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IL ’68…… E DINTORNI……
di Millene Lazzoni Puglia
Quello della seconda metà del
‘900 è stato un cambiamento epocale, definito “Rivoluzione culturale” e passato
alla storia come “Il 68”, perché quel preciso momento è caratterizzato dalla
contestazione studentesca, femminista e operaia. Il tutto parte dall’America
per arrivare poi in Europa: rimbalzando da Londra a Parigi, dove alla
“Sorbona”, come all’americana “Columbia University”, si vive il famoso “maggio
rovente”. Poi, con effetto domino, la
rivoluzione contagia Berlino, Amburgo, Roma.
In tutte le più importanti Università sorgono barricate con occupazione
permanente da parte degli studenti che chiedono di poter dialogare con le
strutture e i professori. Gli slogan delle manifestazioni di piazza sono per
una scuola più libera, con più diritti e meno padroni, che portasse i giovani
ad una maggiore libertà culturale. Naturalmente la contestazione è rivolta
anche alla famiglia nella quale i giovani si sentono oppressi e non abbastanza
liberi di scegliere il proprio futuro. E’ giusto ricordare che in quelle
contestazioni non mancano gli scontri con le forze dell’ordine che procurano
anche alcune vittime. Sebbene in un contesto totalmente diverso, forse, una di
queste potrebbe essere Luigi Tenco, giovane e promettente cantautore, che si
suicida poiché non accetta la sconfitta della sua molto innovativa canzone (ancora
oggi cantata di frequente) a vantaggio di una “vecchio stile.” Era il Festival di Sanremo del 1967.
Come dobbiamo considerare “il 68”, una “leggenda” o una tragedia?
Ancora oggi dopo 50anni qualcuno se lo chiede, perché i cambiamenti che ne sono
seguiti non sono tutti positivi: dalla scuola chiusa, troppo severa e selettiva
siamo passati all’eccessivo buonismo, e da qui alla troppa leggerezza il passo
è breve, fino ad arrivare da parte dei giovani all’arroganza e prepotenza e,
spesso, alla violenza verso i compagni e nei confronti dei professori, segno evidente
della perdita di quei valori che sono fondamentali per una società civile. E’
il degradante fenomeno del bullismo e delle baby gang. Anche la donna comincia
a conquistare la tanto “agognata parità”, ma ha finito per “conquistare” anche
certi difetti, da sempre, tipicamente maschili, come il vizio del fumo, del
bere alcoolici con eccessiva spregiudicatezza che la impoverisce e la danneggia
fisicamente nel suo ruolo di madre.
I primi segni di questa svolta epocale li troviamo già dopo il conflitto
mondiale, quando gli alleati americani ci fanno conoscere tante cose nuove, da
quelle più importanti come gli antibiotici a quelle più leggere come le calze
sintetiche, la gomma da masticare, fino al ballo rivoluzionario del Boogie Woogie.
La ricostruzione post bellica e il boom economico creano ottime possibilità di lavoro per tanti migliorando non poco
il tenore di vita. Certi lavori, come la mezzadria, non hanno più spazio e
vanno esaurendosi. Nel 1954 nasce la televisione con un solo canale, ma molto
educativa e il grande cinema italiano, il “neorealismo”, è conosciutissimo e
apprezzato in tutto il mondo. Tra questi film “Poveri ma Belli” mette in
evidenza la voglia dei giovani di vivere in modo sano la loro giovinezza e le
piccole cose del quotidiano senza sentire il bisogno di droghe varie che non
conoscono neppure di nome. Proprio in quegl’anni di boom economico si viveva
una grande contraddizione: moltissimi devono abbandonare i loro paesi natii per
andare a lavorare nel Nord Italia, in Svizzera, in Francia e Belgio, dove sono
riservati loro i lavori più duri e meno gratificanti e, non sempre, sono
rispettati come meriterebbero. Non si può fare un paragone con l’immigrazione
odierna degli extracomunitari per vari motivi: per es., allora per emigrare era
necessario avere un contratto di lavoro. La differenza è sostanziale: nessuno
può andare verso l’ignoto, al contrario di quanto accade oggi, nella convinzione
che peggio non si potrà stare. Per la donna italiana il diritto al voto è solo
l’inizio di una lunga serie di novità positive. Il merito di un’altra
importante svolta, per il suo valore mediatico, và ad una ragazza siciliana,
molto coraggiosa che nel 1965 rifiuta il matrimonio riparatore con uno spasimante
respinto, che la rapisce e la violenta brutalmente. Franca Viola, così si
chiama, passa alla storia per essere stata la prima donna a ribellarsi al
secolare e diffuso malcostume, solitamente impunito o punito parzialmente da
una legge maschilista sul “delitto d’onore”. Sicuramente questo evento offre un
buon contributo alla sua abolizione alcuni anni dopo. Oltre ai cinquantenni di
oggi nel 1965 nasce il primo computer, fanno la loro comparsa la minigonna e i
jeans. Il gruppo dei Beatles, che esplodono in Inghilterra, ma
rapidamente conquistano il mondo intero, per la bravura e l’originalità della
loro musica, danno inizio alla moda dei “capelloni”: una vera rivoluzione. Non
per caso gli anni ’60 sono definiti “mitici” perché sono tante cose nuove e
belle che arrivano, ad iniziare dal mondo della scienza in piena evoluzione con
il primo trapianto di cuore nel ’67 eseguito con successo a Città del Capo dal
dott. Barnard e a seguire dalle notevoli scoperte che apportano benefici a
tutti come il vaccino antipolio del dott. Sabin e tanti altri farmaci per debellare malattie fino allora
incurabili. Di quel periodo è la nascita della plastica che da delizia, in
pochi decenni, è diventata un problema drammatico. A volte le scoperte
dell’uomo nel lungo periodo si rivelano un pericolo reale per la salute
dell’uomo e per l’eco sistema del pianeta: basta pensare al carbone fossile,
agli scarti del petrolio, all’amianto.
