucciolo”.
Ecco alcuni versi in cui la casa-rifugio lo accoglie sempre, nonostante il
vagabondare un po’ scellerato del poeta, che ha comunque il dubbio se meritare
ancora accoglienza dopo il “tradimento”:
CASA MIA
Dalle
macerie di tutti gli amori
I
viaggi
le
baldorie
con
quello che segue
sempre
ritorno a te col batticuore
sorpreso
di
meritarmi ancora il sonno
il
pane e il vino.
Oppure
le poesie d’amore:
E
ALTRO CIELO
Con
gli occhi e grazia
di
giovane gazzella
chiudevi
in te gli oggetti
più
dolci della sera. Era il minuto d’oro
e nel
letto di foglie ti dicevo: io
mi
continuo in te
non ho
più morte – finché giungeva
quel
furioso stormire del sangue
e ti
volevo carne
e ti
cercavo il caldo più segreto.
Ora che hanno messo fra noi
la
dura consistenza delle strade
dei
ponti e delle selve
ora mi cresci dentro più serena:
amarti in silenzio è scrivere
il tuo
nome nel bianco
di
tutte le cose. E altro cielo
chiuso
alle parole.
Un
amore che prima riempie di dolcezza ogni cosa, poi si “fa carne” e infine trova
ostacoli e impedimenti. Il poeta allora prende le distanze, ritrova la serenità
iniziale e quella dolcezza che solo l’immaginazione può rendere perfetta.
Questa
tematica dell’amore perfetto solo a distanza, della serenità dell’amore come
memoria è tematica ripresa poi in Avéi,
nella splendida poesia dậ Dèle, dove
Adele, perduti gli unici due uomini della sua vita, “va più leggera” e ritrova
la voglia di cantare come quando era una ragazza ingenua.
Vorrei
chiudere con un altro componimento in tema:
DOMANDE
Potevo
figurarti
in
ogni immagine prossima e lontana.
Altro tempo. Convoglia
ora la
notte nei miei specchi
ombre
di niente…E mi domando
se
valeva la pena di piangere
accigliarsi
tremare
sino all’ultima foglia
scandire
le notti col cuore in tumulto
sperare
disperarsi
appendere
la luna alla tua casa
e
scrivere
turbarsi
ad una nulla
credere
in una spalla i confini del mondo
e
ancora disperarsi
illividire
e
questo per anni
-se
valeva la pena
per
giungere a capire che nulla hai tolto
e
aggiunto alla mia vita
e
scoprirmi una sera nel vuoto
di
prima di incontrarci.
A
PROPOSITO DELLA VANITA’ DELLA FAMA
“Credette
Cimabue ne la pittura
tener
lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che
la fama di colui è scura.
Così
ha tolto l’uno all’altro Guido
la
gloria della lingua; e forse è nato
chi l’uno
e l’altro caccerà del nido.
Non è
il mondan romore altro ch’un fiato
di
vento, ch’or vien quinci e or vien
quindi
e muta
nome perché muta lato.”
Dal
Canto XI del Purgatorio di Dante Alighieri vv. 94-102
19
agosto 2018 Francesca Bello