Anche le autostrade hanno le loro colpe, perché, se si sono rivelate un volano
per il turismo di massa, hanno fatto trascurare il vecchio caro treno, che sembra
riprendersi la rivincita con l’alta velocità. Sempre quegli anni vedono la
nascita dei “miti” moderni come James Dean, Marilyn Monroe, Elvis Presley, missionario
del Rock and roll insieme ai grandi gruppi musicali come i Rolling Stones, i
Pooh e tanti altri. Le balere
diventano discoteche animate dai Dj e si cambia anche lo stile musicale con
l’avvento degli “urlatori” che pongono fine alla canzone all’italiana
considerata sdolcinata. Irrompono sulla scena musicale anche i “cantautori” che
cantano le proprie canzoni. Genova è considerata sicuramente la “culla” e la
scuola di questi autori con F. De Andrè, G. Paoli, L. Tenco, F. De Gregori, Br.
Lauzi, U. Bindi.
Per non farci mancare niente, quelli sono gli anni della guerra fredda tra
Russia e America con la pace sempre in pericolo. Gli anni ’60 negli USA sono
caratterizzati dalla estenuante lotta della popolazione afroamericana per
ottenere i diritti civili negati e l’eguaglianza con i bianchi. Ormai era
inconcepibile l’apartheid nelle scuole,
nel lavoro e, persino, sui bus e ovunque. Il gesto di una piccola-grande donna
nera, di nome “Rose,” cambia il corso della storia rifiutandosi di lasciare il
posto a sedere sul bus nella zona riservata ai bianchi e pagando con il carcere
questo “reato”. La lotta all’eguaglianza tra cittadini è guidata da Martin
Luther King che nel 1968 paga con la vita il sogno di vedere il popolo nero
rispettato ed eguale nei diritti e nei doveri ai bianchi. Ai funerali partecipa
un solo uomo bianco che pronuncia parole di ammirazione e lo chiama fratello:
si tratta del senatore Robert Kennedy.
Ma torniamo all’Europa di cinquant’anni fa, quando la Russia, ancora URSS
( unione delle repubbliche socialiste sovietiche ), seconda potenza mondiale
negli armamenti, tenta di espandere la sua influenza politica e militare in
Europa e nel Medio Oriente. E’ un chiaro regime autoritario e antidemocratico
tanto che si impedisce di andare a ritirare in Svezia il premio Nobel assegnato
allo scrittore Boris Pasternak autore del romanzo “Il dottor Zivago.”
Ricordo che si parlava poco degli effetti, ritenuti collaterali della guerra
come i campi di sterminio e le “foibe” della ex Jugoslavia titina.
In Italia si parlava molto di politica e ci si credeva: il Partito in primo
piano è la Democrazia Cristiana, con il Partito Comunista (P.C.I.) subito dopo.
Per molti italiani quest’ultimo era il partito dei lavoratori, dell’eguaglianza
sociale, senza padroni, ignorando che in Russia e in Cina gli analoghi si erano
trasformati in dure dittature. Quando in Italia l’entusiasmo per la
ricostruzione post bellica è alle stelle, arriva il disastroso terremoto della
valle del Belice in Sicilia. A dire il vero è il dopo terremoto ad essere più
disastroso e vergognoso per la fallimentare e costosissima ricostruzione non
ancora terminata. Appare in tutta la sua evidenza l’Italia che cresce a due
velocità: il Nord e il Sud. Il ’68 diciamo che ha innescato conseguenze
positive che arriveranno negli anni seguenti come la riforma del diritto di famiglia
che rende la donna uguale all’uomo in linea di principio. Nelle case di tutti
arrivano per i loro prezzi divenuti abbordabili i frigoriferi, la Tv a colori,
la lavatrice e l’utilitaria. La contestata Legge Basaglia, che chiude i
manicomi (veri lager) restituisce la dignità di malato ai tanti rifiutati dalle
famiglie e dalla società. Il grande ottimismo ha una brusca frenata con la
prima crisi petrolifera che evidenzia quanto la civiltà industrializzata sia molto
fragile nelle sue attività petrolio-dipendenti. Il boom economico crea
squilibri nella comunità civile (i troppi ricchi e i troppi poveri), così si
giustificano i protagonisti del terrorismo italico che insanguina molte piazze
italiane facendo vittime illustri e innocenti.
Mentre nel centro-nord dell’Italia il fanatismo ideologico produce il
terrorismo con le sue vittime, nel sud la mafia e le organizzazioni omologhe
colpiscono integerrimi uomini delle istituzioni con crudeltà inaudita ( es. la
strage di Capaci ).
Che dire ancora del ’68 e dintorni? Ci sono dei grandi cambiamenti anche del
territorio per le eccessive costruzioni edilizie senza rispetto per i luoghi
più belli, né per la sicurezza delle persone e dell’ambiente. Il benessere crea
consumismo e il consumismo produce tanto “scarto da rottamare”, così nasce il
problema dei rifiuti, specie di quelli non riciclabili come la plastica.
Ritenuta per anni la manna che ha permesso il passaggio dalla vendita dei
prodotti alimentari, e non, sfusi a quella confezionata con imballaggi sempre
più ingombranti e non biodegradabili. Per ora questo andazzo non sembra
fermarsi, se ne parla soltanto. Desidero terminare ricordando il grande
Giuseppe Ungaretti che ottantenne ci lascia proprio nel ’68, riportando alcuni suoi
versi preziosi per l’uomo, perché riconoscere il propri sbagli non è nel DNA
umano:
Io ho lavorato, lottato, sofferto, io ho avuto
vittorie e sconfitte.
Insomma sono stato un uomo come tanti altri. Un uomo capace di sbagliare e di riconoscere i
propri sbagli.
Capace di amare e di non odiare
mai.
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Cercando… Magonza
di Paola G. Vitale
Tanto incuriosita, l’ho
cercata e trovata nel regno di Germania, sulle sponde del fiume Reno, in pieno
entroterra, il tutto a pagina ottantuno dell’Atlante Storico n° 1, dove compare
la grande espansione arabo-islamica.
Magonza era la Sede Vescovile del Vescovo Bonifacio, nominato dal Papa Gregorio
II col nome di un martire romano e confermato dal Papa Gregorio III per
l’evangelizzazione del territorio tedesco. Formatosi nelle abazie benedettine come
Exeter ed oltre, Vicefrido, dal Regno Anglosassone chiamato a Roma, colpì
fortemente con la sua efficace predicazione e fu nominato arcivescovo del
territorio germanico. Grande fu la sua opera di fondazione di chiese e
monasteri come la celebre abazia di Fulda. Bonifacio il 5 giugno del 754, trovò
il martirio con circa cinquanta suoi seguaci, in un agguato di truci ladroni in
Frigia dove intendeva riprendere la sua opera di predicazione, uscendo dalla
sede di Magonza.
Questa mia piccola ricerca è nata dall’entusiasmo creatosi in me, nello
sfogliare l’Atlante Storico n° 2, dove non ho trovato indicata Magonza, bensì
tutto l’evolversi di popoli, potenze, vane guerre e battaglie navali nel corso
degli anni e dei secoli. Ma la potenza dell’arte, degli amanuensi, degli
artisti fanno esaltare la potenza dell’anima umana intrisa di Dio. Pensandoci bene,
dobbiamo un grande ringraziamento a Dio Padre per essere nati in Italia, da
genitori cristiani, nella nascente Repubblica Italiana, fortemente cercata e
voluta da tanti eroi e festeggiata questo 2 giugno 2018 dopo oltre sessant’anni
di pace e di laboriosa ricerca di sviluppo sociale.
C’è un’altra cosa che vorrei dirvi, che riguarda la cultura. L’Atlante Storico
è un formidabile, succinto fornitore circa la formazione europea, nella sua cristianità,
capace di rigettare le grandi invasioni di turchi, ottomani moreschi, arabi
islamici.
Rendiamo grazie a Dio
…e rivediamo un po’ gli
Atlanti Storici!
5 giugno 2018 San Bonifacio
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I duelli e i processi
di Romano Parodi
Quando Ceccardo diceva: “sarà
quel che sarà”, c’erano duelli in vista.
Ne fece quattro: con Riccardo Betti di Carrara (direttore della rivista: Il
Cariona), col quale, dopo essersi feriti entrambi, finì in una sbicchierata;
con il marchese on. Ollandini di Sarzana; con Luigi Beccherucci, giornalista
dell’Elettrico (Ge), che poi, diventerà suo intimo amico fino alla morte. Lo
nominerà anche nel testamento e alla di lui figlia dedicò una bella poesia. Il quarto con Alessandro Vivaldi. Fu
ferito in tutti e quattro, ma molti altri furono sventati dagli amici. Tutti
duelli, fatti per controversie editoriali. (E’ a Beccherucci che Viani, sempre in trentino,
informato della morte di Ceccardo, invia quel telegramma, che, per me, è la
dedica più bella (molte le vedremo in seguito): “Caro Luigi, porta una
corona al fratello mio, immortale; scrisse versi che quando gli italiani
sapranno leggere e scrivere per lor conto e diletto, arderanno inconfondibili
nel sole”.
Gennaio1918
– Viani, al fronte, riceve una cartolina. Un talloncino di giornale.
V'era incollato sopra un avviso funebre: «Ieri quietava il suo lungo strazio
mortale in Lavagna, Francesca Giovannetti, compagna amorosamente devota
del poeta Ceccardo Roccatagliata Ceccardi. Nata da umile gente del Frignano, fu
donna di aperto intelletto e di cuore generoso.
Oh! possa, rasserenata e memore, rivivere nell'eternità di Dio, a cui ella
credeva». Una firma, - Ceccardo - e basta. Questo per dire che i due furono
sempre in contatto).
Ceccardo subì, inoltre, una decina di processi. Ne conosciamo alcuni curiosi: quello per la sconsacrazione
del ponte sul Magra (mah...), quello per abuso di titolo d’alto lignaggio, quando, interdetto dalla sentinella di passare
il ponte del Frigido, dopo un imperioso «Chi va là», urlò: – “Il marchese Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, dei feudi di Ortonovo” (denuncia ridicola). Tre a Modena o Parma. Uno con un proprietario terriero, uno per
aver impedito con una rivolta popolare la manomissione della fonte del Baronio;
uno per non aver visto incluso il suo nome “tagliente” in una lista per le
elezioni amministrative nel Comune di Pieve Pelago: da solo assalì la torre
rossa di Sant'Andrea e suonò le campane a martello. Fu denunciato. Il manipolo
d’Apua con i suoi avvocati, guidati dagli amici avv. Vico Fiaschi e Luigi
Salvatori (Anarchismo a Carrara), correva da tutte le valli apuane a
difenderlo: sempre assolto. “Volevo Waterloo
e voi mi avete dato Borodino. Se eletto avrei fatto murare, nell'atrio
del Comune di Pieve, una lapide repubblicana. Repubblicana, vi dico! - La poesia
è una spiritual cosa!” - Quello
più interessante, per noi, è quello del 1902 a Genova (o Sarzana?). Ceccardo
e suo fratello minore Luigi, scrittore anche lui, dovevano rispondere del
reato, di “eccesso di legittima difesa” di un fatto avvenuto a Fossola
nel 1897. Quando, il presidente del Tribunale, disse: «Per Luigi Roccatagliata
l'azione penale è estinta perché defunto» Ceccardo sbiancò in volto e si alzò
di scatto. «Mio fratello è morto!?», esclamò ignaro, e cascò di botto
sul pancone, sorretto dagli amici; ma si riprese presto e venuto a conoscenza
del come e del dove gridò: «Oh, che pie'
di straniero non calpesti mai la sua tomba!». Ceccardo odiava tedeschi e
austriaci: li chiamava “i barbari”.
Nel
1897 i due fratelli, che scrivevano sullo “Svegliarino” pernottavano a Fossola,
vicino al cimitero, ai piedi del monte per Ortonovo, e con i loro articoli
avevano “offeso” alcuni..., perciò furono assaliti e Luigi fu ferito con armi
da taglio e da fuoco (19 giorni di prognosi). Ceccardo, corse in casa, caricò
il “famoso” pistolone del bisnonno, e sparò loro dalla finestra. Al fratello
dedicò poi una commovente poesia, che rievoca i tristi giorni in cui il destino
lì separò:
“Ma quando ancora il destino,
con vigile passo salìa,
cacciandoci, dai domestici clivi, pel deserto del mondo,
tu t’impennasti, o forte, io tolsi ai
libri, tra veglie
Un magro arido pane, ed
un desio di gloria,
ma tu, le braccia aperte, ne l’opre balzasti d’un salto
impetuoso, chiedendo la fortuna e l’esilio…
Fratel, se da l’ombre mi scorgi, dì, non sorridi ancora?”
Luigi
scrisse alcune novelle e, con tanta malinconia affettuosa ne parla il Nencioni,
ed è citato anche nell’Ateneo Ligustico dello Spotorno. “Luigi - scrive Viani -
anch'egli poeta d'aperto intelletto, sospinto dal pungolo del destino
per le vie del mondo, dopo essersi assoldato negli Chasseurs d’Afrique, – la
cavalleria della Legione straniera di Francia, – vedendosi caduto in una
monotona vita di guarnigione di una cittaduzza fortificata sul confine del
deserto, Sidi-Bel-Abbès, disertò, con armi e cavallo, raggiunse Tangeri e
s'imbarcò come marinaro su di un brigantino genovese. Ritornato a Ortonovo
riuscì, ad arruolarsi (con l’aiuto dell’avv. Bianchi), nella Guardia di
Finanza. Morì, di tifo, a Frizzon, un solitario borgo delle Alpi Retiche; ed in
quel piccolo cimitero, sul confine austriaco, davanti all'Alpe di Trento, fu
sepolto”. Aveva 24 anni. Infruttuose la ricerca di alcune sue novelle. - Marcè,
solo tu puoi trovarle, o nello “Svegliarino o nel Caffaro o nell’ateneo
ligustico dello Spotorno”. Una ha per titolo: “Impressioni sui monti delle
cave”, dalla quale, Ceccardo prese spunto per alcune poesie di “Apua
Mater”.
-
Manfredo Giuliani ed altri, hanno scritto che la disgrazia di
Ceccardo è stato Lorenzo Viani: lo ha dipinto come un don Chisciotte. Sarà…ma
lo stimava e gli voleva bene (e Ceccardo a lui: “A Lorenzo Viani – fratello
d’amore e d’odio – ora e sempre”). Viani ha scritto quattro libri
che parlano di lui, i primi due molto letti, e ristampati più volte. Sono: Ceccardo
– Il cipresso e la vite – Roccatagliata – Giovanin senza paura –
-Caro
Adriano Bologna; lo sai che il tuo amico, Luciano Viani, pittore, è
bisnipote di Lorenzo Viani? Sono andato alla sua mostra, a Marina di Carrara,
ti manda i saluti: vende addirittura un quadretto del bis zio. L’avrei
comprato…, ma vuole 1200 euro...Ciao, se ci sei sempre, batti un colpo.
-
La cosa che più mi ha affascinato in Ceccardo è questa: perché faceva
paura a tutti - “era spaventoso nella collera” - ed aveva tantissimi
amici che gli volevano bene? La
risposta la dà Montale: “Che corpo sproporzionato per quel cuore di
fanciullo. Per la strada camminava impacciato dalla sua grandezza... Un bambino
con piglio da eroe!” (Ai bimbi si vuol bene!). Quando uscì dall’ospedale,
ai tempi della sottoscrizione lanciata dal Corriere della Sera, che la subì
come un’umiliazione, era così povero che un medico gli mise due monete nella
tasca a sua insaputa. Nella strada trovò un bimbo con il “famoso verdone”
ferito. Ceccardo lo portò in una farmacia, lo curarono e medicarono, e le due
monete, che gli avrebbero permesso un paio di pasti, se ne andarono, come se ne
andò il verdone: “Che il grande o piccolo Dio degli uccellini, ti faccia
vivere nel suo cielo!” -
p.s. Anche un mio bisnonno
andò, nella Legione Straniera; anche lui tornò, ma, a differenza di Luigi,
restò, fece il muratore e dieci figli (promemoria per il numeroso parentado:
Algè, Parmì, Corì, Diana, Ugè, Carò – Paminò, Bak’iè, G’ièpe e Zighin, ‘l mi
nono).
In difesa dell’ombra di Giosuè
Carducci
Pieve
Pelago - Ceccardo riceve un telegramma: “Ti aspettiamo al piano
parlandoti la parola del dovere – Ave! Quelli di Apua”. Due
giorni dopo Ceccardo era al quartier generale di Viareggio. L’indomani
l’esercito apuano (“quintali d’intelligenze”) partì alla volta di Val di
Castello, due km e mezzo da Pietrasanta; ma anziché in formazione di
testuggine, dice Viani, su due carri mezzo sgangherati. Sul primo il Generale con tutto lo stato
maggiore, sul secondo “i giovani poeti”. Dopo una giornata di “battaglia”,
contro carabinieri e paesani ignoranti (impedirono brutti restauri alla casa
del poeta), Ceccardo dettò il telegramma per il ministro Credaro: «Propongo, in nome giovani poeti,
spoglia immortale Maestro sia trasportata a Roma – Nel Foro - Vegliata una
notte, e tumulata all’Aurora, al sommo dell’arco di Tito. - Ave», e così avverrà in
seguito.
Rientrati a Viareggio, Ceccardo, esausto, si
ritirò nella sua stanza: “Al mattino andai a svegliarlo - scrive Viani - era ancora disteso nel letto.
Aprii gli scuri, ed egli mi apparve nella sua immensità. Il grande corpo
ravvolto nel candore dei lenzuoli mi sembrò che si allungasse smisuratamente.
La testa sollevata sopra due guanciali era enormemente drammatica: la fronte
alta si eguagliava per chiarezza al bianco delle coltri, gli occhi cerulei si
affissavano nel vuoto, i capelli arruffati come due ciuffi di erba marina,
chiudevano la fronte. La bocca sensuale ed irosa si contorceva in una smorfia
dolorosa. Si sollevò. Era a torso nudo. Mamma mia…! Dalla parte del cuore la
carne era aggricciata intorno ad una orrenda ferita rimarginata da anni, ed
intorno ad essa una crivellata di sforacchiature annerite. Sull’avambraccio
sinistro un taglio profondo che scendeva fin sotto l’ascella, e nel costato un
enorme taglio lineare. Io lo guardavo terrorizzato, ed egli mi disse:
“Lorenzino, ubbidire non è il tuo
forte, ma quando il Generale ti chiama non ti dimenticare di queste ferite”.
Un’altra mattina - scrive Viani - ritornai a trovarlo. L’ampia fronte, chiomata
di capelli arruffati, emergeva col suo pallore, sul viso un po’ più scuro.
“Ceccardo – gli dissi – tu soffri”. “No, è qualche asse riscaldato: lo Generale
d’Apua è finito Lorenzo. L’umore è nero d’inchiostro. Il nero è nell’anima mia,
e più miglioro, e più mi vien fuori senza pietà, come a certi animaletti di
mare. Temo che questa malattia sarà senza rimedio” (poliartrite acuta). (Per queste ferite fu riformato e non poté
andare, con gli amici, volontario alla Grande Guerra: Il suo cruccio: ma
s’impegnò con un’incessante propaganda, in tutte le piazze d’Italia, tanto che
sulla lapide della casa natia, in via Caffaro, è scritto: POETA e PATRIOTA).
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La prosa d’arte di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi.
di Francesca Bello
Poeta e scrittore complesso e contraddittorio, Ceccardo nasce a Genova, città
ormai prossima a celebrare il quarto centenario della scoperta dell’America,
aperta ad ogni innovazione e con l’ambizione di diventare capitale culturale
del Sud-Europa, in sintesi una grande città internazionale. Per fare ciò, tutte
le città che vogliono essere importanti cercano di “inventarsi”, di darsi un
nuovo volto e lo fanno con tutti gli apparati possibili. Allora si inventano
un’immagine urbanistica (basta pensare alla recente reinvenzione del porto
vecchio da parte di Renzo Piano), artistica e letteraria.
Là dove ci sono grandi trasformazioni, ci sono anche le percezioni che alcuni
uomini hanno di queste trasformazioni. La Genova di fine secolo dove Ceccardo
viene a trovarsi è una città dove fervono i cenacoli letterari che erano
frequentati da nomi che poi diventeranno famosi, come Camillo Sbarbaro, e che
accoglievano in letteratura le istanze d’oltralpe dei poeti maledetti
(Baudelaire, Verlaine, Rimbaud) e nell’arte le innovazioni dei simbolisti e dei
divisionisti. In questo clima, dicevo, viene a trovarsi Ceccardo, uomo inquieto
e desideroso del nuovo, e già formato al nuovo per aver frequentato a Massa il
circolo culturale “La Pergola”, diretto da Giovanni Pascoli, suo professore di
Lettere al Liceo classico di quella città. Ceccardo fu uno dei primi a intuire
e, a tratti, a rendere grande la rivoluzione linguistica operata da Pascoli,
quando ancora quest’ultimo era sconosciuto.
Quando Ceccardo torna a Genova da Ortonovo, dopo la morte della madre e il
dissesto finanziario che seguì, vi giunge portandosi appresso un grosso
bagaglio culturale e la giusta inquietudine che lo rendeva disponibile e
recettivo ad ogni innovazione. Come dice egli stesso “Oh noi non possiamo che seguire l’evoluzione e commentarla: agevolare
il cammino ai futuri: che importa se dei nostri versi, se delle nostre prose
non sopravviverà neppure un frammento? (“Tra due secoli”, Gazzetta
genovese, 11/07/1898). Poi i contatti con i pittori impressionisti, come
Nomellini e Sacheri, hanno una grande influenza su di lui che ha bisogno di “dipingere scrivendo”.
Le prose di Ceccardo appaiono sui quotidiani dei giornali presso cui lavorava e
su “La Riviera ligure”, rivista
letteraria diretta dai fratelli Novaro e allegata alla confezione del famoso
Olio Sasso, prima come bollettino della società olearia e, subito dopo i primi
fascicoli, come rivista letteraria. Questa fu mediatrice della
sprovincializzazione dei poeti che vi collaborarono e collocò Ceccardo tra quei
poeti che, interpretando in senso pittorico il paesaggio, e l’anima della
regione, seppero trasferire il patrimonio regionale dalla Liguria al contesto
storico nazionale e poterono così entrare a far parte della Letteratura
italiana.
Le prose di Ceccardo, oserei dire quasi tutte, pur trattando diversi argomenti
che sfiorano anche temi filosofici, come quelle de “La Riviera ligure” per
esempio, toccano i vertici più alti proprio nelle descrizioni del paesaggio e,
proprio come gli impressionisti, nella “impressione visiva”, nella sensazione
che il paesaggio dà allo scrittore e quindi, di rimando, al lettore. Il gusto e
l’uso sapiente della parola, certamente eredità pascoliana, trasformano un
semplice articolo da quotidiano in prosa lirica.
Proiettato verso il ‘900, ma ancora saldamente ancorato all’800, Ceccardo in
questo periodo appare migliore prosatore che poeta (1895). La poesia con le sue
costrizioni metriche non era ancora il registro su cui poteva spiegare il suo
dire né il suo canto ed inoltre non poteva appagare la sua urgenza descrittiva
che era troppo forte.
A dimostrare questa indubbia insofferenza per gli schemi troppo rigidi sta
l’entusiasmo nell’aver accolto, uno dei primi, il verso libero di Walt Withmann
che egli definiva “ il grande poeta
americano libero e selvaggio come l’albero della vergine terra, l’umanitario
ardente che abbraccia nella sua canzone l’esquimese dalla pelle di renna e il
cafro dal muso di scimmia, il genio che per il primo ha calpestato tutte le
antiche e moderne convenzionalità delle rettoriche e delle accademie, abolita
la rima, e rinnovata la metrica…” (“Tra due secoli”, Gazzetta genovese,
11/07/1898).
Questa superiorità del prosatore sul poeta è spiegabile in quanto nella prosa
egli ha la possibilità di curare assai meglio i particolari, di esprimere,
attraverso un attento lavoro di cesello sulla parola, le “nuances” di colori e
di ritmo di cui ormai era divenuto esperto.
“Suona allegramente il campanile di
Ortonovo, mentre qualche sparo di fucile o mortaretto rintona” oppure “I tetti gocciano, gocciano gli scheletri
degli alberi”.
Si può perciò affermare che le
prose hanno avuto l’inconsapevole funzione di preparare il terreno alla poesia
o – per dirla con un motivo “sereniano” diventato quasi un “topos” -
di esserne “gli immediati dintorni”.
All’opposto di Vittorio Sereni, però, che considerava le sue prose come
immediati dintorni della poesia (la poesia è centrale), leggendo Ceccardo sorge
legittimo il sospetto che in lui fosse “centrale” la produzione in prosa e
periferica quella poetica (almeno in questo periodo).
Infatti in questo momento Ceccardo esige dalla prosa quella coerenza
lirico-musicale che il poeta chiede alla poesia in versi ed egli poté
raggiungere questo obiettivo attraverso lo studio della parola, delle
assonanze, della costruzione del periodo. Per questi motivi potrebbe essere
considerato a buon diritto un anticipatore della prosa poetica e della tecnica
moderna. Infatti nelle prose migliori egli tende sempre al raggiungimento di
effetti lirico-pittorici che rimandano ai modelli dei simbolisti francesi e a
quelle imitazioni o meglio ricostruzioni derivate da Rimbaud e Verlaine e che
sono la testimonianza di una precisa consonanza poetica.
A tale scopo basterà ricordare “Les
petits poèmes en prose”, meglio conosciuti in Italia come “Lo Spleen di Parigi”, e “Les fleurs du mal” di Baudelaire, anche
se in Ceccardo mancano le implicanze sociali del famoso maudit.
E così Ceccardo anticipa la moderna prosa d’arte, zona impalpabile di confine
fra prosa e poesia, di cui già Leopardi aveva sentito la necessità scrivendo le
“Operette morali”.
Come ho già detto, la produzione in prosa comprende anche scritti filosofici,
apparsi soprattutto su “La Riviera ligure”.
Se, a questo punto, facciamo una distinzione fra la prosa d’arte e i saggi
filosofici, si può notare che Ceccardo eccelle nei primi, anche se il tono
lirico non è costante, mentre nei secondi appare talvolta forzoso e spesso non
sorretto da una ispirazione adeguata.
Quindi, sintetizzando, la produzione iniziale, compresa fra il 1891 e il 1894,
contraddistinta dall’ispirazione realistica e dalla descrizione per immagini,
comunanza di Ceccardo con i pittori impressionisti Plinio Nomellini e
Alessandro Sachesi, risulta la migliore, anche se la fantasia opera, per così
dire “a lampi”, in rapidi quadretti secondo la tecnica divisionista. L’elemento
più suggestivo della prosa ceccardiana è nella natura che si anima, nel saggio
uso dei colori di cui preferisce le tinte pastello e il grigio. Egli dipinge
più che descrivere, ama le personificazioni e le stagioni di mezzo, soprattutto
l’autunno. Come poeta della malinconia ama la luna, come poeta del dolore ama
la morte liberatrice. Ed è anche poeta religioso in senso romantico: la
religione delle proprie radici, della propria terra.
Ecco alcuni brevi passi che riassumono Ceccardo pittore-prosatore e Ceccardo
poeta.
Da “Foglie morte” (La Gazzetta del popolo della domenica, 01/11/1891)
“Vorrei ancora vedere i lunghi pomari biancheggianti di fiori, le snelle
rame de’ mandorli, de’ peschi, punteggiate di bocciuoli rosei, fremere a
Favonio, ed occhieggiar le viole di cespugli verdi di fogliette pur ora nate,
fra i ciuffi teneri delle erbe novelle […] L’anima s’accascia, il cuore piange […]
io che al tempo allor gridai: cammina.”
Da
“Note borghigiane” (La Gazzetta del
popolo della domenica, 02/04/1893)
“La processione cammina lentamente,
allungandosi pei colli della borgata, tra le case grigie, i terrazzi antichi, allumati
dalle lucerne, dalle lumachelle che i buoni villici hanno posto sui davanzali
di macigno […] Poi finalmente esce dal paese, e per la strada, dalle vecchie
mura diroccate, fra gli oliveti tinti in rosso dai roghi di pelo, s’incammina
fantasticamente al Santuario del Mirteto, distante poche centinaia di metri.
Davvero che allora fa una effetto stupendo la processione, vista dal borgo: la
processione coi suoi mille punti ardenti che appaiono e scompaiono fra le
siepi, i tronchi e i rialzi di terreno, coi suoi mesti salmi perdentisi nella
notte buia, nella valle cupa, dove la Parmignola non vista urla![…][…]Intanto a
poco a poco i roghi di pelo sui muriccioli, per le stradette, sui ciglioni
muoiono, muoiono le lumachelle e le lanterne sui balconi; un negro silenzio
avvolge il borgo deserto e i boschi grigi […]
“Certo lunghe storie d’amore raccontano
le campane alle pendici, alle pianure, ai mari, ai cieli in quel giorno, perché
dopo dovunque è sole, profumo e gioia; perché dopo per molto tempo, non si
vedono più brume, ma idilli e fiori sbocciati a milioni e milioni”.
Da “Strade di campagna” (La
Gazzetta del popolo della domenica, 29/07/1894)
“Le vie maestre – bianche e larghe – nel vecchio piano sono due o tre:
si torcono tra mezzo a’ campi; salgono, scendono, finché non tocchino i borghi:
a destra e a manca sono sempre molte siepi di pruni, dei pergolati lunghi e
qualche casolare, e lassù presso i pioppi della Parmignola, qualche molino […]
ma le viuzze verdi – le piccole strade di campagna – tra due muri di macigno,
larghe un palmo, lunghe un ghiarete, a fianco d’una gora […] chi le ha mai
contate?
E pure quante ne ricordo! […] “
“Variano
tutte e sempre; or son tappeti d’erbe, ora liste di margherite, di ranuncoli;
talora sparse di ciottoli, qualche volta anche invase da una gran fiotto di
grano piegatosi a un colpo di vento, e qualche volta quasi sbarrate da un
vecchio ceppo che v’ha gettata la ramaglia a traverso.
Qua e là il sole le fa tutte d’oro, tra mezzo; poi son pezzetti d’ombra su
fondi d’oro e talora anche ombre su ombre e soltanto qualche pizzico d’oro […]”
“E così via via le piccole strade verdi, le venuzze del piano vanno, vanno […]
Io le amo tutte, note ed ignote, battute e non battute, ombrose e solatie […]
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GLI EDIFICI DA SPETTACOLO DELL’ANTICA ROMA
di Giorgio Bottiglioni
I Ludi privati del medio-tardo
impero
Il secondo secolo d.C. vide
succedersi una serie di imperatori che portarono Roma ad un altissimo livello
di prosperità, di cui sono testimonianza numerosi monumenti che ancora oggi
costituiscono buona parte del patrimonio artistico della città. Basti pensare
al Mausoleo di Adriano –più noto come Castel Sant’Angelo-, al Pantheon nella
ricostruzione voluta dallo stesso imperatore, al tempio di Adriano costruito
dal suo successore Antonino Pio e oggi ben visibile a Piazza di Pietra, alla
colonna di Marco Aurelio davanti a Palazzo Chigi, per citare solo i più noti.
Tuttavia per incontrare nuovi edifici da spettacolo, dopo quelli stupefacenti
fatti costruire dell’imperatore Domiziano, si deve passare all’inizio del III
secolo, quando prende il potere a Roma la dinastia dei Severi. Settimio Severo era un militare originario
della provincia africana ed aveva sposato la siriaca Giulia Domna, figlia di un
sacerdote di un culto orientale. Di fatto con Settimio Severo il potere
dell’imperatore non ha più bisogno del beneplacito del Senato, né tanto meno
del popolo, in quanto si regge sul favore delle truppe militari e viene
investito di un’aura divina secondo le usanze dei monarchi ellenistici del
vicino Oriente. Così i nuovi edifici da spettacolo, progettati essenzialmente
per il piacere dell’imperatore e dei suoi amici, vengono costruiti all’interno
di ville private suburbane. È questo il
caso della villa denominata Horti Variani ad Spem Veterem più nota col nome di
Palazzo Sessoriano. Si tratta di un
grande complesso, situato a pochi passi dalla Chiesa di San Giovanni in
Laterano, voluto da Settimio Severo e completato dall’imperatore Elagabalo,
successore del ben noto Caracalla, nel 222.
Della villa facevano parte un nucleo abitativo, di cui è stato possibile
evidenziare una grande sala centrale poi utilizzata per la costruzione della
Chiesa di Santa Croce in Gerusalemme, le Terme Eleniane, così chiamate in onore
di Elena, madre dell’imperatore Costantino che qui spostò la sua dimora,
l’Anfiteatro Castrense e il Circo Variano. Dei due edifici da spettacolo sono
ben evidenti soltanto i resti del primo. Del secondo Anfiteatro di Roma- il
primo è naturalmente il Colosseo! - si
può avere un’ottima visione fra Viale Castrense e Via Nola, dove le mura
Aureliane sembrano impostare una strana curva: in realtà l’imperatore Aureliano
(270-275) sentiva a tal punto l’urgenza di dotare Roma di mura difensive da
inglobare nelle mura stesse tutti i monumenti che si trovavano sul loro
percorso, così da affrettare i lavori. L’Anfiteatro Castrense non è quindi oggi
un monumento a sé, ma deve essere distinto dalle mura che lo inglobano,
esattamente come accade per la Piramide di Caio Cestio ad Ostiense. Il nome
deriva da Castrum, in latino classico “accampamento militare “, ma più tardi
utilizzato anche col significato di “dimora imperiale “. Ben conservato fino al
terzo ordine ancora alla metà del XVI secolo, fu allora per necessità difensive
ridotto al primo piano. L’Anfiteatro ha una pianta tendente al circolare (m. 88
x75,80) ed è costruito interamente in mattoni, tranne pochi elementi in
travertino; della Cavea non resta quasi nulla in quanto divenne ben presto cava
per materiali da riutilizzo.
Curiosamente il manto stradale odierno è più basso rispetto a quello di epoca
romana e dall’esterno affiorano parti delle fondamenta dell’Anfiteatro. L’interno
dell’edificio è sede dell’orto botanico dei monaci cistercensi di Santa Croce
in Gerusalemme e rispecchia perfettamente la struttura dell’antico monumento.
Un grandioso corridoio coperto collegava l’Anfiteatro col Circo Variano.
In nome di quest’ultimo deriva direttamente dalla famiglia dei Vari cui apparteneva
l’imperatore Elagabalo. Di questo edificio, al cui latro minore rettilineo si
appoggiarono in origine le Mura Aureliane, non restano che lievi tracce. Misurava
m. 565x125 e, come tutti i circhi dell’antichità ospitava corse di carri. Sulla
spina Elagabalo volle erigere l’obelisco di Antinoo, fatto trasportare
dall’Egitto da Adriano, in memoria del suo amato giovinetto morto prematuramente
nelle acque del Nilo. Di fatto oggi questo obelisco è l’unico ricordo del Circo
Variano e si può ammirare all’interno di Villa Borghese sul Pincio. Tra il 235,
anno della morte di Alessandro Severo, ultimo discendente della dinastia dei
Severi, e il 284, l’impero passò di mano in mano, risultando impossibile
fondare una nuova dinastia rendere stabile il potere: esautorato ormai da tempo
il potere del Senato, i vari reparti dell’esercito proclamavano imperatori i
loro comandanti. In breve, nel giro di un cinquantennio, si avvicendarono ben
21 imperatori. Conseguenza di questo clima politico instabile fu una grave
crisi sia dell’economia sia dei valori culturali. Con Diocleziano, dal 284,
inizia un periodo di ricostruzione dell’assetto amministrativo dell’impero
rendendo migliore e più solida la gestione del potere. Tra la fine del III e
l’inizio del IV secolo vengono innalzati gli ultimi grandi monumenti della Roma
antica.
Tra tutti spiccano le Terme di Diocleziano, nella cui aula centrale è stata
ricavata la Basilica di Santa Maria degli Angeli, e la Basilica di Massenzio,
entrambe ritoccate da Costantino. Massenzio si fece costruire fra il 306 e il
312 una grandiosa Villa sull’Appia, dove fece accostare tre elementi: palazzo,
mausoleo e circo. Nell’ottica restauratrice imposta da Diocleziano e perpetuata
dai suoi successori l’accostamento di questi tre edifici assumeva profondi
valori. L’unione del mausoleo al palazzo infatti è espressione della sacralità
imperiale, mentre nella connessione fra palazzo e circo è esplicitato il
rapporto tra imperatore e sudditi che, secondo il cerimoniale aulico, avveniva
proprio in tale struttura. Il legame fra mausoleo e circo invece si giustifica
nell’ottica omerica dei giochi presso la tomba del defunto. Fortunatamente sono
visibili oggi ancora molti resti di questa splendida villa; il primo edificio
che si incontra è il mausoleo detto di Romolo, dal nome del figlioletto
dell’imperatore, annegato nel Tevere e in seguito divinizzato, ma in realtà
destinato a tutta la famiglia. Dietro il mausoleo si ergeva su una collinetta
il palazzo vero e proprio dell’imperatore, di cui oggi emergono i resti di
alcuni ambienti termali, il criptoportico e al di sopra di questo l’aula
absidata, la sala principale destinata alle riunioni e alle cerimonie
pubbliche. Il circo di apre nella valle subito a est del palazzo ed è
l’edificio meglio conservato di quelli del suo genere; era costruito totalmente
in laterizio ed era lungo 520 metri, con una larghezza nel punto più ampio di
92 metri. Essendo riservato alla famiglia imperiale e agli amici, era in grado
di ospitare solo 10.000 spettatori – il Circo Massimo, per confronto, ne poteva
ospitare 150.000-. Massenzio volle decorare la spina con un obelisco che
Domiziano aveva posto nel giardino del tempio di Iside al Campo Marzio; questo
obelisco oggi è a Piazza Navona, collocato da Gian Lorenzo Bernini sulla
fontana dei 4 Fiumi del XVII secolo. Il buono stato di conservazione in cui si
trova ancora oggi questo edificio è dovuto al fatto che poco dopo la sua
inaugurazione l’imperatore Massenzio venne sconfitto da Costantino a Ponte
Milvio e tutta la villa venne abbandonata a se stessa: praticamente il circo
non fu mai utilizzato, come prova l’assenza delle tracce della sabbia che
avrebbe dovuto coprire la pista. Con l’editto di Costantino del 313 i fedeli
cristiani smettono di esser perseguitati e il messaggio di Gesù si diffonde in
tutto l’impero e in ogni classe sociale. In breve tempo mutano radicalmente i
costumi dei romani e si iniziano a criticare gli spettacoli pubblici fine a
bandirne la realizzazione. Il popolo si sposta dai teatri, dagli anfiteatri dai
circhi e dagli stadi dentro le chiese alla ricerca di nuove risposte agli
interrogativi della vita!
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Benvenuta Estate
di Marta
Siamo arrivati agli ultimi
giorni degli esami, lo sforzo dei ragazzi nel ripasso di tutte le materie,
l’ansia di superare con buon esito la fine del lavoro di un anno intero. E poi
pensare al dopo (!!) che ci porta, a tutti finalmente, un po’ di rilassamento, perché,
la scuola, direttamente o indirettamente, ci coinvolge tutti. La famiglia con
figli, i nonni con i nipoti, le alzate mattutine, le colazioni veloci, i turni
di lavoro, etc. Il sole è già caldo, subito al suo risveglio, ed in tarda mattinata
si fa ancora più sentire: così già incominciamo a programmare come saranno le
nostre vacanze. Per chi ama la montagna, tante sono le occasioni, come
percorrere a piedi gli antichi sentieri, o mulattiere che le nostre Apuane
offrono agli appassionati, oppure, anche a cavallo seguendo i passi che la
forestale mantiene puliti per monitorare eventuali incendi o smottamenti. Il
contatto con la natura, paesaggi incantevoli, i colori delle Apuane, del bianco
marmo, al rosa dei monti riflesso del sole all’imbrunire, con un cielo
turchino, che sembra di poter toccare con un dito. Per quelli che amano
visitare i nostri paesini dell’entroterra, c’è solo l’imbarazzo della scelta.
In estate, questi borghi si risvegliano mettendo in mostra tutta la loro bellezza
fatta di armonia tra le case di pietra e l’ambiente incontaminato che le
incornicia, l’arte delle chiese antiche, i castelli di antichi linguaggi,
nonché gli intrattenimenti gastronomici e di costumi di epoche lontane, e
accompagnano il visitatore con gentilezza, lasciando loro un ricordo indelebile
del bel tempo trascorso, e, perché no ?!.. l’arricchimento della propria
cultura. Per gli appassionati del mare, solo la parola mare, riempie di gioia,
si pregustano gli innumerevoli bagni durante il giorno, le gare di nuoto tra
ragazzi, per chi arriva primo alla boa.
Le remate con il pattino, la pesca col retino dei più piccoli dagli scogli. Il
gustare il gelato sotto l’ombrellone, respirare l’aria di incenso sotto una
bella pineta, le scorrazzate per stradine secondarie in bicicletta e le famose
serate in pizzeria, tutto questo in allegra compagnia, con i propri familiari,
ma soprattutto con gli amici del cuore. Buona e Felice Estate a tutti.
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NARDINO GRASSI
di Stefania Grassi
1°
Anniversario
NARDINO
GRASSI
2/07/2017 2/07/2018
Ciao
Papà è già trascorso un anno, ma sembra ieri.
Ora riposi vicino alla mamma.
Ricordati di noi.
Un
abbraccio e una preghiera da parte dei tuoi cari.
Tua figlia Stefania
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LO STENDARDO DELLA MADONNA DEL MIRTETO
di P .Mario Villafuerte rettore
A motivo dello stato di
degrado in cui si trova lo stendardo del Santuario e visti i costi economici,
nonché i problemi burocratici con la Sovraintendenza delle Belle Arti, che
significherebbe il restauro, alcune persone devote alla Madonna si sono
interessate nell'informarsi sulla possibilità di far confezionare uno nuovo che
riproduca quello attuale. Abbiamo contattato una ditta di Parma che lavora in questo settore e si sono
resi disponibile al lavoro. Il preventivo è di circa tremila euro. Ci
piacerebbe poter realizzare questo desiderio ma al momento il Santuario non ha
la disponibilità economica e quindi abbiamo bisogno di una vostra mano! Se qualcuno dei lettori del “Sentiero” vuole unirsi con una offerta mi può
contattare direttamente allo 340 7744355.
Grazie a nome del Santuario.
P. Mario.
P.S. Questo era l'appello
preparato per il mese scorso che poi ho detto a voce ai fedeli presenti nel
Santuario il 31 maggio. Avendo avuto parere favorevole da parte dei presenti,
abbiamo provveduto ad ordinare il nuovo stendardo. Alcune persone hanno già
dato la propria offerta. A loro diciamo grazie di cuore e promettiamo il
ricordo nella preghiera davanti all'immagine della Madonna del Mirteto. Agli
altri incoraggiamo ad unirsi a questa manifestazione di affetto verso la
Madonna e il suo Santuario.
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